Testimonianze | Il mio spazio vissuto

Descrizione della ricerca


Memoranda. Memorie, riflessioni, racconti per il futuro

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La vita frenetica e i ritmi folli del quotidiano tra lavoro e impegni vari mi avevano fatto smarrire quanto di più importante era, per fortuna sopravvissuto dentro di me ed attendeva di riemergere. Sono un bidello che ha preso l’aspettativa (a dodici anni dalla laurea in filosofia) per insegnare. Mi è stata assegnata una cattedra sul sostegno in una scuola superiore nel forlivese. A parte i limiti della didattica a distanza, sono riuscito a mantenere una relazione costante con i miei studenti narrando e musicando storia con la chitarra. Da questa esperienza mi sono accorto che la passione per la musica, tralasciata negli anni a causa dell’affannosa ricerca di un’occupazione e di una stabilità, doveva essere ripresa. In questo senso, ho ripreso a comporre brani musicali con la chitarra e ho preso contatti con un maestro di strumento. Accanto a questo ho ritrovato altri piaceri sopiti: la lettura, la scrittura letteraria e filosofica, la cucina. Ho compreso l’importanza degli affetti dalla compagna fino ad amici e famiglia e ho iniziato un percorso di recupero e coltivazione qualitativa di queste relazioni, vittime di questa fretta generale cui l’economia condanna gli uomini.

Carmelo, 39 anni, Forlì

 


I giorni dell’isolamento sembrano ormai lontani, da qualche settimana non siamo più obbligati a restare a casa, possiamo uscire e respirare l’aria di fuori, possiamo tornare al nostro lavoro, alle nostre abitudini, anche se non siamo ancora fuori pericolo, anche se le nostre abitudini in realtà sono cambiate. È cambiato il nostro modo di fare e di esperire le cose, di vivere e di pensare alla vita.

Indossiamo le mascherine, igienizziamo spesso le mani, rispettiamo la distanza di sicurezza nei luoghi pubblici, negli autobus, al bar, dal dentista o dal parrucchiere, facciamo la fila per entrare nei negozi o per portare i bambini al parco, qualche volta dobbiamo misurare la febbre prima di poter usufruire di un servizio e rispondiamo a legittimi quesiti sulla nostra salute, e se proviamo ad abbracciare e baciare un amico dobbiamo aspettarci che ci facciano la multa.

Nuove regole governano le nostre giornate, ma i nostri desideri, i nostri obiettivi, le nostre paure, sono altrettanto nuovi? o sono sempre lì, un poco camuffati e recalcitranti a qualsiasi cambiamento? L’emergenza sanitaria e le conseguenti restrizioni mi hanno fatto ripensare a quanto labili siano i nostri confini, le nostre certezze, le nostre presunte conquiste, e a quanto resistenti siano, invece, le nostre fragilità, le nostre insidiose e rassicuranti illusioni.

Quando tutto è cominciato, al principio della quarantena, non mi mancava scendere per strada e incontrare la gente, ero più concentrata su quello che avrei dovuto e potuto fare, e su come mi sarei sentita pronta, una volta libera di uscire, di ricominciare. Ero serena, avevo tutto sotto controllo. Politici, giornalisti, artisti, atleti, gente famosa, ma anche comune, tutti continuavano a ripetere che sarebbe andato tutto bene. Ovviamente anch’io ne ero convinta, così mi ripromettevo ogni giorno di fare qualcosa, qualsiasi cosa nel frattempo potesse aiutarmi a vivere pienamente le mie giornate.

Pensavo che da questa inaspettata esperienza avrei tratto quantomeno degli insegnamenti, che sarei riuscita in qualche modo a gestirla, a comprenderne e a piegarne gli effetti a mio vantaggio. Invece, i giorni passavano e con essi le mie certezze. La notte non riuscivo a riposare bene, avevo gli incubi, e, mentre le notizie sul virus e sui nuovi contagi si susseguivano una dopo l’altra, io cercavo di orientarmi e di ritrovare il mio posto in uno spazio angusto, che non era quello della mia casa, ma quello, infido, della mia mente.

Paure e insicurezze stavano tornando a galla e, come scorie ostinate e mai del tutto divelte, mi rammentavano che ben presto avrei dovuto fare i conti con tutto ciò che non avevo ancora affrontato e che avevo lasciato tacitamente in sospeso nel mondo esterno.

La quarantena si era rivelata una comoda bugia, una scusa per chiudermi in me stessa, nei miei pensieri, nelle mie contraddizioni, e più provavo a mantenere i contatti con la realtà più diventava semplice per me eluderla. Tutto era immobile, surreale, anche il tempo sembrava essersi arreso, rinunciando, dimesso, a ogni pretesa di perenne e indomita inarrestabilità.

Ma una mattina ho aperto la porta di casa e, come al risveglio da un lungo sonno, ho dimenticato tutto. Perfino il dolce e magnetico cinguettare della natura, che, dalla mia finestra, mi aveva raggiunto anche in quel particolare giorno, non era riuscito a rammentarmi di quel perenne lavorio, di quel procedere intimo e lento, che, con fatica, avevo cercato di comprendere e che ora stavo lasciando indietro per cambiare passo e ricominciare a vivere.

Genny, 41 anni, Palermo


 

La mia quarantena itinerante

15 marzo 2020. Il lockdown mi ha sorpreso in Perù: ero una turista in un Paese che dei turisti non sapeva più che farsene; come se non bastasse, arrivavo dall’Italia proprio dalla zona rossa – la Lombardia -, quindi facevo paura; nell’immaginario collettivo non ero più “pizza e mandolino”, ma portatrice di Covid-19.

Lo spazio della mia quarantena per due settimane è stato quello di una piccola stanza, la condividevo con la mia amica Maria, dormivamo in un materassino gonfiabile e un sacco a pelo, era un alloggio di fortuna offerto da una famiglia di nostri amici peruviani che ci hanno accolto e sostenuto come se facessimo parte della loro famiglia… solidarietà e generosità allo stato puro, non finirò mai di ringraziare Eliphas, Alessandra, i loro bimbi Nicola e Andres e soprattutto nonna Gianna.

Dal terrazzo, ogni mattina, ammiravo in tutto il suo splendore El Misti, il grande vulcano che domina la città di Arequipa, mi dava la forza per affrontare un nuovo giorno.

La sera, i tramonti esplodevano all’improvviso; ad un tratto, il cielo si colorava di porpora; le nubi sembravano riempirsi di sangue; mi sembrava la manifestazione di un girone dell’inferno dantesco, tanta meraviglia mi lasciava un senso di inquietudine.

Il silenzio della  notte era interrotto dalla sirena della polizia che pattugliava il quartiere, le luci dei lampeggianti penetravano dalle finestre proiettando ombre sinistre sui muri, poi tutto taceva.

28 marzo: finalmente si torna a casa, l’Ambasciata ha ottenuto i permessi per evacuare i turisti.

Si parte! 4 km a piedi per le strade deserte di Arequipa, trasportando due grosse valigie, non è stato possibile trovare un mezzo che ci potesse accompagnare; taxi e mezzi privati non potevano circolare pena l’arresto; dopo un’ora di camminata, arrivo all’appuntamento, nella piazza si erano già raggruppati una cinquantina di turisti tutti italiani; un autobus ci avrebbe portato a Lima con un viaggio di 20 ore circa fra le Ande, percorrendo la Panamericana tra colori e paesaggi mozzafiato.

Quando il giorno ha dato spazio alla notte, le stelle hanno riempito il cielo, l’autobus si è fermato per farci ammirare quello spettacolo, siamo rimasti in rispettoso silenzio rapiti da tanta bellezza, mi sono sentita un piccolo puntino sperduto nell’universo.

Sono arrivata a Lima in tarda mattinata, era sconcertante la presenza massiccia dell’esercito per le strade, sembrava una città assediata: posti di blocco ovunque e militari in tenuta da guerra, ci hanno scortato e confinato in un albergo vicino l’aeroporto militare da cui saremmo partiti due giorni dopo; la camera era grande e confortevole, il tempo era scandito dai pasti che ci portavano con regolarità e dai notiziari che ci tenevano aggiornati. Dalla finestra vedevo il grande parcheggio dell’aeroporto; di giorno tutto era immobile, la notte si animava illuminato dal faro dell’elicottero militare che faceva la ronda.

Finalmente, arriva la notizia, il volo è confermato, si torna a casa. Ci hanno scortato all’interno dell’aeroporto militare; i controlli sono stati lunghi e scrupolosi; dopo qualche ora salgo la scaletta dell’aereo, ho provato un ‘emozione grandissima.

Il viaggio prevedeva uno scalo a Cancun e poi diretto fino Milano.

Ho sorvolato una parte di mondo, le luci delle città brillavano, ma tutto intorno era immobile e ho visto con i miei occhi che il mondo si è fermato, si è fermato davvero.

Non trovo le parole per spiegare cosa si prova a sapere che sei uno dei pochi aerei che attraversa il cielo: tutto è fermo e tu ti muovi.

Questa è la storia della mia quarantena itinerante, paradossalmente finita al mio arrivo in Italia.

Sono un operatore socio-sanitario, lavoro in ospedale, sono rientrata subito in servizio.

Distanziamento sociale è la parola d’ordine, questo virus ci vuole allontanare, ma io credo che il mondo intero non sia mai stato così vicino, e insieme ce la faremo.

Giovanna, 48 anni, Varese

 


 

All’improvviso mi svegliai da un brutto sogno, e mi fu detto che in Italia si era ormai propagata quella pandemia che tutti temevamo. Ero fuori dalla mia regione di residenza, per motivi di lavoro, e l’avanzamento del virus mi ha segnato profondamente. Furono giorni intensi e molto particolari e mi ricordo ogni istante di quei momenti. La paura che succedesse qualcosa alla mia famiglia era il chiodo fisso dei miei pensieri. Giorni così non ne ricordo sino a oggi – durante la mia vita. Momenti così duri, lunghi, riluttanti, non ne ricordo a memoria.  Il viaggio per tornare a casa, dentro  un autobus, è uno dei momenti che custodisco nella scatola dei ricordi di quei giorni. Un viaggio che sembrava fosse infinito. Sembrava che non riuscissi a trovare la strada verso casa. Durante questi attimi, i pensieri continuavano a scandire il passaggio delle ore e mi facevano interrogare la mia coscienza.  Mi domandavo: ma che cosa sta succedendo alla nostra Italia? Cosa ci capiterà in futuro? Non riuscivo a trovare risposte esaustive a questi miei pensieri e nonostante cercassi di volgere lo sguardo verso l’orizzonte, non trovavo risposte. Tutto era cupo e tutto era infinitamente negativo. Fortunatamente arrivai a casa, tutto passò, nonostante i primi quindici giorni li dovetti passare senza mia moglie e mio figlio per una quarantena obbligatoria. Tornare a casa e vedere il paese completamente deserto, per via del lockdown, fu un altro tassello che difficilmente dimenticherò. Sembrava la scena di un film del grande Sergio Leone, ovvero, i grandi film west all’italiana. Ma è proprio in questi momenti che dissi dentro di me: speriamo che tutto ciò passi velocemente. Vedere la tua città vuota, spenta, senza rumori, è un’immagine che difficilmente si può dimenticare. Spero in cuor mio, come sperai all’epoca, che questa pandemia ci dia la possibilità di avviare una ricca ripresa. Speriamo che tutto ciò passi il prima possibile e che le mascherine restino solo un lontano ricordo.

Alessandro, 36 anni, Giurdignano (LE)

 


Quando è iniziata la quarantena ero piuttosto disorientata. A inizio febbraio ero tornata in Italia dopo cinque mesi di Erasmus, e, piano piano, stavo riprendendo confidenza con la mia casa: appena entrata, infatti, avevo provato una forte sensazione di smarrimento, perché non mi ricordavo che le piastrelle del pavimento fossero così rosa, oppure che il piano cottura fosse così basso e il soffitto così alto, e così via per ogni stanza in cui mettevo piede, come se fossi stata via una vita.

Poi, a furia di sistemare armadi e spolverare mensole, ho cominciato a riconoscerla e a pensarla di nuovo come “la mia base”, da cui ogni mattina sarei partita per raggiungere l’università, per poi ritornare la sera.

Da quando siamo costretti in casa, la mia base si è trasformata in una specie di labirinto. Dopo ore passate al computer o sui libri dell’università, comincio a girare di stanza in stanza senza capire dove voglio andare e cosa posso fare per distrarmi un’altra ora o due, finché perdo l’orientamento e la percezione del tempo.

Le videolezioni in diretta e le videochiamate con gli amici mi riportano alla realtà per qualche ora, ma poter parlare con qualcuno dal vivo è tutta un’altra cosa. Per fortuna in casa con me c’è mia madre, che da inizio aprile lavora da remoto. E poi viviamo in un condominio, in un quartiere abbastanza popolato, per cui ci basta uscire in giardino per poter scambiare due parole con i vicini dell’appartamento affianco al nostro, oppure con chi si affaccia dai balconi di sopra.

Il giardino, in effetti, si è rivelato una benedizione. Da tempo ormai era inutilizzato, mentre ora è diventato la nostra valvola di sfogo, l’unico contatto – non virtuale – con il mondo esterno. Spesso esco da sola e mi fermo a osservare il paesaggio all’orizzonte, mentre ascolto i rumori circostanti. Abbiamo tanti spazi verdi intorno: il fruscio degli alberi e il cinguettio degli uccelli si fonde con il vociare dei vicini che chiacchierano, tagliano l’erba oppure fanno le pulizie con la radio accesa. Anche i rumori che normalmente mi infastidiscono – come i bambini che urlano – ora mi sembrano più rassicuranti che mai, perché mi restituiscono un po’ di quella sensazione di “normalità”. Così, da quando ha cominciato a fare caldo, tengo la finestra della mia camera aperta tutto il giorno per ascoltare.

A., 20 anni, Seregno (MB)


 

LOCKDOWN.
Buongiorno Italia,
buongiorno ad un’Italia diversa da quella di ieri, ma apparentemente non così cambiata. Mi affaccio alla finestra e ascolto il silenzio. Vado a lavorare come ogni giorno e prendo atto che gli spostamenti sono ridotti al minimo. Col passare dei giorni si percepisce un cambiamento, qualcosa si sta muovendo là fuori, qualcosa di invisibile. Chiusura totale delle attività o quasi, affetti lontani anche se abitano in fondo alla via. La maggior parte della popolazione è a casa, si lavora in smart working, ci si mantiene in forma in casa, si leggono quei libri che avremmo sempre voluto leggere, si guardano quelle serie tv che abbiamo sempre rimandato, si telefona, si prende il sole, si cucina e si mangia. Non dimentichiamo, ovviamente, quel dramma terribile di andare a fare la spesa, mascherina, guanti, gel igienizzanti, distanza interpersonale. Questi sono i comportamenti che ormai sono entrati nella nostra quotidianità e nel nostro comportamento.

