Scrivere un libro ai tempi del Covid –19

È vero, la solitudine può aprire nuovi mondi e, a lungo andare, solleticare la creatività. Ma scrivere libri, nella nostra epoca, era già un must. Inutile negarlo. Ora, dopo una reclusione di mesi, con l’unico conforto dei mezzi di comunicazione di massa e del frigorifero pieno, ci sarebbe da scommettere che un italiano su dieci, volendo essere cauti, abbia già una nuova proposta editoriale da piazzare sul mercato “quando tutto sarà finito”, specie nelle aree meno colpite, come la mia.

Pure è cosa nota che il mondo dell’editoria, quotidianamente preso d’assalto da quanti offuscati dai loro sogni non se ne sono accorti, è già al collasso da molto tempo: in altre parole, si stampano più libri di quanti non se ne leggano.

Come possa evolvere questa situazione ai tempi del Coronavirus, è presto detto. E lo dice fra l’altro un articolo comparso il 2 aprile su la Repubblica, che aggiorna i dati già comparsi il 23 sulla pagina de Il Libraio: la prognosi dell’Osservatorio Associazione Italiana Editori sull’impatto che l’emergenza avrà in prospettiva nel settore in questione nel corso del 2020 è assolutamente infausta. Al 23 si prevedevano infatti 18.600 titoli stampati in meno rispetto al 2019 – per un totale di quasi 40 milioni di copie stampate in meno – e una deflessione delle traduzioni, meno 2.500 titoli. Al 2 aprile il crollo stimato sale al 75%, con ben 23.200 titoli in meno sugli scaffali. La chiusura delle librerie fisiche e le difficoltà di approvigionamento di quelle online, la necessità di rimandare presentazioni ed eventi pubblici, rendono questo settore uno dei primi ad essere colpiti dall’inevitabile crisi economica alle porte, e pare che il 64% degli editori italiani sia già ricorso alla cassa integrazione.

È arduo prevedere quali saranno gli esiti a lungo termine di questa situazione rispetto alla qualità delle nostre letture, come il mondo dell’editoria si evolverà per sopravvivere ed eventualmente rinascere, come ha già dovuto fare molte volte, soprattutto nel nostre paese.È arduo pure immaginare come cambieranno le pubblicazioni e quali ne saranno i temi futuri: certo risentiranno fortemente di un evento dalla portata storica così imponente che ancora ci sfugge nella sua interezza. Ma la cosa che più va tenuta d’occhio è la loro qualità. Non sappiamo infatti se cioè, dovendo fare una scelta, ci ritroveremo a stampare – e a leggere – solo odiosi bestsellers, se per un pezzo in quasi tutte le grosse pubblicazioni ci saranno rimandi alla pandemia – perché, come si dice in questi giorni nell’ambiente, “ormai si parla solo di quello”, e “la gente vuole sapere”. O se invece, miracolosamente – visto che non è affatto vero che tutti in isolamento leggono – ci sarà un ritorno, almeno parziale, all’editoria di qualità, se vincerà la strategia del rifugiarsi nella nicchia ecologica del ricercato e del prezioso – anche quando inevitabilmente quel qualcosa tratterà più o meno apertamente l’argomento noto.

Nel frattempo, temo che quelli col sogno nel cassetto continueranno a scrivere, che sia un sogno degno di stampa o meno. Che ne sarà di loro? Saranno sommersi dall’onda anomala della pandemia, come una specie vivente priva di mezzi sufficienti a sostenersi e a galleggiare in tempi che mettono duramente alla prova il talento? O vincerà comunque chi è disposto a pagare per dar voce al proprio ego? In realtà non sappiamo con certezza nemmeno questo. Ma per evitare il peggio e riflettere, senza per questo assolutamente rinunciare alle giuste aspirazioni di ognuno, consiglio a questo proposito di tentare di procurarvi un libro assai crudele di Fabio Mauri, recentemente riedito da Longanesi a distanza di quasi trent’anni dalla prima uscita, che il Corriere della Sera ha recensito all’inizio del lockdown attraverso la penna di Paolo Di Stefano, e che merita indubbiamente di essere letto.

Si chiama “21 modi per non scrivere un libro”, e ha una prefazione di Umberto Eco. È dedicato a quelli che Di Stefano definisce i “manoscrittari” – come dicevo poc’anzi, forse se ne nasconde uno in una buona parte di noi – ovvero i soggetti che affollano di pile di fogli le redazioni delle case editrici meritando le risposte più truci – e il libro parla comunque di un tempo in cui le redazioni erano meno affollate, e potevano ancora rispondere. Prima di ricevere anche noi risposte imbarazzanti, o di essere semplicemente cestinati, forse conviene leggerlo.

Anch’io, che pure in maniera assolutamente fortuita ho pubblicato un mese prima del picco, garantisco che per profilassi cautamente lo farò.


Giulia De Sensi

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