Flashmob, canzoni, luci e bandiere dal balcone poi… il silenzio. Le campane della chiesa che risuonano tristemente, le sirene delle ambulanze che echeggiano tra le strade.

PANDEMIA. Ogni giorno ci teniamo aggiornati grazie ai dati della protezione civile, contagi che crescono, deceduti che aumentato in modo esponenziale, guariti e dimessi. Fake news di ogni genere ci invadono. Crisi economica.

MIGLIORAMENTO. Finalmente i dati migliorano e ci rendiamo conto di quanto siamo fortunati. Vediamo una luce in fondo al tunnel, si parla di FASE 2, di aperture, di passeggiate, di visite ai congiunti.

FASE 2. Si inizia a lavorare ad orari ridotti, si inizia ad assaporare nuovamente una parvenza di normalità non dimenticandosi del nemico invisibile. Il nostro pensiero che si avvicina a medici, infermieri, alla protezione civile, ma anche a cassiere, farmacisti, impiegati bancari, forze di polizia che sono sempre rimasti operativi e molti altri. Possiamo farcela.

Forse i capelli sono troppo lunghi ed arruffati, e le unghie non eccessivamente curate, ma le persone sono più responsabili, più consapevoli, pronte a rispettare le regole per tornare alla normalità e lavorare uniti per rialzare l’Italia.

#BarbutiMaOttimisti.

Clarissa P., 24 anni, Sandigliano (BI)

 


 

1. “E fu così che al quarantesimo giorno di quarantena e di lockdown, sentivo di aver acquisito un naturale adattamento alle circostanze, per nulla simile, però, alla rassegnazione. Del resto anche da bambina alternavo giorni di grande socievolezza che mi portavano a scorrazzare per i vicoli con gli amichetti, a periodi di ricerca della solitudine, in cui mi immaginavo in mondi e situazioni diverse e varie rispetto al contesto quotidiano. Escludendo, dunque, le prime due settimane, quelle della dichiarazione dello stato di pandemia, in cui lo shock mi fece versare lacrime di fronte alla reclusione forzata ai fini del salvarci la pelle, oggi mi sto quasi astraendo dalla situazione. Comincio, infatti, a pensare che se l’Universo ci ha dato questa “punizione”, essa deve servire per redimerci, per farci evolvere, conoscendo più a fondo noi stessi. A tal fine mi sto concentrando sulle mie passioni: seguo le dirette di calciatori e relative alla mia squadra del cuore, e soprattutto seguo seminari olistici per il benessere dell’anima. Non mi concentro troppo sui libri, né mi distrae guardare film, circa la cucina, beh un po’ sì, ma non troppo mi prende. Faccio il punto su me stessa, e su tutti i sogni non ancora realizzati. Con gli amici cari, anche concittadini, si dialoga, comunque, tutto il giorno via social e sembriamo, per ora, ancora parlare la stessa lingua 🙂 Certe sere confessiamo di mancarci per non riuscire più a cenare insieme da qualche parte. Ecco la scoperta dei nuovi localini per mangiare o bere, il cinema i concerti, sì, quello ci manca. Il lavoro meno anche perché alcuni hanno continuato a lavorare sempre, e però proprio in marzo avrei dovuto lavorare per un evento annuale che, causa virus, è stato rinviato fino a data da destinarsi. E, però, non mi sono disperata per quello. E spero sarà solo rimandato. Oggi a pochi giorni da inizio fase 2, felice di respirare più vita nell’aria e nelle vie, sto invece realizzando per la prima volta che fuori casa è tutto molto pesante: sguardi vuoti dietro mascherine colorate. Occhi smarriti. Mi imbatto con amico caro e non possiamo abbracciarci, non possiamo darci appuntamento col gruppo “cenette dove?” Ci prende lo sconforto. Meglio tornare a casa tra i rumori del micio e di madre che brontola a me, perché la messa in piega che le ho fatto ieri non regge, al babbo perché scalpita per uscire non rassegnandosi alle imposizioni durante covid. Rispondo uffa, ma benedico il Cielo per aver casa ancora piena di voci ed esigenze varie, e di qualcuno che ti attende ed è felice che tu ci sia. Così come di questo periodo porto con me la disponibilità del mio Big Brò (fratello maggiore) che, pur vivendo in altra casa, ci ha risparmiato uscite e commissioni durante la fase più strong. E penso anche che da questa prova resterà forte in me il senso più completo e profondo dell’essere parte di una Famiglia, sì – la tanto bistrattata Famiglia”.

Giuseppina, Deruta (PG)

 


 

Con l’inizio del nuovo anno ho deciso di intraprendere una nuova esperienza e mi sono trasferita. Se in passato mi spostavo all’estero, questa volta sono rimasta in Italia. Vivo nella periferia di Como, il che significa che l’isolamento qua è iniziato più o meno verso la fine della scorsa estate. Anche se questa casa non è pensata per una studentessa universitaria in quarantena da settimane, sono estremamente grata di essere vicino ai miei genitori e di avere questo spazio per me. Nonostante una fase iniziale di panico, disagio e sconforto, molte persone hanno contribuito a rendere il tutto meno triste e difficile. Amici da tutto il mondo mi hanno fatto sentire la loro vicinanza, così come la mia famiglia e le tante videochiamate di gruppo e, più in generale, veramente in tanti si sono attivati per aiutare le persone in difficoltà. Anche gesti apparentemente banali, come condividere ricette di cucina, consigliare la visione di un film piuttosto che la lettura di un libro o suggerire lo svolgimento di una determinata attività, hanno in qualche modo fatto la differenza. Per quanto questa casa possa essere ampia, lo spazio fisico è limitato: l’isolamento mi ha permesso, attraverso diversi mezzi, di esplorare nuove dimensioni. La camera da letto, che di notte è lo spazio dedicato al riposo, di giorno si trasforma in studio, aula universitaria e luogo di incontro con l’esterno per lo più tramite dispositivi elettronici. Il bagno, da sempre, è dove mi prendo cura di me e mi rilasso navigando con la mente. In cucina, invece, do sfogo alla creatività e pratico una delle mie passioni più grandi, ovvero mangiare. A colazione mi fanno compagnia storie narrate, a pranzo solitamente le interviste e a cena alterno film in lingua originale, libri, social media o, comunque, attività di svago. Quando il tempo lo permette cerco di stare all’aperto, in giardino. Le nostre vite sono cambiate da un giorno all’altro e così anche le nostre abitudini. Nel bene e nel male non siamo più le stesse persone che eravamo fino a poco tempo fa. Alcune relazioni si sono indebolite, mentre altre si sono rafforzate. Io ho imparato a dedicare più tempo a me stessa e a ciò che mi fa stare bene. Sarebbe bello se, una volta usciti da questa pandemia, continuassimo ad aiutarci indipendentemente da sesso, età, religione, professione e tutto ciò che è ragione di conflitto.

Anonimo, Como

 


 

Nell’ultimo anno ho viaggiato parecchio: tra viaggi studio e Erasmus ho vissuto a casa solo pochi mesi, e quando hanno dichiarato tutta l’Italia zona rossa, mi trovavo in un’altra regione, a casa dei miei nonni. Quindi, l’epidemia non ha influito solo sulla mia percezione dello spazio vissuto, ma ha cambiato proprio lo spazio dove vivo. Infatti, anche se la chiusura totale è arrivata dopo appena qualche settimana dal mio arrivo, ho notato subito alcune differenze. Vicino a casa passano un’autostrada e una ferrovia. Prima il rumore delle macchine e dei treni era un ronzio continuo a cui ci si abituava facilmente: bastava chiudere le finestre ed era a malapena percettibile. Adesso, in tutta la giornata, passano solo pochi camion e un paio di treni merci, il silenzio che si sente quando si aprono le finestre è agghiacciante e chiudendo gli occhi ci si dimentica di essere così vicini alla strada. L’unico suono costante che non si ferma mai è il belato delle pecore nel giardino sotto casa. Proprio accanto a casa c’è un recinto con delle pecore, un pony e due maiali e ogni giorno dopo pranzo scendo le scale, percorro quei venti metri che mi separano dal giardino, e mi ritrovo in uno dei pochi posti rimasti dove il coronavirus non esiste. Nessun distanziamento minimo di un metro, nessuna quarantena, nessuna autocertificazione. Solo la mascherina mi ricorda cosa sta accadendo.
Prima della quarantena non capivo quanto potesse essere bello avere sotto casa un piccolo spazio dove poter contemplare in pace la natura.
Questo lockdown ha influito sicuramente anche nei rapporti con la mia famiglia. Vivendo lontani, prima riuscivo a vedere i miei nonni solo durante qualche vacanza, ora, invece, non solo vivo con loro, ma non possiamo nemmeno uscire di casa. Al contrario, ora sento i miei genitori solo attraverso le videochiamate proprio come quando ero all’estero per studiare. Tuttavia, se in quel caso sapevo quando sarei potuta tornare a casa, ad oggi non si sa ancora quando finirà il lockdown.
Nonostante le difficoltà, questo periodo è duro per tutti e posso ritenermi fortunata, molti non hanno potuto rivedere i propri cari per lungo tempo, io invece ho potuto passare con i miei nonni più tempo di quanto avrei potuto fare prima della quarantena.

Marina, 21 anni, Isola del Cantone (GE)

 


Durante questo periodo di quarantena mi sono focalizzata sui cambiamenti che la quotidianità di ciascuno ha subito. Mi sono resa conto dell’importanza di una zona della mia casa che, prima di questo momento, non avevo mai preso in considerazione: il balcone. Dal balcone, che ora concepisco come un “trade d’union” tra il mio spazio vissuto e l’esterno, ho osservato i mutamenti del paesaggio urbano che, se nella prima foto (dicembre 2019) era affollato, rumoroso, inquinato e vivo ora, come nella seconda foto (aprile 2020), è vuoto, silenzioso, tranquillo e desolante così come l’intera nazione durante questa emergenza sanitaria senza precedenti. Proprio per questo ho deciso di allegare una comparazione tra due foto, una sorta di “prima e dopo” che sottolinea visivamente questi cambiamenti che così tanto mi hanno stupito e mi hanno fatto comprendere l’importanza del concetto di normalità.

Emma, 20 anni, Varese

 


 

Non avrei mai pensato di dover vivere una parentesi della mia vita costretta tra le mura di casa. E che, come quando ad un bambino viene detto che non può fare qualcosa, avrei avvertito più forte la necessità e la voglia di farla, quella cosa, che nel mio caso era uscire da qui.

Mi sono sentita stupida, molte volte, quando uscivo con foga dalla porta di casa per correre giù nel giardino condominiale e mi riscoprivo provare piacere nell’essere riuscita ad “evadere dalla prigione”, che poi è la mia casa, dove sono cresciuta, che mai mi era parsa così stretta e soffocante come in alcuni di questi giorni di quarantena.

Proprio il giardino, per fortuna grande, alberato e fiorito ha rappresentato per me una via di fuga dalle giornate sempre uguali, sempre in compagnia dello stesso volto, quello della mamma, che normalmente incontravo di sfuggita al mattino prima del lavoro e dell’università e alla sera, con più calma, a tavola per cena. Come il giardino, anche la casa del nonno, a cui ogni sabato porto il pranzo, e la sede del Lariosoccorso dove sono volontaria, sono stati dei luoghi felici, di sfogo, di svago. Al contrario, portare i pasti al nonno sarebbe stata la solita routine seccante, un dovere al quale solevo adempiere in maniera frettolosa e senza cura. Anche i turni al Lariosoccorso sono sempre stati sì piacevoli, ma percepiti più come un dovere personale che come un bramoso luogo di condivisione di emozioni, di opinioni, rassicurazioni che in casa ormai non si trovano più.

Questo periodo di lock down, di chiusura fisica delle vite delle persone in casa, si è rivelato in alcuni casi, per contrasto, un’apertura della mente, alla quale è stata concessa più che mai la possibilità di uscire dal recinto di doveri, lavoro, studio, responsabilità, ansie, e di vagare tra pensieri ai quali non era mai stato dato spazio, né tempo, di prendere coscienza di ciò che è essenziale e che invece viene sempre sottovalutato: una famiglia, degli affetti, un tetto sotto cui sentirsi protetti, la natura e i luoghi che la ospitano, che i più fortunati hanno vicino a casa, ma anche la fortuna di poter andare in università, le cui classi ricordiamo tutti con malinconia, nei cui corridoi abbiamo sempre camminato sbuffando e che ci ripromettiamo di ripercorrere con il sorriso, quando tutto questo sarà finito.

Martina, 22 anni, Erba (CO)

 


 

Gli spazi della mia quarantena

Allo scoccare della quarantena tutto è cambiato, improvvisamente la città e le sue sfaccettature si sono ristrette, confinandomi. Sono, quindi, costretto a rimanere in casa se non per quelle rare occasioni in cui si “fugge” per procurarsi i beni di prima necessità. È dura perché sono sempre da solo, solo come non lo sono mai stato, lontano dalla mia famiglia, dagli amici e dalla mia morosa. Quest’ultimi si possono sempre raggiungere via telefono o con una videochiamata, ma non è lo stesso.

Vivo, da poco, in un condominio e per tutta la durata della giornata sono confinato nel mio appartamento dove l’attività più significativa è quella di stare seduto. Sì, sulla sedia dietro al tavolo del salotto davanti al computer, che sia per seguire un corso universitario, studiare, guardare un film o solamente per leggere.

Fortunatamente la mia passione per la cucina mi tiene compagnia e, anche se sono solo, mi diletto ai fornelli cercando di preparare vari manicaretti. Trascorre, in tal modo, più volentieri il tempo in queste giornate che sembrano infinite e sempre uguali. Quando cucino, difatti, mi estraneo dal mondo e posso lasciarmi trasportare dagli aromi, ritrovando anche ricordi di paesi lontani che mi hanno ispirato. La percezione olfattiva assume di fatto un ruolo molto importante se non essenziale, ma si accompagna pure da un’altra a cui finora non avevo dato particolare attenzione. Potendo stare in casa mi sono reso conto di sentire i rumori e le voci dei miei vicini, che fino ad ora erano rimasti sconosciuti, e cerco di indovinare cosa stiano facendo immaginando una vita al di fuori della mia e una possibile interazione quando tutto sarà finito.

Il balcone costituisce il punto di contatto con l’esterno ed è un grande privilegio poterne usufruire anche solo per una boccata d’aria, che in queste giornate di primavera equivale a un sogno. Nonostante le relazioni siano scarse, al massimo ci si scambia un cenno di saluto tra vicini, mi posso perdere con lo sguardo oltre l’orizzonte ricordandomi che fuori dalle mie quattro mura c’è un mondo che mi aspetterà, di nuovo.

Luca Frigerio, 29 anni, Massagno (Svizzera)

 


Nei giorni della quarantena, riferendomi soprattutto a quelli – forse più significativi – in cui le restrizioni erano più rigorose, io – e credo molte altre persone – abbiamo sperimentato una specie di “doppio movimento”, da un lato – sicuramente – di compressione dello spazio (fisico) direttamente vissuto, ma dall’altro di dilatazione ed espansione di “spazi” che per molti di noi erano stati oggetto di perlustrazioni ancora molto generiche. Personalmente, non era mai diventata un’abitudine quella di fare video-chat o chiamate di gruppo. In questi giorni, lo è stata. Le persone con cui ho parlato, hanno riferito delle diverse “sensazioni” che derivano dall’assistere a lezioni online. In generale, è stato significativo che ci si sia potuti proiettare psicologicamente (non solo leggendo libri per esempio di sociologia, ma sotto la spinta di conversazioni ed entro contesti nei quali a fare pressione è la quotidianità più immediata) verso condizioni nelle quali, per esempio, si possono immaginare gli effetti dello “smart working” sulla vita lavorativa (riduzione dell’inquinamento, del traffico, potenziale migliore organizzazione degli orari nel corso della giornata), e non da ultimo che tutti abbiano sentito l’esigenza di confrontarsi con il tema di ciò che è accaduto in un altro capo del globo, in Cina, perché percepito come direttamente causa di ciò che ci accadeva. A questo riguardo, la lettura di libri sull’argomento può modificare il modo di pensare, ma il percepire un po’ in tutte le persone intorno a sé l’interesse a porsi le questioni che così si sollevano, è una condizione che può avere l’effetto di modificare in modo più incisivo – e in modalità e secondo criteri differenti – lo stesso modo di porsi le questioni (anche se molte volte non si percepisce negli interlocutori quella che dovrebbe essere la giusta cautela nell’affrontare tali problemi). In questo stesso quadro, rientra in effetti anche il fatto che, uscendo per fare la spesa, si può vedere una qualunque persona e – potendo intuire con facilità quale sia psicologicamente il comune scenario dell’azione – si è portati  a sentire, già solo per questo, un più forte sentimento di appartenenza ad una stessa “comunità”.

A distanza di qualche giorno – quando scrivo, le restrizioni sono state già in parte allentate – alcuni di questi effetti sono già meno visibili. La speranza è che ciò che di potenzialmente positivo c’è stato nella situazione che questo momento storico ha creato, possa avere almeno gettato un seme.

Alfonso, 43 anni, Sulmona (AQ)

 


 

Le persone danno il meglio o il peggio di sé stesse nei momenti di crisi.

Sto aspettando di risorgere.

La mia quarantena è una bolla esplosa nel vivere quotidiano.

Qualcosa a cui all’inizio davo poco conto, quel virus che è arrivato strisciando tra notizie e supposizioni e, poi, mi ha colpito al cuore rubandomi una persona cara.

Non rispondo al telefono che suona.

Vorrei scappare dai suoni, dai rumori, dalle grida che attraversano le pareti sottili, i pavimenti e i soffitti di questo appartamento.

Non sopporto la coppia sorda che ascolta la messa alle 7.00 di mattina, le urla dei vicini che continuano a litigare, lo scrosciare dell’acqua che irrompe nella notte mentre cerchi o hai appena trovato il tuo sonno di insonne: litri e litri di acqua che si perdono in un lavaggio notturno prolungato.

Gli slogan televisivi “stiamo uniti”, “passerà”.

La mia anima è nera di rabbia e vorrebbe urlare a tutti di fare silenzio.

E non hai mai desiderato così tanto viaggiare verso un deserto in cui l’unico suono è il vento che disegna delicatamente le dune di un paesaggio che si svolge all’infinito.

E mi trovo a inventare futuri distopici, generazione degli anni Sessanta con un piede nel passato ed uno nel futuro. Generazione che vive in eterno equilibrio tra il ricordo di un mondo che non c’è più e l’aggiornarsi al continuo cambiamento per sopravvivere al futuro che verrà e già si consuma dentro di noi.

E intanto vivo il presente di un futuro immaginato solo nelle mie storie inventate.

Danila, 56 anni, Varese

 


9 Marzo 2020: la mia vita si ferma.
Un virus sconosciuto proveniente dalla Cina arriva in Italia.
Il governo impone la quarantena a tutti i cittadini italiani senza comunicare una data di fine certa.
È una pandemia.
Da quel giorno sono cambiate tante cose. Qualcuno ha premuto il tasto “pausa” alla mia frenetica vita che fino a quel momento avevo tanto criticato. Criticavo perché, tra i mille impegni che avevo, facevo fatica a trovare Tempo. Sì, lo scrivo con la lettera maiuscola perché non lo ritengo più un nome comune, è qualcosa di più.
Tempo per la mia famiglia, tempo per me stessa, per le persone che amo a cui, per una cosa o per l’altra, non riuscivo mai a dedicare il tempo necessario.
Bene, questa situazione mi ha tolto tante cose, senza dubbio: uscire con il ragazzo, andare fuori a cena, vedermi con gli amici, viaggiare, allenarmi, lavorare, fare una passeggiata e tantissime altri momenti che ora non voglio elencare.
Ma mi ha insegnato altrettante cose, di cui ora parlerò.
Mi ha fatto comprendere il vero significato della parola libertà. Io, che il senso del viaggio me lo porto da sempre dentro, io che mi sentivo libera solo quando viaggiavo, mi bastava cambiare città per due giorni che mi sentivo parte di essa subito, io che non ho mai dato così tanto peso a tutto ciò che mi circondava. Io che in fondo non mi sono mai sentita cittadina italiana ma cittadina del mondo. Ecco, ho riscoperto il significato della parola libertà, collegata in tutto ciò alla parola patria. Libertà ora per me vuol dire uscire dal cancello di casa mia, correre nei boschi o fare una passeggiata al lago. Mi impegnerò a dare più importanza alla mia terra, alla mia patria, a ciò a cui realmente appartengo. Visiterò e scoprirò il mio Paese, prima di tutti gli altri.
In questo caso il cancello di casa, che mi separa dal giardino alla libertà, rappresenta un varco tra il mio spazio vissuto e lo spazio che vorrei vivere.
Questa situazione mi ha dato l’opportunità di tornare a vivere certi luoghi di casa che prima davo per scontati. Questi sono i miei spazi vissuti.
Prima di tutti camera mia: il mio rifugio personale, il mio studio e il mio angolo di pace in una sola stanza. Ci passo ore e ore in camera mia, e a volte perdo pure il senso del tempo. Mi sento al sicuro dentro essa, dove nessuno può entrare e rovinare quello che trova.
Ho riscoperto la bellezza di uscire in balcone e di godermi il tramonto con un paio di cuffiette nelle orecchie.
Il balcone: luogo in cui ho trascorso alcuni dei momenti più strani ed emozionanti di questo periodo di quarantena. Una domenica pomeriggio stavo parlando con mio fratello proprio in balcone, ad un certo punto le mie vicine di casa, a distanza di almeno 300 metri ci sentono, e iniziamo una conversazione che dura almeno 10 minuti, da balcone a balcone, a distanze importanti, senza dover alzare la voce. Tutto ciò perché c’era un silenzio quasi assordante. In 21 anni credo di non aver mai sentito così silenzio, in una domenica primaverile, in una paesino circondato da parchi e vie piene di bambini. Sono rimasta abbastanza colpita da questa situazione che sicuramente non avrei mai potuto vivere se non fossi stata in quarantena.
Il giardino. Il luogo che mi ha fatta sentire libera più che mai, in contrapposizione alla mia camera.
Mi bastava stendermi sul prato con gli occhi al cielo per sentirmi come se non stesse succedendo niente.
È stato luogo di lunghe grigliate con la mia famiglia, almeno una volta a settimana, ci siamo ritrovati tutti e quattro a mangiare in giardino, a fare lunghe chiacchierate e partite a carte, come se fossimo le persone più felici del mondo.
Il parcheggio fuori casa, punto di ritrovo con i miei amati vicini. Un caffè “in compagnia”, un brindisi il giorno di Pasqua, punto di incontro per scambiarci di tutto, da cibo a cartelloni colorati, a utensili vari. Abbiamo sempre cercato di aiutarci a vicenda, con quel che potevamo. Ci siamo sentiti meno soli (tutto ciò è avvenuto sempre rispettando le distanze).
In tutti questi spazi vissuti i suoni hanno giocato sempre un ruolo molto importante.
Dalla musica a tutto volume fuori casa e i canti a squarciagola con i miei vicini, ai suoni della natura: il vento tra glia alberi, il cinguettio dei merli la domenica mattina, le gocce di pioggia sul davanzale e gli infiniti silenzi.
Sono stati mesi molto duri, a volte ho pensato pure di non farcela, ma ce l’ho fatta.
Manca pochissimo, e potrò tornare ad una vita “quasi” normale, e solo se ci penso mi sento meglio.
Concludo con dire che sono fiera ed immensamente orgogliosa di essere italiana, nonostante tutti i nonostante.
Insieme ce la faremo, forza Italia!

Serena, 21 anni, Cassina Rizzardi (CO)

 


 

Maggio 2020: sono passati ormai più di due mesi da quando la famosa “Quarantena” è cominciata. Ho osservato i giorni passare e la primavera trascorrere in un continuo susseguirsi di settimane, che potevano essere formate da soli lunedì o giovedì, poiché è diventato così complicato capire in quale giorno ci si trovi. Forse l’unico giorno che ha mantenuto il suo significato originale è la domenica; già, la domenica, la giornata in cui si mangia quello che si vuole, si fa quello che si vuole, in cui la sera, la pizza che desideri da tutta la settimana rimane una certezza.
La certezza è una delle cose che più ci mancano in questo periodo, in cui il caos paradossalmente genera silenzio e isolamento. Il futuro lo vediamo incerto, non sappiamo quando potremo tornare ad abbracciarci e la possibilità che l’economia riesca a rialzarsi rimane una grande incognita, ma nonostante ciò si cerca di essere ottimisti con i vari #andràtuttobene, e devo ammettere che anche io, che per natura sono perlopiù pessimista, mi sono sentita travolta da questo sentimento che comunque, indipendentemente da tutto, ce la faremo; l’Italia ce la farà.
Un’altra delle cose che più ci mancano è la nostra amata libertà, che stiamo responsabilmente sacrificando per un obiettivo più importante: la vita.
Abbiamo dovuto rivalutare i nostri spazi quotidiani, riducendoli alla nostra casa che è diventata il nostro angolo di studio, di lavoro, di svago e il nostro rifugio.
Il mio spazio vissuto vede come protagonista la cucina, luogo in cui si svolgono la maggior parte delle mie attività quotidiane, perché è qui che con il mio computer ho accesso allo studio, attraverso le video lezioni. Il terrazzo fa concorrenza alla cucina nelle belle giornate, in cui posso sentire il calore del sole senza che vi sia una finestra a filtrarlo, e in cui i rumori del vento o il cinguettio degli uccellini che si nascondono tra i rami degli alberi fanno compagnia allo scorrere dei miei pensieri.
In casa non sono sola, vivo con i miei genitori con i quali sto trascorrendo più tempo rispetto a prima quando entrambi erano spesso fuori casa per lavoro. Questo nuovo status ha qualche lato negativo, come il fatto di non potersi giovare di quella privacy o di quella piacevole solitudine che mi garantiva l’andarmene in università da sola, mentre, seduta sul treno o camminando, fantasticavo con le mie cuffiette alle orecchie e la musica alta, o come il fatto di contendersi il bagno la mattina quando nessuno vuole alzarsi troppo presto. Ma ci sono anche molti aspetti positivi, come il poter condividere un film tutti insieme sul divano o i frequenti momenti in cui si ride e ci si prende un po’ in giro.
In più, sono fortunata perché ho un pezzo abbastanza grande di giardino, peraltro luogo di residenza dei miei sei gatti (sì, lo so forse sono un po’ troppi) che ne combinano sempre una!
Tutto sommato, mi rimane la possibilità di dedicarmi ai miei hobby, che possiamo riassumere in guardare tutte le serie tv presenti su Netflix, leggere un buon libro e la fotografia, per quanto limitata al “paesaggio di casa” ma comunque considerevole.
Infine, a garantire un contatto col mondo esterno ci sono le lunghe videochiamate su whatsapp con gli amici, grazie alle quali la naturale freddezza di un contatto solo telefonico si trasforma in una affettuosa voglia di rivedersi il prima possibile.

Giada, 21 anni, Barlassina (MB)

 


 

Giorno 13/05/2020

Circa quattro mesi fa, dalla Cina arrivò una notizia che fece molto scalpore: un virus si stava impadronendo a poco a poco, di molte persone. Tale nemico venne chiamato “Coronavirus”. Di che si tratta?
I coronavirus sono un’ampia famiglia di virus che causano malattie da lievi a moderate, dal comune raffreddore a sindromi respiratorie. Questo virus colpisce, soprattutto, le persone più vulnerabili come anziani o chi è già affetto da altre patologie. Inizialmente sembrava “una semplice influenza”, finché non arrivò vicino a noi, nel mio paese Italiano. In Italia, attualmente i casi totali sono circa 220.000 di cui 109.000 sono i guariti e 30.000 i deceduti; sono numeri che fanno pensare, numeri che spaventano.
Vorrei ringraziare tutti i combattenti in prima linea: i medici e gli infermieri, coloro che lottano tutti giorni contro questo maledetto virus, coloro che salvano vite: i nostri eroi. Purtroppo, io non sono un’infermiera, come sicuramente non lo sono tante altre persone, però posso comunque combattere questo virus, nell’unico modo possibile: restando a casa. Lo Stato italiano ha intrapreso delle misure restrittive per evitare che il virus si propaghi, perciò gran parte delle attività commerciali e non, sono attualmente chiuse. Si può uscire di casa per visitare i congiunti e solo per comperare beni di prima necessità. Nel mondo, così come ci sono i buoni ci sono i cattivi, così come molte persone hanno buon senso, tante altre non conoscono il significato. Restare a casa e curare l’igiene, sono le uniche armi che abbiamo per combattere questo virus, però purtroppo molte persone non lo hanno ancora capito. Io ho deciso di essere una persona civile e di avere buon senso, ho deciso di combattere questo virus da “dietro le quinte”, con la speranza che tutto possa tornare alla normalità! Sono chiusa in casa da ormai 2 mesi, e la parola “chiusa” può sembrare qualcosa di negativo, qualcosa che ti fa mancare l’aria. In realtà, oggi, ho un pensiero diverso rispetto al primo giorno di quarantena. Penso ad ogni volta che mi sono trovata a ‘disprezzare’ molte cose quotidiane della mia vita, penso ad ogni volta che non ho saputo realmente apprezzare quello spazio chiamato “casa”. Adesso, invece, mi rendo conto di quanto mi manca quella vita imperfetta, mi rendo conto che la famiglia non è litigio, la famiglia è condivisione! Con ciò, non intendo dire che tutte le mattine mi sveglio di buon umore, ma cerco di cogliere il lato positivo in questo brutto periodo. Molte volte mi sono lamentata di non aver tempo, perché fino a due mesi fa la mia vita era una vita frenetica, e dunque il tempo volava. Adesso di tempo ne ho molto e come si dice “il tempo è denaro”, di conseguenza non voglio sprecarlo. In questi giorni di quarantena ho riscoperto molte cose che avevo smesso di fare: ho dipinto, ho tenuto allenata la mente giocando a nomi cose e città con la mia famiglia, ho anche riso, scherzato e ho pianto. Nonostante siamo obbligati a fare le lezioni online, sono felice di dedicare molto tempo all’università, cosa che prima facevo meno poiché avevo altri impegni. In questa quarantena ho scoperto anche l’esistenza di alcuni vicini di casa grazie al mio balcone. Il balcone di casa, in questo momento simboleggia un luogo d’unione per tutti gli italiani. Molte persone provano a strappare un sorriso cantando dai loro balconi o dalle loro finestre. Ringrazio chiunque abbia avuto questa bella iniziativa perché fa capire che l’Italia c’è, l’Italia è unita! Il mio balcone inoltre mi ha dato la possibilità di ascoltare la natura: il vento tra le foglie degli alberi, il canto degli uccellini. Ho riscoperto quanto è piacevole ascoltare questi suoni! Molte volte si è distratti e non ci si fa nemmeno caso, invece bisognerebbe fermarsi ogni giorno per qualche minuto e contemplare le bellezze che la natura di offre. Molti social, come WhatsApp, Facebook e Instagram, per mesi interi sono stati l’unico mezzo per sentirsi e vedersi. L’unico mezzo che ci ha unito e ci unisce, nonostante siamo distanti. Non so con certezza quando tutto questo possa finire, però sono certa che se rimaniamo tutti uniti, ce la faremo. L’Italia vincerà e tornerà a sorridere! Nel frattempo #iorestoacasa
P.S. Sicuramente quest’anno possiamo smentire il detto “Natale e Capodanno con i tuoi, Pasqua con chi vuoi”.

Sonia, 21 anni, Fino Mornasco (CO)

 


Chi si sarebbe mai aspettato di vivere questa situazione di pandemia globale? Quante volte abbiamo sentito dire dai nostri bisnonni e dai nostri nonni la frase “Ah quando c’era la guerra..” oppure “Questo non è niente in confronto alla guerra”?
Oggi ci troviamo qui, “rinchiusi” in casa chi con i propri genitori, chi con i propri amici, coinquilini a non trovare delle attività da svolgere nell’arco della giornata, ad essere 24 ore al giorno con le stesse persone non potendo trascorrere le giornate come fatto finora andando a lavorare, a scuola o all’università e uscendo con i propri amici.
Questo spazio in cui ora siamo costretti a rimanere, viene definito come un contenitore in cui si realizzano le attività umane e ogni volta che quest’ultime si realizzano, esso diventa un luogo.
Un luogo si definisce tale quando è caricato di valori, sentimenti, simboli, ricordi da parte della comunità umana che vi abita o semplicemente vi entra in contatto.
Il geografo Frémont definisce lo spazio vissuto come spazio in cui l’uomo entra in contatto quotidianamente.
Posso, quindi, definire la mia casa come uno spazio vissuto, in cui in questo periodo prevale l’interazione tra me e i miei genitori attraverso il dialogo, attività di cucina e di giardinaggio.
Devo ammettere che, inizialmente, questa situazione sembrava essere abbastanza difficoltosa a livello psicologico, poi però, andando avanti con le settimane, si è rivelata un’occasione per poter parlare, ridere e scherzare e creare situazioni che normalmente a causa dei propri impegni non si generano per la mancanza di tempo. Il tempo con la propria famiglia è prezioso e, purtroppo, spesso ci viene privato per motivi di lavoro, di studio o per motivi che ritenevamo essenziali in una normale giornata prima di questa pandemia.
Nel mio spazio vissuto, prevalgono percezioni sonore, ma anche visive poiché spesso mi reco sul terrazzo ad osservare come la natura sia fiorita, come se fosse libera di continuare il suo ciclo vitale poiché quelli “reclusi” siamo noi esseri umani, ma non lei.
Dalla finestra, invece, noto come il silenzio sia padrone dello spazio circostante e come la strada sia deserta. Ma mi accorgo anche del senso di unione che si crea cantando l’inno di Italia nelle proprie case, cantando canzoni o appendendo bandiere fuori dalle proprie finestre.
La desolazione non si è dimostrata, però, sui social network e sulla rete internet che, in questo periodo, viene utilizzata come “passatempo” tra una news e l’altra o tra ricordi di momenti abitudinari prima di questa catastrofe globale.
La distanza che separa ognuno di noi dal mondo esterno ci sta insegnando ad essere uniti, per esempio seguendo lo slogan “Restate a casa”, cantando canzoni fuori dai balconi e sostenendo chi è impegnato in prima linea in questa difficile situazione. Spero che questo sentimento di unione non venga dimenticato una volta tornati alla frenetica vita di tutti i giorni.
Vorrei concludere con questa frase del geografo Tuan che in questo periodo mi ha fatto capire cosa è per me lo spazio vissuto: “Un luogo può essere piccolo come l’angolo di una stanza o grande come l’intero globo” poiché una casa potrà essere piccola o grande, ma le emozioni che si provano all’interno sono immisurabili.

Giulia, Como

 


 

“Io ho sempre avuto una nemica: me stessa.
Da quando ho iniziato a disincantarmi dalla visione bambinesca del mondo, ho sempre pensato che fossero gli altri quelli da cui avrei dovuto difendermi; in realtà, quella con cui dovevo tenere la guardia alzata ero io. Ma ho sempre avuto delle scappatoie: uscire, stare con gli amici, cercare il sostegno della psicologa, passare del tempo col mio ragazzo. Distrarmi era il mio obiettivo quotidiano. Quando il Governo italiano ci ha “quarantenati”, ecco che le mie vie d’uscita erano diventati improvvisamente punti ciechi. Per me la vera sfida non è distrarmi dalla noia, ma piuttosto non cedere alla tanto famigerata ansia che, in fin dei conti, non è una persona che viene a bussare alla porta dicendo “Eccomi”, ma che invece da una vita vive nella mia testa. Rendersi conto di non avere più la possibilità, per un periodo indefinito, di essere libera, di poter stare con il mio amore, che ero abituata a vedere ogni giorno, di andare al lavoro, scambiare qualche chiacchiera con le mie amiche o, semplicemente, di perdermi nel panorama sfuggente dei miei viaggi in treno verso l’Università, era qualcosa di difficile, se non impossibile, per me, soprattutto dopo un periodo di malessere che mi aveva fatto odiare il mondo. Cedere all’ansia, alla malinconia, alla depressione sarebbe troppo facile, e non voglio. Non posso sapere come andranno queste settimane, ma posso decidere come reagire.
Sto imparando a trovare il benessere in ciò che prima mi faceva sentire sola, la mia casa, il cortile, dal quale non vedevo l’ora di fuggire e che ora è diventato il mio spazio all’aperto, sto imparando a trovare conforto (anche se ahimè con qualche litigata sporadica) nella persona da cui spesso volevo scappare, mia mamma, sto imparando a conoscere una persona che sta affrontando un percorso di vita difficile, mia sorella (che prima era mio fratello), ma soprattutto, sto imparando a convivere con la persona che mi fa soffrire di più, me stessa”.

Martina, 21 anni, Olgiate Olona (VA)

 


 

Da un giorno all’altro ci è stato chiesto di restare a casa, o perlomeno di rimanere a casa quanto più possibile. Abbiamo sentito le notizie di università che chiudevano, notizie che sospendevano le attività sportive e d’integrazione, che vietavano contatti troppo ravvicinati. E così all’improvviso, molto più in fretta di quanto nessuno si aspettasse, ci hanno chiesto di rispettare la quarantena. Passare i propri giorni all’interno delle mura della propria casa non ha lo stesso significato per ognuno di noi. Per me passare tutto il giorno in casa non è semplice, per me significa lasciare fuori dal mio quotidiano alcune delle persone a cui tengo di più. Quarantena significa non poter vedere o abbracciare chi non condivide lo stesso spazio con te. Questo mi ha spinta a cercare di poter mantenere i contatti quanto più reali possibili attraverso i mezzi di comunicazione, tanto che il mio momento preferito della giornata è diventato quello delle videochiamate. Credo che questo significhi che forse in questo momento di quarantena e di “social distancing” io non mi trovo nel mio spazio, pur essendo tra le mura di casa mia.

Quarantena significa anche uscire di casa solo ed esclusivamente per urgenze o per attività di primaria necessità; e quando si esce di casa bisogna stare tremendamente attenti. Mettere il piede fuori dopo diversi giorni non è stato come immaginavo, il mio piccolo paese desolato sembra così triste e silenzioso, decisamente diverso da come lo ricordavo. Quando rientro a casa non faccio a meno di chiedermi per quanto tempo durerà tutto questo e se, una volta finita questa situazione di emergenza, le cose ritorneranno ad essere come prima.

Tuttavia, questo periodo di “reclusione” ci permette anche di trovare il tempo per fare attività che avevamo sempre rimandato. Ad esempio, io ho cercato di rendere la mia camera, il posto in cui passo la maggior parte delle mie giornate, molto più a forma di me, se così si può dire; ho anche iniziato a leggere tutti quei libri che per mancanza di tempo avevo comprato e poi abbandonato sulla mia libreria. La quarantena mi ha anche regalato una cosa incredibilmente positiva: del tempo da passare con mio fratello. Come tutti i fratelli maggiori non è mai stato particolarmente invogliato a trascorrere il suo tempo libero con la sua sorellina, ma adesso non ha altra scelta che accontentarsi della mia compagnia.

Ci troviamo in un momento storico in cui le relazioni sociali passano attraverso lo schermo di un telefono o devono tenere una distanza pari a quella tra un balcone e un altro. Questa distanza sociale, però, ci sta rendendo molto più uniti, ci sta facendo venir voglia di cantare l’inno di Italia e condividerlo coi vicini, ci sta facendo ricordare quanto sia bello vivere in un Paese come il nostro. Cerchiamo solo di non dimenticarcelo una volta tornati alle nostre frenetiche vite.

— Sara, 21 anni, Busnago (MB)

 


 

Il Monopoly

22 febbraio

Sabato sera si gioca a Monopoly. Matilde dal Canada su Skype. La pizza è pronta.

Inizio io, con una stranissima partenza

IMPREVISTI

23 febbraio divieto accesso nei comuni con focolai Covid 19. Sospese manifestazioni ed eventi.

Catapultati in un gioco più grande di noi, non ci rendiamo conto della portata del nuovo monopoly. Tutti in quarantena.

Valeria

PROBABILITA’

Le misure restrittive del DPCM non si applicano al personale sanitario

Ludovica

PROBABILITA’

Sospensione scuole. Lezioni virtuali con Zoom.  Scaricato? Musica a bomba!

Margherita

IMPREVISTI

Vuoi  tuoi spazi? Cercateli! Bagno, cucina, camera o giardino

Matilde

IMPREVISTI

Scuole Canadesi aperte, vietati assembramenti

Terza settimana

Massimiliano

PROBABILITA’

Chiusura attività ristorative tempo indeterminato.  Periodo sabbatico. Aggiusta, semina, pulisci, sistema, allenati, spesa,corsi dell’università su team, troppo internet. Casa rimpicciolita Confinato in cucina.

Valeria

IMPREVISTI

Ambulatorio aperto. Dispositivi protezione te li devi procurare tu. Sospesi pilates, yoga. Ma stare a casa è piacevole.

Ludovica

IMPREVISTI

Troppi a casa, devi nasconderti: videochiamate bagno, scuola scrivania, violino camera, relax giardino

Margherita

PROBABILITA’

Interrogazione su zoom. Non cambia mai veramente nulla, neanche le prof…

Matilde

PROBABILITA’

 Rimani in Canada o torni?

Quarta settimana

Massimiliano

IMPREVISTI

Sospensione voli. Fare tornare Matilde. Preparare documenti CIG dipendenti. Sospeso il calcio.

Manutenzione attrezzature ristoranti.

Valeria

IMPREVISTI

Relax, giochi, aspettare Matilde, seguire protocolli e notizie covid

Ludovica

IMPREVISTI

Internet sufficiente per zoom. Interrogazione greco. Studia.

Margherita

PROBABILITA’

Il gestore telefonico regala 100 gigafree!!!!

Matilde

PROBABILITA’

Piangi preparando valigie. Saluta la  famiglia.

Quinta settimana

Massimiliano

PROBABILITA’

Matilde tornata, Valeria tranquillizzata, quarantena più rilassata!

Valeria

PROBABILITA’

Rientra Matilde. Emozionata?

Ludovica

IMPREVISTI

Matilde! Pronta a condividere camera ? Chissà cosa racconterete. Litigherete di nuovo.

Margherita

PROBABILITA’

Matilde rompiscatole! C’è scrivania per Matilde e non dovrai restituirle la sua!

Matilde

IMPREVISTI

Vai in prigione per 14 giorni! In quarantena casalinga!

Settima settimana

Massimiliano

PROBABILITA’

 Quattro donne, aumento esponenziale delle rotture. Il governo pensa a te!  € 600 una tantum!

Valeria

PROBABILITA’

Libri! Film! Giardino! Cucina! Lavare, stirare. La quarantena restringe spazi. Confinata in cucina! Insieme a Massimiliano!

Matilde

IMPREVISTI

Bentornata Matilde! Sistema un po’ di cose. Sei a casa! Amiche! Videochiamate! Zoom! Allenamenti!

Ludovica

PROBABILITA’

Video ,foto, musica, cucina, biscotti, sport, libri, serie tv, casino. Lo farai con Matilde. Devi ridarle il letto.

Margherita

PROBABILITA’

No amici, pallavolo, oratorio. Si  zoom videochiamate. Violoncello, cucina, giardino, allenamenti.

NEL FRATTEMPO È ARRIVATA LA FASE DUE

Massimiliano, 50 anni, Varese

 


«Attendo sempre l’alba prima di raccontarti la notte. È un giorno di un mese che non ricordo. Tutto è ormai scandito dall’impazienza che giunga un suono di rivalsa a irrompere in questo silenzio di sospensione e a restituirmi un fuori, oltre i vincoli di me stesso. Poter tornare a sentirmi partecipe degli eventi, coinvolto nell’aria che transita tra i banchi di scuola e la strada, tra la polvere dei cantieri e la soglia; aderire nuovamente alle rive del mare respirando serenità.
Oggi non riesco a rialzarmi dalle mie ferite, Italia, ma sono qui con te a resistere. Immobile dietro questa finestra ad osservare, attendere… imparare.
Sto imparando ad avere una patria che si estenda ben al di là del mio Sud e che la parola italiano trasuda ancora il suo prezioso valore. Eppure, Italia, amore, non ho parole al momento ma mancanze: delle labbra a cui destinarle, di corpi che anche solo stringerli è la vita euforica che ci si nega in questa vita storica che ci destina. E sto imparando che a scalfirmi è la perdita della semplicità, dei sorrisi che colmano il quotidiano e acquietano, delle sedie divenute improvvisamente vuote e non più in sovrannumero; delle risate mutate in eco spento che trovano appena la forza d’incendiare ricordi: quei passi di danza sotto la pioggia, città e calli, destinazioni indistinte che aggiungemmo.
Sì, Italia, c’è una lezione di riscoperta in tutto questo. Riprendere contatto con l’essenziale; riprendere i dialoghi, leggere gli sguardi, valorizzare a dismisura la carezza e l’abbraccio ed il coraggio di non subire i cambiamenti. Aprirsi all’ascolto e cooperare, apprezzando la calma e la lentezza; il gusto di fiducia da riporre. Per ripartire con basi più solide; per non disperdere questa verità che ci vede uomini insieme: nelle lacrime e nella lotta; nella richiesta costante d’amore e poesia. Per non tradire la nostra umanità e ripartire»

— Mirko, Agrigento

 


«Dal 24 febbraio 2020 la mia routine quotidiana come quella della maggior parte dei lombardi, italiani e, infine, della popolazione mondiale si è bloccata. Ci siamo ritrovati tutti di fronte ad una situazione mai vissuta prima, o almeno per noi più giovani, la prima esperienza che lascerà un segno nella nostra esistenza. “Restate a casa”: questa è la frase che più spesso ci siamo sentiti dire in questo periodo.

Prima della pandemia mi capitava spesso, come tutti i ragazzi, di rinchiudermi in camera mia per trovare un po’ di pace dopo la giornata frenetica passata in università o in giro per la città mentre, dal momento dello scoppio del Coronavirus, tutto è cambiato. Quello che prima era uno spazio di pace e serenità si è trasformato nel luogo in cui crescevano maggiormente sempre più ansie e preoccupazioni, tutto legato al momento delicato in cui ci siamo ritrovati. Ho iniziato a stare maggiormente a contatto con la mia famiglia, anche lei rinchiusa in casa per il primo periodo dell’emergenza sanitaria, e a trascorrere più tempo negli spazi “comuni” della casa, come la cucina e il soggiorno.
Successivamente, con l’inizio della didattica a distanza, sia per me che per mia sorella, sono diventate sempre più frequenti le liti riguardo a chi passasse più tempo in camera, chi potesse usare il computer per seguire le lezioni. In particolar modo, lei lamentava una mia totale appropriazione sia della camera sia del computer, ammetto che non aveva tutti i torti.
Piano piano ho cercato di ristabilire la mia routine esterna all’interno della casa, ricreando l’ambiente universitario in camera mia, dove passo la maggior parte del tempo seguendo le lezioni e studiando, e ciò che riguarda la quotidianità casalinga in soggiorno, dove avvengono le classiche attività di svago e riposo. Verso il tardo pomeriggio, invece, camera mia si trasforma anche in una piccola palestra, dove potermi allenare e dare sfogo al mio corpo in questo momento in cui anche l’attività sportiva è vietata. Credo di essere riuscita a riprodurre al meglio degli ambienti esterni necessari per me all’interno di quello che prima era un semplice luogo dove poter svagare la propria
mente»

— MLC, 21 anni, Como.

 


«In questo periodo di quarantena sto avendo la possibilità di riscoprire tante cose che, con il tempo, ne avevo quasi dimenticato la bellezza. Da un mese ormai mi ritrovo ogni giorno a svolgere una sorta di “giornata-programma”: la mattina mi rifugio in camera da letto, mi siedo davanti al computer e inizio a controllare le mail, le notizie, dopodiché inizio a studiare. Ora di pranzo, in cucina, insieme alla mia famiglia, guardiamo il telegiornale e ascoltiamo purtroppo, notizie non bellissime. Il pomeriggio lo passo sul divano, leggendo un libro, o guardando qualche programma di cucina alla televisione (ultimamente trovo solo programmi di cucina alla tv). Verso ora di cena mi ritrovo di nuovo in camera mia a svolgere un veloce allenamento per tenermi in forma. Questo è la mia “daily routine” da quando è iniziato questo periodo grigio fino a qualche settimana fa. Mi sembrava di vivere ogni giorno un déjà vu, quindi ho deciso di rivoluzionare in modo diverso la mia giornata cambiando i luoghi, dunque le stanze, mantenendo però le stesse attività. La mattina decido di studiare fuori in balcone, percepisco l’aria di primavera, con il cinguettio degli uccellini (sono fortunata perché vivo in una zona non molto trafficata, quindi il silenzio è all’ordine del giorno nel mio paese) che mi rilassa e mi fa concentrare di più, al contrario di camera mia. Nel mentre ho anche l’occasione di salutare qualche vicino, e scambiarci due chiacchiere (prima di tutto ciò avveniva raramente). Durante il pranzo, se prima eravamo soliti a guardare il telegiornale, ora ascoltiamo un po’ di musica o addirittura decidiamo di spegnerla e chiacchierare tra di noi (ulteriore cosa persa prima di questo periodo). La cucina diventa automaticamente luogo di chiacchiere e risate. La sala si trasforma in un luogo tranquillo, di relax e di intrattenimento poiché ultimamente abbiamo riscoperto i giochi da tavola. All’interno di questo spazio prevalgono sicuramente le risate, stiamo riscoprendo lo stare insieme, e forse queste quattro mura ci hanno legato ancora di più l’uno con l’altro. Non è tanto buio come periodo in fondo»

— Giorgia, 21 anni, Como

 


«“La mia prigione”  | Sempre di fretta, raramente a casa, feste, bar, cene al ristorante, viaggi, ma anche molti impegni e responsabilità: l’università, il lavoro. Stremata nel tentativo di mantenere un equilibrio, coprivo di
polvere le passioni e me stessa.
Improvvisamente, però, iniziano a circolare delle parole nuove, lontane dalla nostra quotidianità, che in poco tempo la stravolgeranno.
Distanziamento sociale, quarantena, lockdown, isolamento.
Serrande abbassate, strade deserte, persone che spiano dalle finestre, visi coperti a metà dalle mascherine.
Ora che tutto si è fermato, sono costretta a farlo anche io. Lo spazio che mi è concesso esplorare è quello che conosco più di tutti, cosa avrà da offrire ancora?
Le ore passano ed io resto bloccata, oscillando tra le poche stanze del mio piccolo appartamento: la mia accogliente prigione.
Quasi inconsapevolmente sono ritornata a guardare film, ho riscoperto il piacere della lettura e l’emozione che nasce dalle note di un vinile che gira in un salotto freddo e vuoto.
Ho visto i sorrisi delle persone che amo attraverso schermi, piatti e poco vividi, ho udito le loro voci metalliche negli auricolari, stesa in un letto che non mi culla, fissando i vari poster e foto ricordo appesi sulle pareti.
Le stesse pareti che ho, poi, deciso di dipingere perché mi appartenessero, o forse solo per renderle amiche.
Talvolta ho avvertito un forte bisogno di respirare a pieni polmoni, di sentire il sole scaldarmi la pelle e guardare le nuvole danzare. Le finestre erano l’unica porta sul mondo, ma il panorama che offrono è claustrofobico: una via stretta e molte case vicine. L’unico elemento che spicca è il campanile che si issa contro il cielo, scandendo il passare del tempo con il rintocco delle sue campane.
Questa mattina quella stessa melodia mi ha svegliata, accompagnata da un raggio di sole sul cuscino e qualche cinguettio lontano: allora ho sorriso, perché il mondo non si è fermato, anzi, ha compiuto il solito ciclo, nonostante io non vi abbia assistito. Ma quando sarà concesso uscire, potrò tornare nei luoghi che amo e sarà una magnifica sorpresa, che sicuramente saprò guardare con occhi diversi»

— Giulia, 20 anni, Novedrate (Como)

 


«Il mio spazio vissuto in questo periodo di quarantena. Solitamente, dopo giornate intense di lavoro o di scuola siamo abituati a vedere la casa come una sorta di rifugio che ci conforta, ma oggi, chiuso nella mia cameretta, mi accorgo che non possiamo chiamare “casa” solo lo spazio della nostra abitazione privata, ma anche la città che gli sta intorno ne è parte fondamentale. Una città, che percepisco sempre più come “casa collettiva”, dove gli spazi
verdi, diventano il nostro giardino, i servizi offrono spesso un’accoglienza sensibile alle nostre necessità e i luoghi di incontro, il nostro salotto sociale .Vivendo vicino al centro, su un viale che collega Varese con Como, prima di questa emergenza sanitaria si era abituati al rombo delle macchine che trafficavano le strade, al parco affollato dai bambini da grida di gioia, a persone intente a passeggiare durante una bella giornata soleggiata.. Oggi affacciandomi al balcone, sento una sensazione strana, quasi di paura, un silenzio tombale, un viale vuoto, senza macchine, totalmente irriconoscibile, abituandoci quindi a una quiete a cui non eravamo mai abituati in città.
Abbiamo anche, in qualche modo, riscoperto lo spazio esterno delle nostre abitazioni: balconi, terrazze e terrazzini, attraverso i quali le case si sono proiettate fuori, ad una realtà esterna qualsiasi, alla ricerca di una comunità di vicinato cui non s’era prestata grande attenzione prima della pandemia. Si ricerca questa sorta di comunicazione anche con i vicini con cui magari non si andava particolarmente d’accordo, ma vista la situazione in cui ci troviamo tutti quanti, si abbandona il cosiddetto “orgoglio” e si cerca di ricostruire un’amicizia, non solo con i condomini, ma anche con i residenti di edifici distanti. Dalle terrazze delle nostre case, il silenzio inquietante della città è
stato rotto dai vari flash mob, da voci e suoni che d’improvviso, hanno aperto un dialogo tra le abitazioni. Abbiamo bisogno di far sentire che fuori c’è qualcuno che come noi resiste, ha voglia di parlare, di vincere. Ci stiamo abituando ad una città diversa, più solidale e ad un paesaggio più sonoro. Sono sicuro che quando finirà tutto ciò, guarderemo la nostra “casa collettiva” con maggior rispetto e cura»

— Dimitrov Kristian, 21 anni, Olgiate Comasco (Como)

 


«IL MIO SPAZIO VISSUTO AL TEMPO DEL COVID-19 | Secondo Frémont, lo spazio vissuto è «lo spazio degli individui di cui si appropriano, con i loro percorsi, le loro percezioni, le loro rappresentazioni, i loro segni, le loro pulsioni e passioni».
Nei primi di giorni del mese di marzo, un ospite inatteso e oltremodo indesiderato (che si era insediato silenziosamente e a nostra insaputa già da tempo nelle nostre vite), ci ha imposto un drastico cambiamento per quanto concerne le nostre abitudini e del nostro stile di vita più o meno frenetico.
Ci siamo dovuti adattare al fatto che la nostra casa è l’unico ambiente che siamo costretti a vivere a tempo pieno e questa nuova realtà mi ha portata progressivamente a rivedere le mie abitudini lavorative, scolastiche e sociali, dal momento in cui la mia vita è sempre stata immersa in molti spazi, nello spazio universitario, in quello con i miei amici, in quello con i miei colleghi di lavoro ecc…
Improvvisamente, il mio spazio è stato limitato, per effetto di una decisione più o meno consapevole ma necessaria, che mi ha permesso di comprendere quanto sia complicato e problematico pianificare la propria giornata confinata unicamente tra le mura domestiche, le quali non sembrano più così accoglienti e così desiderabili come quando ero sommersa nella frenesia quotidiana della mia routine giornaliera e pre-pandemica.
Inaspettatamente, è difficile fare quelle cose che ho sempre dato per scontate, come ad esempio andare a fare la spesa, che risulta piuttosto complicato.
Peraltro, è davvero strano seguire le lezioni universitarie online, ma per quanto possa sembrarmi assurdo, mi sono dovuta rassegnare all’approccio frontale.
In aggiunta, anche la percezione del tempo nel mio spazio vissuto è cambiata da quando è iniziata la quarantena: durante i primi giorni il tempo scorreva piuttosto velocemente, tra l’assidua attenzione nei confronti delle contraddittorie novità sulla pandemia esasperate dai notiziari, mentre successivamente il ritmo ha iniziato a rallentare progressivamente, quasi come se tutti gli abitanti di questo pianeta fossero sospesi in una dimensione temporale indefinita.
La soluzione per non cadere nell’oblio risiede nella consapevolezza dell’utilità del distanziamento sociale che mi permette di trovare l’equilibrio tra spazio e tempo, senza percepire la casa, il mio spazio vissuto, come una gabbia.
Per stemperare un’attesa incerta, trascorro la mia giornata studiando, cucinando, pulendo e igienizzando l’ambiente circostante tra una videochiamata e l’altra, cercando di tenermi impegnata e rendere fruttifero questo tempo, per fare in modo di non rimpiangerlo quando ritorneremo.
In ultima analisi, l’unico vantaggio che trovo in questa situazione assurda è la bellezza e la disinvoltura con cui la Terra continua la sua vita, beneficiando dell’impressionante riduzione dell’inquinamento e del fatto che le acque siano più limpide che mai e questo, dovrebbe far riflettere sul fatto che noi esseri umani siamo ospiti e non i padroni.

In conclusione, quando ritorneremo a ripopolare le città, ritengo che sia doveroso rivedere e modificare le nostre pratiche spaziali, perché la natura ci ha dimostrato che, anche senza l’essere umano, non necessario, è in grado di sopravvivere»

— Eleonora, 21 anni, Triuggio (MB)

 


«Tra videolezioni, smart working, letture, cucina e pulizie di casa, l’unico modo per potersi interfacciare alla realtà sono i canali virtuali, in cui ognuno dice la sua: improvvisamente tutti siamo diventati virologi, politici, statisti e chef stellati.

Personalmente devo dire che durante questa quarantena ho riscoperto il gusto delle piccole cose come un pranzo in tranquillità a casa insieme alla mia famiglia, senza il bisogno di andare chissà dove. Fare una telefonata in più e non inviare un semplice (e freddo) sms. Altre piccole cose mi mancano, il caffè coi compagni d’università, una passeggiata, il sabato sera con le amiche.

Non pensavo che da casa mia si sentisse il rumore del treno (la stazione dista 800 metri), che per andare a fare la spesa avremmo dovuto renderci asettici con guanti e mascherina e al ritorno lasciare le scarpe e la borsa fuori dalla porta di casa.

È più che mai attuale l’arte del doversi “arrangiare”.

Mancano il lievito e la farina nei supermercati. Le tv si sono conformate al distanziamento, modificando i format ed escludendo la presenza del pubblico.

Anche la casa si è plasmata sulle necessità del momento, il salotto (che ha la luce migliore) è diventato il posto ideale per le videochiamate di lavoro e le sessioni di laurea.

Tutto a portata di mano in cucina, con conseguente disordine maggiore! La cameretta in condivisione con mio fratello è praticamente diventata solo mia per via della didattica online, in cambio lui ha quasi monopolizzato il soggiorno. La lunga attesa per il bagno, che già è uno per quattro persone, e che ora è diventato anche una beauty farm. Mai come in quarantena ho sentito la necessità di stare in balcone. È in balcone che facciamo gli aperitivi e prendiamo un po’ d’aria fresca, da qui si possono avere contatti- nel vero senso della parola- col mondo esterno, speriamo non sia l’unico protagonista anche in estate! La casa si è dovuta evolvere, prima era per tutti noi quasi soltanto un luogo di passaggio perché eravamo sempre fuori, adesso invece tutte le attività di prima si sono adibite a spazi domestici. La casa è l’unica isola felice, perché è l’unico luogo in cui ci sentiamo protetti dal virus.

È in un momento del genere che mi sento fortunata ad avere una famiglia unita e ho scoperto che stare tutti insieme, seppur con libertà un po’ limitate, non è poi così male»

— Immacolata Domenica, 22 anni, Milano

 


«Gli spazi della mia quarantena | Sotto il tiepido sole, un tipico vento primaverile mi accarezza la schiena e le spalle, chine su un libro. Mi trovo sul mio terrazzo, circondata da fiori, piante e immersa in un’aria insolitamente più pura. Leggo “Cime tempestose” di Emily Brontë sognando quegli spazi sconfinati, quelle montagne verdi solcate da vivaci ruscelli e adornate di fieri alberi centenari; una perfetta antitesi con i limitati spazi della mia quarantena. Allungando lo sguardo oltre il grigio cancello della mia casa, osservo le persone che passeggiano sul marciapiede: chi porta a spasso il cane, chi ne approfitta per sgranchirsi le gambe, chi rientra affaticato con la spesa. Appare quasi come una normale immagine di vita quotidiana, se non fosse per le mascherine, attualmente irrinunciabili fonti di prevenzione e speranza. La variazione di stile di vita subìta in questi impensabili mesi mi ha permesso di annullare le distanze fra me e la mia mamma; condividiamo gli spazi della casa e i momenti della giornata, ritrovandoci sempre più in sintonia. Un’inaspettata chiamata desta la mia mente dalle onde impetuose dei miei pensieri: è un caro amico. Adeguare le relazioni interpersonali a questa quarantena non è affatto semplice; la tecnologia di cellulari e computer rappresenta la più pratica (nonché obbligata) soluzione al riguardo. La mia immaginazione vaga ancora insistentemente sulla romantica e fantasiosa atmosfera del libro; sfrutto così l’unica attuale possibilità di viaggiare.

Terminata la telefonata, decido di allentare un po’ la tensione; chiudo la finestra su Wuthering Heights e apro la portafinestra che dà accesso alla mia stanza. Nonostante non possa andare in palestra, ogni giorno dedico un’ora all’esercizio fisico; accendo lo stereo, metto il mio cd preferito, il volume al massimo e inizio l’allenamento. In questi momenti la mia camera non rappresenta un semplice rifugio, ma una vera, ideale bolla di sapone che mi avvolge e mi isola da ogni altra cosa. Qualsiasi pensiero sfuma nell’aria come finissima sabbia trasportata dal vento nel deserto ed io svuoto completamente la mia mente»

— Eleonora, 20 anni, Gallarate (VA)

 


«Avevo già intuito in passato come l’ambiente in cui viviamo ci influenzasse, ma l’esperienza della quarantena ne è stata la conferma.

Lo spazio dove trascorro più tempo durante la giornata è camera mia, ma ci sono altri luoghi della casa che frequento spesso come fossero tappe di una pista automobilistica.

La mia percezione ad inizio quarantena era di disagio perché vivevo uno smarrimento.

In particolare, stare in camera mia era piacevole, ma non mi appagava completamente.

Il motivo era che gli oggetti mi stavano schiacciando, probabilmente per la quantità, per la posizione nella stanza o perché non avevano più nulla in comune con la mia persona in quanto più matura.

Lavorare o studiare in spazi che non ci riflettono o che non ci rappresentano più, crea solo situazioni di procrastinazione e disagio.

Ho sentito, quindi, un bisogno sincero di cambiare l’ambiente che amo e che mi fa sentire più sicura. Ho buttato quello che non sentivo più mio, ho fatto una cernita di tutti gli oggetti, ho sistemato i cassetti, la libreria e perfino dentro l’armadio nonostante non abbia nulla a che fare con l’estetica della stanza.

Averlo riordinato mi ha agevolato nell’inquadrare e sistemare i miei pensieri. Ha incrementato la mia voglia di fare, stimolato la fantasia e incentivato attività come lo studio.

Aver buttato gli oggetti invece, mi ha aiutato ad affrontare aspetti scomodi della mia vita che influenzavano ancora la mia quotidianità.

Mi verrebbe da dire che lo spazio assume il ruolo di “influencer”. Può arrivare a determinare il mio stato d’animo e la possibilità o meno di scontrarmi con il mio nucleo famigliare. Così come ha il potere di fare il contrario; può mettere una gioia immensa.

La quarantena mi ha permesso di rafforzare il legame diretto che sento con il mio spazio personale e consolidare l’idea che, con il modificarsi delle situazioni, l’ambiente deve mutare al nostro cambiare e può aiutare a riscoprire sé stessi se ben ordinato»

— Caterina, 19 anni, Canegrate (Mi)

 


DOMANI, FORSE IERI

Sono le cinque del mattino.

Le strade sono deserte.

Distratta dai miei pensieri fisso il cielo.

È ombroso, tetro.

Nottata insonne.

Rumori assordanti nella mia mente stanca.

Vedo il buio, cerco la luce. Forse la trovo.

Fermi tutti, è Primavera!

Gli alberi sono in fiore.

In lontananza vedo grandi mezzi.

Contengono sogni, speranze, vite… spezzate.

Mi sento impotente.

Tanto arroccata nella mia fortezza costruita su una illusione di perfezione.

Ma in realtà sono fragile, vulnerabile.

Potenzialmente straordinaria.

Lo sono. Lo siamo.

—  Annachiara, 22 anni, Catanzaro

 


«È suonata la sveglia, ho ancora voglia di dormire, ma devo andare a connettermi in remoto al computer dell’ufficio. Non mi sono ancora abituata all’ora legale, per fortuna posso ritornare a letto ancora un po’. Non so come sia possibile che riesca a riaddormentarmi così rapidamente, mi sono sempre addormentata con lentezza e con altrettanta lentezza svegliata. Saranno questi strani ritmi cadenzati dalla quarantena che ti danno la percezione di avere tempo a disposizione?

È questa strana cura che sto facendo la cui tossicità, a differenza dalla chemio, aiuta il mio corpo a prendersi il tempo di cui necessita per riposare?

Non so ma ringrazio che sia così.

Prima di iniziare le attività in smart working, mi siedo qualche minuto nel mio balconcino fiorito, osservo le piante e faccio previsioni su quando sbocceranno nuovamente le rose. Guardo giù per strada, non vedo nessuno uscire dal portone, ma osservo tante persone nei palazzi di fronte indaffarate o che stanno semplicemente seguendo i loro pensieri. Al momento la mia attività lavorativa consiste nel seguire corsi formativi, che spaziano dal corso d’inglese a quelli sull’intelligenza artificiale e su varie forme di comunicazione.

In questo periodo ho ripreso a praticare tai chi. La pratica via skype è stata congeniale alla mia condizione di paziente oncologico in terapia. Su skype mi incontro anche col mio gruppo psicooncologico, se pur parzialmente, senti una parvenza di vicinanza con persone che sentono il tempo come un dono prezioso e che hanno la tua stessa percezione della vita.

Spesso nel pomeriggio seguo dei video di ginnastica dolce personalizzata che mi ha preparato una dolcissima ballerina.

Con mio marito trascorro il tempo in armonia, la disposizione della casa ci permette di gestire senza interferenze le ore che dedichiamo alle nostre attività personali.

I video e le foto di vita quotidiana che invia mio figlio, alleggeriscono il senso di oppressione causato dall’incertezza di quando potremmo nuovamente abbracciarci, ma non è sufficiente.

Vorrei ricominciare a passeggiare, sperando che la nostra abilità sociale generi gesti di cortesia e consapevolezza tali da farci sentire uniti contro un nemico comune»

— Antonella, 57 anni, Palermo

 


«Passato, presente e futuro ora mi appaiono quasi un unico ammasso di tempo. Giorni, minuti e ore hanno poco senso in una stanza di pochi metri quadri. Oggi è domenica ma fa poca differenza un giorno festivo. Tra le mani un libro scritto da Agatha Christie, Poirot a Style Court. Personaggi con interazioni, persone cercano di trovare il colpevole di un delitto. Persone con interazioni sociali. Banale? Scontato? Oggi non più. Dal pc arrivano le note battenti e quasi crude dei Mayhem ed in particolare con Falsified and hates. Aiuta a rilassarmi e soprattutto mi fa concentrare sul mistero in corso.

Il balcone è aperto. Oggi c’è il sole. Per fortuna vivo dove si respira aria pulita. Riesco a godermi l’arrivo della primavera. Una brezza leggera sfiora il mio viso su cui una ruga, dovuta alla concentrazione, ha formato un piccolo solco. Un rumore mi distrae, qualcuno ha deciso di dare ordine al prato selvaggio. Non solo le mie orecchie lo percepiscono, ma anche il mio naso. Mi pizzica, come anche la gola. Sono, infatti, allergica all’odore dell’erba appena tagliata, come anche al polline e a molti fiori. Non ne sono affatto dispiaciuta. Percepire la folle e pulsante vita della natura mi rasserena. Un piccolo ragno sale lungo il vetro lento ma spedito. Non ha fretta, ma è costante nel suo lavoro.

Di questo pecchiamo molto spesso. L’impazienza. Veleno che deturpa tutto ciò che incontra sul suo cammino. Un aspetto su cui si dovrebbe lavorare. Ormai ci si è abituati al tutto e subito. L’era dei social, l’era dell’immediatezza. La quarantena è riuscita a rallentare il ritmo. Alla riflessione. Alla meditazione. Conosciamo le persone su ci possiamo sempre fare affidamento. Le persone che realmente e in modo concreto possono modificare la nostra felicità. Noi stessi. Solo noi abbiamo certo il potenziale di cambiare le nostre vite e il resto del mondo intorno a noi. Sempre noi, cambiando l’atteggiamento verso il mondo esterno, possiamo ispirarci e ispirare gli altri. E non è mai troppo tardi per agire. Allora? Che fai? Aspetti ancora?»

—  Fiorella, 33 anni, Arcavacata di Rende (CS)

 


«Nonostante la nostra sia una casa abbastanza piccola, poco meno di 50 mq. più un terrazzo di 16, le settimane di lockdown sono state meno terribili di quanto temessi. Noi siamo in 2: il mio compagno e io.

Lui ha continuato a lavorare fuori (ambulatorio di psichiatria, è infermiere), io a casa in smart working dal giorno del lockdown nazionale. In questa fase, il mio lavoro è consistito soprattutto in colloqui telefonici (io lavoro come navigator), pertanto, il problema più grande è stato trovare il modo di non intralciarci quando la mattina telefonavo e lui lavorava di pomeriggio, affinché io avessi la massima privacy.

Lui in casa dorme, guarda la tv o suona un po’ la chitarra, legge, io lavoro e leggo o contatto gli amici, tv solo la sera, ascolto la musica mentre pulisco casa. Più condivisione che divisione degli spazi.

Anche se non sempre il tempo atmosferico ha consentito di utilizzare il terrazzo (da cui è persino possibile vedere una strisciolina di mare) e il balcone, tuttavia si sono rivelati preziosi, in questi giorni, per il sole e lo sguardo sul mondo esterno.  Ho curato di più le piante. Abbiamo pranzato fuori, quando possibile.

Gli amici, i miei genitori e tutti gli altri parenti, li ho sentiti spesso al telefono e con le chat, abbiamo fatto anche le video-call di gruppo, ovviamente in quest’ultimo caso ti affanni a cercare lo sfondo più bello, la luce migliore… e anche lì occorre dividere gli spazi in due se l’altro non è coinvolto.

Mi sono sentita fortunata, per due ragioni: la prima è che casa nostra mi piace molto, e la seconda che la condivido con una persona che amo.

Ovviamente, la lunga permanenza in casa ci ha fatto pensare a tutto ciò che di essa avremmo voluto modificare da tempo, ma che abbiamo tralasciato per altre priorità, e ora ci appaiono impellenti! Abbiamo utilizzato questo tempo anche per pianificare i cambiamenti.

Sarebbe stupido negare l’esistenza di qualche tensione causata della frustrazione di dover organizzare tempi e spazi in modo diverso, ma molto meno di quante me ne aspettassi»

—  Anonimo, Siracusa

 


«Inizi di Marzo 2020: un ospite indesiderato impone un drastico cambiamento del nostro stile di vita.

Di colpo la casa diventa il solo scenario immaginabile per qualunque momento della giornata, per qualsiasi attività si decida di svolgere. Gli ambienti sono gli stessi rispetto a quelli che ho sempre conosciuto ma, vissuti a tempo pieno, un giorno dopo l’altro, acquistano connotati diversi. E allora tocca adattarsi, riconfigurare ogni cosa. Cerco costantemente di rammentare a me stessa che, in una simile circostanza, quella in cui mi trovo sia una condizione privilegiata, ma al tempo stesso non riesco a fare a meno di percepirla come estremamente limitante. Difficile scandire la giornata, facile confondere i giorni della settimana, in un orizzonte in cui niente appare in maniera nitida. La didattica prosegue a distanza, ma fatico a rassegnarmi all’idea di non poter frequentare i corsi del mio ultimo semestre universitario. La concentrazione per lo studio latita. Le relazioni con gli amici vengono mantenute in più forme, grazie ai vari mezzi di comunicazione, ma niente può sopperire alla mancanza di un incontro. Nel frattempo, trovo conforto quotidiano nella musica e in qualche lettura. Casa è il luogo del rifugio, sempre pronto ad accogliere, un luogo in cui ci si sente protetti. Ma quando diventa la sola dimensione di vita, ecco che la percezione cambia. È l’alternanza tra vita esterna e vita interna a valorizzare entrambe, la dialettica dentro-fuori a conferire senso a tutto.

Andare indietro con la mente per rievocare momenti gioiosi, sereni o semplicemente quotidiani è, a volte, doloroso. Immaginare un futuro di convivenza con il virus è angosciante. Sento, allora, di vivere un tempo sospeso in cui non sono capace di andare né avanti né indietro, una sorta di dimensione parallela che sottrae alla vita, rubando qualcosa di prezioso che non potrà essere in alcun modo recuperato. E allora l’unica prospettiva a tenermi viva è quella di un ritorno alla prossimità, alla vicinanza, al contatto umano, a un momento in cui l’altro non sia visto con sospetto. È una strada lunga, ma ho bisogno di pensare che tutto questo ritornerà»

—  Alessandra, 26 anni, Vibo Valentia (Calabria)

 


«Terranova di Pollino, 18.04.2020 | STANDO A CASA | La casa può essere percepita come un contenitore vuoto, necessaria per soddisfare solo le esigenze fisiche, oppure uno scrigno che custodisce il nostro essere, piena di energia vitale. È questo il punto di partenza dal quale dipende il nostro vivere, nel tempo e nello spazio, questi giorni di isolamento.

Dopo i primi momenti trascorsi, con mio marito, a riorganizzare gli spazi fisici affinché fossero funzionali alle rispettive esigenze  creative, necessarie per nutrire la mente, è subentrata la necessità di pianificare le incombenze quotidiane. Evitare interferenze è essenziale per soddisfare la umana necessità di sentirsi liberi di agire pur nell’ambito di regole condivise.

Intrigante diviene per me la percezione del tempo, sebbene scorra inesorabile con il suo ciclo invariato; nei primi giorni sembrava correre veloce tra la spasmodica attenzione alle notizie mediatiche, martellanti e contraddittorie, e le lunghe telefonate monotematiche per sentirsi parte di un mondo che rischia di apparire lontano ed esterno al nostro guscio protettivo; per poi man mano rallentare il suo ritmo fino a divenire quasi sospeso, indefinito, in  attesa delle rondini che annunciano la primavera.  

È la consapevolezza delle proprie fragilità  che ci permette di tutelarci  e non lasciarsi trascinare dal vortice nefasto dell’angoscia causata da paure  convulse ed irrazionali,  ripeto tra me e me quando, nonostante l’apparente normalità, mi assale il senso di inquietudine. E nella ritrovata convinzione dell’utilità del distanziamento sociale che trovo la ragione per attivare meccanismi di difesa, investire energie per ritrovare il personale giusto equilibrio tra spazio e tempo, con la consapevolezza che sono, pur nell’indiscussa razionalità matematica, variabili nella percezione; lo stesso spazio può risultare sufficiente e protettivo  o una gabbia che, nonostante la sua ampiezza, ci rende prigionieri di noi stessi; così il tempo può apparire lento e infinito nell’attesa di un futuro incerto oppure  scorrere veloce inseguendo il domani.

In conclusione, è nella complessità della  mente e nel nostro paesaggio interiore la chiave per affrontare con determinazione le sfide che  l’inevitabile cambiamento ci pone, di  immutato resta  solo l‘alternarsi del giorno e della notte a ricordarci che è opportuno vivere con intensità il presente»

— M. Francesca, 61 anni, Terranova di Pollino  (Potenza)

 


«Siccome stiamo tutti a casa, la giornata la trascorro sistemando e igienizzando l’ambiente dove viviamo… Comunque, cerco anche di studiare, in particolare la musica, la fisarmonica, la lira e l’organetto; inoltre, ho fatto un piccolo orticello con piante di pomodoro, peperoni, melanzane, basilico, prezzemolo ecc… Con i miei amici comunico con i social, oppure con una semplice telefonata. Bisogna tenersi impegnati e cercare di migliorare sempre. È bello cimentarsi ed andare alla scoperta di cose nuove, come, ad esempio, fare il pane a casa dal momento che abbiamo tanto tempo a disposizione. Infatti, basta andare su Google e seguire la ricetta… Penso che da questa brutta esperienza ognuno di noi si sia dilettato nell’imparare qualcosa di nuovo e di inesplorato; stando a casa ne usciremo più consapevoli delle nostre capacità, perché noi italiani siamo talentuosi e pieni di risorse nascoste»

— Raffaele, 35 anni, Tropea

 


«Personalmente, credo che questa quarantena prolungata a causa del COVID-19 stia modificando molte nostre azioni quotidiane; io vivo a casa con i miei genitori e due fratelli maschi più piccoli di me. Non ero abituata a rimanere molto tempo a casa avendo molti impegni giornalieri; studiavo a Rovigo e ogni giorno mi svegliavo molto presto per prendere il treno e fare un lungo tragitto di ben 3 ore, quindi tornavo sempre a casa tardi verso le 20.00 e nel weekend lavoravo la sera, quindi condividevo pochi momenti con la mia famiglia e mi dispiaceva tanto. Ora, invece, non lavoro e il tempo a mia disposizione lo dedico a più attività; mi sono organizzata mentalmente, altrimenti non reggerei la noia; l’impatto più grosso è che ci viene chiesto un radicale cambiamento dello stile di vita quotidiano; infatti, ci viene chiesto paradossalmente non di fare più cose, come la società moderna ci ha abituato a fare, generando il cosiddetto “stress per le tante cose da fare”, ma di non fare, di “restare a casa”; credo che questo possa avere delle conseguenze sul piano psicologico per le persone, a cominciare dal nostro rapporto con la paura, in questo contesto di incertezza e di preoccupazione; la paura può essere funzionale, perché si può trasformare in attivazione e maggiore attenzione, per esempio per rispettare i protocolli di igiene, come lavarsi le mani e indossare i dispositivi di protezione individuale per salvaguardare la nostra salute e quella altrui.

Ci sono, però, lati positivi come il condividere momenti che, magari, prima non avrei potuto dedicare alla mia famiglia; ho potuto conoscere al meglio alcuni lati delle persone che amo, dedico più tempo a me stessa come: leggere, fare più esercizio fisico perché prima andavo a camminare ogni giorno, avevo un buon rapporto con la natura, mi piaceva scoprire nuovi sentieri, luoghi, facendo chilometri e chilometri e mi manca moltissimo! Però, purtroppo, abitando in un appartamento, non posso fare molto se non allenarmi per rimanere in salute.

Le interazioni sociali sono cambiate poiché attualmente avvengono tramite cellulare e social network o magari qualche saluto dalla terrazza ai vicini»

— Sanaa, 20 anni, Nervesa della Battaglia (TV)

 


«Mi affaccio spesso alla finestra per ammirare la bellezza del paesaggio nel luogo in cui vivo e per riflettere. In questo periodo quasi tutto sembra fermarsi, anche la frenesia delle nostre giornate piene di attività e di lavoro. Di giorno, spalanco la finestra, perché fuori c’è silenzio, così studio in tranquillità. Devo essere sincera: questa calma mi fa paura, perché sono abituata al rumore delle macchine, ai cani che abbaiano, alle mamme che parlano, ai bambini che giocano ecc… Ora, invece, nella mia via c’è silenzio, perché tutti sono dentro le proprie abitazioni. Ho deciso di raccontare le mie giornate scrivendo le mie riflessioni in un diario di bordo e incollando le foto che scatto dalla mia casa. Scrivo, perché vorrei che queste giornate non fossero dimenticate. Questo periodo mi sta portando a riscoprire tante cose che mi piace fare e che avevo trascurato per il poco tempo a disposizione. Quindi, cerco di sperimentare in cucina, nella fotografia e soprattutto cerco di utilizzare la creatività per trascorrere le mie giornate. Ho la fortuna di abitare vicino ai miei parenti e durante il giorno li saluto e ci scambiamo qualche parola insieme a distanza per tenerci compagnia. La sera, invece, mi alleno ascoltando musica e dopo videochiamo i miei amici utilizzando la piattaforma zoom o whatsapp. Mi sono resa conto di quanto mi manchi il contatto umano con le persone. Non è la stessa cosa sentire i propri amici per videochiamata; è più bello condividere esperienze di persona, rispetto a quelle su uno schermo, che talvolta sono limitative. Quello che mi diverte è vedere i miei genitori sperimentare queste tecnologie. Loro hanno sempre condotto una vita distante dai social rispetto a noi ragazzi che siamo più abituati ad utilizzarli. Adesso anche loro apprezzano e utilizzano queste nuove piattaforme; infatti, hanno organizzato un aperitivo in videochiamata. Io sono abbastanza fiduciosa che questa strana situazione possa risolversi, anche se non nego che le giornate siano difficili, ma alla fine penso che a noi è stato chiesto solo di stare a casa, mentre altri stanno combattendo e rischiando la vita per noi»

— Chiara, 20 anni, Altavilla Vicentina

 


«Sono giorni particolari quelli che stiamo vivendo. Rimanere a casa permette, comunque, di fare molte cose: riordinare gli spazi lasciati in disordine nella mia stanza, cucinare ed assaporare con più tranquillità il proprio pasto ed in più, grazie ai social network, ho potuto scoprire che ogni spazio della nostra casa si presta benissimo a diventare una copia di tutti quegli spazi che siamo abituati a frequentare senza Covid-19: la camera dei miei genitori diventa la mia nuova palestra, il bagno può essere approssimativamente una Spa, il salotto, invece, un’aula virtuale in cui ascoltare le lezioni da casa.
A casa mia ognuno occupa spazi ben precisi: papà penso non sia mai entrato nella mia stanza, preferisce rimanere nel suo orto; mamma raggiunge ogni punto dell’abitazione; Carlotta, che è il mio cane, riconosce come spazi preferiti quelli in cui noi tutti passiamo la maggior parte del nostro tempo; io mi limito a studiare in salotto oppure ad eseguire qualche attività creativa nella mia stanza.
Il bagno è il luogo in cui passiamo il tempo necessario per cura personale. In altre parole è come se tutti stessimo evitando delle “invasioni di campo” per non creare conflittualità. È con loro che interagisco fisicamente tutti i giorni; virtualmente, invece, posso sentirmi vicina ai miei nonni, al mio ragazzo, ai miei amici.
Ecco, proprio la distanza dal mio ragazzo mi ha fatto profondamente riflettere su quanto cinque chilometri possano essere, in queste situazioni, uno spazio impercorribile. Il mio spazio è dove mi sento comoda, dove posso avere a portata di mano tutto ciò che può servire per lo studio, per comunicare con i miei colleghi universitari o di lavoro, con i miei affetti. Lo percepisco come il mio “nodo” da dove parte la rete delle mie relazioni. Penso a quanto siamo fortunati nell’avere a disposizione degli strumenti di interazione che permettono di comprimere le distanze.
I contatti virtuali non possono, di certo, sostituire un abbraccio, un bacio, una carezza, ma servono moltissimo per alleggerire il peso della lontananza dalle persone con cui non possiamo condividere i nostri spazi quotidiani»

— Brenda, 29 anni, Porto Viro (RO)

 


«Questo momento così particolare lo sto passando a casa con la mia famiglia (mia mamma e i miei fratelli). Il clima nella mia abitazione è molto sereno; siamo tutti disponibili ad aiutarci e questo, secondo me, rende molto meno pesante la situazione. Inizialmente le giornate sembravano non passare mai, ma per fortuna, da qualche settimana a questa parte, siamo riusciti ad organizzare al meglio il nostro tempo. Mentre io e i miei fratelli studiamo/seguiamo le lezioni online, mia mamma cucina o pulisce; solitamente, verso tardo pomeriggio giochiamo a carte/giochi da tavolo, ascoltiamo musica, sperimentiamo nuove ricette o semplicemente ci sediamo fuori in giardino a parlare. È molto bello stare all’aria aperta e poter ascoltare solo i suoni della natura, senza le interferenze causate dal traffico, però, al tempo stesso, mi mette una grande tristezza perché mi rendo conto che il mondo si è fermato, e probabilmente sarà molto difficile tornare alla “normalità”.

Un’altra cosa che è cambiata a casa mia è la cena; in questo periodo non la prepara più solo mia mamma, ma tutti insieme ci diamo da fare per aiutarla e questo è il momento che preferisco di più. Dopo aver mangiato ci rilassiamo sul divano e guardiamo dei film. L’uso degli spazi è cambiato notevolmente: la camera non è più usata solo per dormire, si fanno interrogazioni/verifiche online e si seguono le lezioni sincrone. La cucina, invece, non è usata solo per la preparazione dei pasti, ma è diventata spazio di studio e di isolamento dal resto della famiglia.

Infine, la comunicazione con il mondo esterno è molto difficile, dato che abito in una casa singola e ho solo un paio di vicini con cui posso interagire dal balcone; quindi, solitamente, per parlare con i miei amici e i miei parenti uso le videochiamate oppure qualche messaggio durante l’arco della giornata. Questa situazione penso che in qualche modo cambierà tutti noi, sia all’interno delle nostre case, sia per quanto riguarda il nostro comportamento con il mondo esterno»

— Giulia, 22 anni, Nove (VI)

 


«Caro diario,
abituati ad una estrema libertà ci siamo ritrovati reclusi in casa. Nel giro di pochi giorni la nostra vita è improvvisamente cambiata. In questo periodo di “gabbia” forzata, penso a tutte quelle libertà che davamo per scontate e acquisite, perse in un battito d’ali, sono diventate inaspettatamente preziose e desiderabili. Fino ad ora l’unica libertà ancora concessa è quella di sentirmi libera di scegliere come e chi voglio essere in queste circostanze. Prima di tutto, ho iniziato a scrivere questo diario per accompagnarmi in questa quarantena e farne tesoro come testimonianza futura. Inizio le giornate alzandomi alle 7:00, poiché condivido la camera con mia sorella, devo fare presto a sgomberare la camera perché ha le video lezioni ed ha bisogno del suo spazio. Mi sistemo e scendo dalle scale salutando mia madre che, più mattiniera di me, ha lasciato da poco il locale lavanderia per dedicarsi con impegno al giardinaggio… Vivendo in una zona rurale, ogni giorno, fortunatamente, ci dedichiamo al mantenimento del prato; dopo aver fatto colazione mi soffermo ad ammirare dalla finestra, la natura che si risveglia e il calore del sole sulla pelle… la pace dei sensi; successivamente vedo arrivare Giotto, il mio cane, l’unico vero contatto fisico concesso, in questa pandemia, senza metri di distanza. La mattina è dedicata allo studio, nel salotto, mentre nell’arco della giornata ad altre attività ludiche, dal lettering, alla cucina, lo sport, qualche film. Non mancano momenti di smart working tra colleghe e video chat con fidanzato e amici. La casa è grande, ma la zona che preferisco è, come la chiamo io, la camera dei segreti, dove a volte è il rifugio di mio padre per suonare la batteria, mentre altre è dove mi immergo a suonare il piano e traggo ispirazione per qualche attività. La musica è un vero conforto e, a questo proposito, si aggiunge anche il canto, ma quest’ultima attività richiede la partecipazione di tutta la famiglia, essendo parte del coro parrocchiale, e che al tempo stesso ci raggruppa in un “momento terapeutico” per allietare ogni stato d’animo»

— Nicole,  25 anni, Taglio di Po (Rovigo)

 


«La mia vita è sempre stata immersa in molti spazi. Spazio con gli amici, spazio all’università, al parco…  

Adesso il mio spazio è limitato, si racchiude in un salotto dove studio, un terrazzo dove leggo un libro, una camera dove passo del tempo da sola, un giardino e dei campi. Ad oggi la mia vita è cambiata, non ho più un luogo dove poter andare in libertà, dove posso incontrare i miei amici, bensì un confine, un mio spazio all’interno di uno spazio condiviso, dove mi trovo a trascorrere molto tempo con i miei familiari.  In questo momento è molto importante scegliere che cosa mettere dentro il proprio spazio. Queste restrizioni mi hanno fatto capire quanto sia prezioso ciò che mi circonda, uno spazio rurale da sempre ritenuto svantaggioso, perché mi allontanava dal centro del paese, e che ora mi fa sentire fortunata e felice di passeggiare nella natura. Qui prevale la percezione del suono e della vista, dal cinguettio degli uccellini, all’osservazione dei colori del paesaggio. La mia vita che si organizza in questo spazio racchiude momenti di dialogo con la mamma, momenti dove, insieme, ci dedichiamo al nostro giardino. Queste sono le attività che ritengo più significative. Le relazioni in base agli spazi sono cambiate, rispetto a cosa facevo con i miei amici sulla base del luogo in cui mi trovavo, e cosa, invece, faccio adesso con loro sulla base del luogo in cui mi trovo. Altro elemento che inserisco all’interno del mio spazio è il telefono, con il quale non sono più io ad uscire per creare un luogo e un’interazione con i miei amici, ma sono loro che entrano nel mio spazio tramite un telefono, attraverso un messaggio o una videochiamata. Tutto ciò comporta dei cambiamenti anche nello stare insieme. Ad oggi non ci si saluta con un abbraccio, ma attraverso una comunicazione mediata da uno schermo. Il mio spazio vissuto si compone, quindi, di un paesaggio, composto dalla mia cucina, dalla mia camera dove tengo spesso la televisione accesa per avere compagnia e un salotto. Diversi spazi dove costruire la mia quotidianità»

— Melissa, 20 anni, Solesino (PD)

 


«Il Coronavirus è, ormai, nostro malgrado, una realtà che non possiamo ignorare.

Oltre alla pericolosità dei suoi effetti, il COVID-19 ha con sé svariate complicazioni quali la chiusura di molte strutture e una quarantena obbligatoria.

Quest’ultima ha portato con sé la necessità di svolgere le proprie attività direttamente da casa, cercando di vivere in sinergia con i propri familiari. Oltre a ciò, personalmente parlando, ho potuto notare come, rispetto alla situazione precedente alla quarantena, gli spazi all’interno della mia casa avessero assunto un valore e uso differente. Questo cambiamento è suddiviso in due fasi:

1) Durante la prima fase, la mia famiglia poteva uscire per lo stretto necessario e ciò ha comportato che anche la macchina fosse uno spazio usato, oltre alla cucina, al bagno e al salone e le camere da letto dove si sono svolte le principali attività, quali studio, cucina, letture e svariate attività con l’obiettivo di far passare il tempo.

2) Dopo che un membro familiare è risultato positivo al COVID-19, è cambiato l’ordine di importanza di alcuni degli spazi prima citati. Dovendo riservare al membro positivo una camera, la necessità di doverlo nutrire e sorvegliare ha reso la cucina e il bagno sempre più importanti; infatti, è stato necessario, spesso, cambiare l’alimentazione e disinfettare con minuzia il bagno per la presenza del familiare positivo. Guardavo con occhi diversi la camera da letto e la macchina in quanto, di notte, è stato, spesso, necessario monitorare i parametri vitali del familiare e, quindi, eravamo tutti allertati.

Oltre alla redistribuzione dello spazio vissuto, è cambiato anche il modo di comunicare con l’esterno. Dovendo comunicare e non potendo uscire, ho notato come il balcone sia diventato il mezzo che connette il mondo, in quanto assume notevole rilevanza l’aspetto sonoro. Ciò deriva anche dal fatto che, per comunicare, ci sono strumenti di comunicazione come la chiamata o videochiamata utilizzando app quali zoom, meet…»

— Emanuele, 20 anni, Mirandola (MO)

 


«Il mio appartamento è situato al secondo piano di un contesto di due palazzine e si suddivide in due livelli: al piano inferiore c’è la zona giorno, mentre in quello superiore la zona notte. Vivo con Dulce, il mio gatto, l’unico essere con cui, al momento, posso avere degli scambi affettivi: ormai è anziano e il tempo che non trascorre a dormire, cerca la mia vicinanza e le mie coccole. Le interazioni con le persone, gli altri condomini, invece, avvengono qualora ci si trovi nelle rispettive terrazze e, date le belle giornate, ciò avviene ormai quotidianamente; mi accade, inoltre, da qui, di ascoltare per lo più voci provenienti da diverse direzioni, infatti c’è chi sta facendo smart working, chi si allena in videochiamata, chi si sta abbronzando e si relaziona con la moglie/marito, chi gioca con i figli in giardino. Quando mi affaccio, poi, ho davanti a me un parco dove posso vedere, certamente non nell’affluenza di un periodo ordinario, persone che camminano, bambini che giocano, padroni che portano a passeggio i loro cani. Abitando in un Comune differente rispetto alla mia famiglia, l’unico modo per potersi vedere è quello delle videochiamate, oltre al fatto di tenerci in contatto con le classiche telefonate: uso questa modalità soprattutto con mia nonna, chiaramente nei limiti del possibile rispetto alle sue capacità di sentire il cellulare che squilla e di discriminare che non si tratta di una chiamata, perché è anziana, sola e prima di tutto questo era abituata a vedermi molto spesso. Per certi versi sono felice di questo periodo a casa perché mi ha dato la possibilità di godere appieno dello spazio in cui vivo, rispetto a quando la giornata è satura tra lavoro e frequenza delle lezioni, e riesco a tenermi impegnata talmente tanto da non avere momenti vuoti in cui annoiarmi: la mia giornata la spendo per la maggior parte nella mia terrazza dove studio, dove mi abbronzo dopo pranzo e dove curo le piante e i fiori; però, quando sto dentro, sono in cucina a dilettarmi in varie ricette che trovo nel web e a sperimentarmi in piatti che, nella classica quotidianità, magari non avrei tempo di fare con la stessa tranquillità»

— Elisa, 38 anni, Mirano (VE)

 


«La quarantena ci ha tenuti separati dagli amici, dai parenti, da tutte quelle persone con le quali eravamo soliti spendere giornate intere. Molti gesti, dati per scontati, ora ci sembrano fondamentali, indispensabili. La quarantena mi ha dato la possibilità di riscoprire attività delle quali avevo dimenticato la bellezza. Sono ritornata a ballare, seppur nella mia piccola stanza, ma con la passione che mi contraddistingueva un tempo. Ho riscoperto la gioia di condividere con la mia famiglia splendidi momenti insieme, che con il tempo si erano lentamente dissolti. Ho passato in rassegna la mia libreria e ho riletto i libri che da piccola mi hanno fatto amare questo passatempo. La quarantena mi ha permesso anche di scoprire attività nelle quali non mi ero mai cimentata prima di allora: ho cucinato squisiti dolci per la mia famiglia, con l’aiuto di mia sorella maggiore; ho decorato un album fotografico rendendolo più ricco attraverso frasi, disegni e fotografie che mi hanno permesso di rivivere i bei momenti passati con i miei amici.

Queste settimane di isolamento mi hanno fatto rendere conto di essere una persona fortunata: ho la possibilità di vivere circondata da grandi distese di prati e di boschi, attorniata dai miei parenti, e questo mi ha permesso di poter comunicare con loro in qualsiasi momento della giornata. Nonostante la distanza di sicurezza che abbiamo dovuto mantenere, le interazioni con le persone non sono mai mancate. Abbiamo potuto parlare in giardino prendendo il sole, ascoltando il cinguettio degli uccelli e assaporando ogni attimo di quella bizzara situazione. La mancanza di un abbraccio o di un bacio si è sentita, ma ho speranza nell’affermare che prima o poi ritorneremo a farlo con la naturalezza di un tempo»

— Irene, 19 anni, Vicenza

 


«Abito a pochi metri dal centro storico di Adria, quindi sono abituata a sentire il rumore delle macchine passare, i miei compaesani che passeggiano, i ragazzi che ridono e scherzano sui marciapiedi… ora il silenzio, un silenzio quasi inquietante.  Sono in casa da ormai quattro settimane, abito con mia madre e mia nonna; partirei con il sottolineare che io sono abituata ad essere sempre fuori casa, che sia per l’università, per il lavoro, per lo sport o per gli amici. Mi sono ritrovata, quindi, da un giorno all’altro in casa, in una casa che non è mia, perché di mia nonna; ho dovuto trasferirmici per problemi familiari solo da due anni; ho dovuto, quindi, crearmi un “luogo sicuro” in cui avere la mia privacy, i miei spazi. Sono partita dal rivoluzionare l’arredamento della camera da letto, in modo da farla diventare mia, il mio spazio, la MIA camera. In questa stanza ci passo quasi più della metà della giornata: studio, ascolto musica, faccio esercizio fisico e sto al telefono. Sì, passo molto tempo al telefono, è l’unico modo per tenermi in contatto con i miei amici, le mie cugine, mio fratello. Passo ore a fare lunghissime e divertenti videochiamate, che rendono tutto un po’ più leggero, spensierato. Nel momento in cui vado in cucina per fare colazione, per pranzare o per cenare, percepisco la tristezza di mia madre nel non poter vedere il suo compagno che abita a chilometri di distanza, percepisco la tristezza di mia nonna che, oltre a noi, non può vedere il resto della famiglia, le nipoti e le sue figlie. Accendere la televisione è straziante, ogni programma parla del Covid-19, telegiornali, interviste, pubblicità, talk show, ecc.

A volte mi affaccio alla finestra, ultimamente ci sono delle giornate di sole meravigliose, allora con la testa sento il sole che mi scalda, ogni tanto passa qualcuno che, magari, è andato a fare la spesa e io gli sorrido, è un sorriso di speranza, un po’ come dire “stai tranquillo, passerà tutto”»   

— Carlotta, 20 anni, Adria (Rovigo)  

 


«Permettetemi di iniziare questa descrizione, definendo il periodo che stiamo vivendo come “unico”.
Con tale termine, voglio indicare la considerazione del grande cambiamento che esso porterà alle nostre vite, in modo positivo o negativo. Per quanto riguarda, infatti, il trascorrere dei giorni della mia vita, posso affermare che sono cambiati nella modalità con cui svolgo tutti gli appuntamenti che scandiscono le mie ore.
Come tutor di centri studio e doposcuola privati, mi ritrovo a svolgere delle lezioni mediante piattaforma online ed utilizzando la tecnologia a disposizione come strumenti per la didattica.
Lo stesso avviene per il mio percorso all’interno del Conservatorio, effettuando persino le lezioni di canto in remoto. Per tale motivo, gli impegni sono aumentati, poiché la possibilità di incontri virtuali , rimanendo a casa, ha dato la possibilità di eliminare quel tratto di tempo legato allo spostamento, recuperando più ore da mettere a disposizione.
Sono riuscita, quindi, a “trovare” del tempo da dedicare a me stessa, in particolare facendo allenamenti quotidiani, esercizi fisici che rappresentano anche un punto di sfogo di nervosismi per il rispetto dei limiti imposti. La sera, invece, nella mia stanza, comincio a riflettere su quanto accaduto, osservando la finestra che porta al balcone e soffermandosi sulla sua importanza come l’ unica porta sull’ambiente circostante.
I momenti di silenzio vengono da me sfruttati per conoscere quelle mie debolezze che il tempo attuale sta mettendo a dura prova e mi riscopro, ogni giorno, sempre più forte. Durante il sonno notturno, non posso nascondere l’insorgenza di paure o sogni turbolenti di un inconscio che manifesta il desiderio della libertà.
Ciononostante, il mattino arriva con la sua energia ed io mi ripropongo di dare il mio contributo, con la più grande forza possibile per sostenere la mia famiglia, parenti, amici, studenti più deboli e che hanno bisogno di una presenza vivace e costante»

— Patrizia, 31 anni, Cosenza

 


«Da quando siamo in zona rossa mi sono trasferita dal mio ragazzo che non abita molto distante da me, ma poiché dobbiamo restare chiusi in casa per riuscire a vederci, abbiamo preso questa decisione insieme a suoi genitori che, molto gentilmente, si sono offerti di ospitarmi. Gran parte della giornata la impiego a studiare, cerco di svegliarmi presto per stare al passo con le lezioni e finire tutto il prima possibile. Se sono belle giornate studio fuori al sole, mentre il mio ragazzo mi fa compagnia. Quando ho del tempo libero, siccome amo il calcio, giochiamo assieme a calcio, calcetto e alla playstation oppure a freccette o a carte. Un altro modo per impiegare il tempo libero è fare un po’ di palestra in casa oppure guardare serie tv o film. Ci manca molto avere contatti con i nostri amici, ma, per fortuna, siamo assieme e riusciamo a vedere i suoi cugini faccia a faccia poiché abitano attaccati, oppure riusciamo a fare due chiacchiere con i vicini sporgendoci dal cancello di casa sua. Mi piace anche fermarmi ad ascoltare i rumori che mi circondano come per esempio gli uccellini che cinguettano o il fruscio del venticello primaverile tra i rami degli alberi in fiore. Personalmente sono una persona molto aperta e solare, quindi, questa situazione non è delle migliori per me, ma cerco di adattarmi il più possibile. I miei amici mi mancano un sacco, mi mancano le uscite assieme e le serate passate a ridere e scherzare; li considero come una seconda famiglia perciò è difficile non vederli. Riesco, comunque, a sentirli tramite messaggi, telefonate o videochiamate. La stessa cosa succede con i miei genitori e mio fratello ed ammetto che mi mancano molto. Credo che questa quarantena non abbia solo aspetti negativi, cerco di cogliere anche i lati positivi. Per esempio, questa situazione mi ha permesso di rafforzare legami con alcune persone, mi ha consentito di apprezzare ancor di più ogni piccolezza e di non dare mai niente per scontato, anche guardare un prato fiorito o un albero in fiore in una giornata di sole mi emoziona»

— Lucrezia, 21 anni, Trevignano (TV)

 


«Il collezionista di matite | Lo spazio vissuto è lo spazio di tante cose, anche delle passioni. Ma se lo spazio vissuto è costretto, è obbligato, non ha uscite… le misure si amplificano, si polarizzano. Gli spazi piccoli diventano infinitamente più piccoli, quelli grandi disperatamente più grandi. In certi casi, come quello del nostro collezionista, la sua passione diventa un’ancora di salvezza. La sua attuale inaspettata via di uscita è un oggetto piccolo, semplice, utile, capace di disegnare spazi, di sottolineare parole, di tramutare i pensieri… nero su bianco!

Da tempo il collezionista accarezzava l’idea di trovare lo spazio adeguato alle sue innumerevoli matite da disegno. Approfitta saggiamente di questa quarantena e finalmente cataloga, pensa, progetta, buca il muro, e alla fine… Il risultato è un 12 metri e 45 centimetri di 3 file di mensole in multistrato bianco perlato catalogo Ikea 2020! Lo spazio ricreato è un piccolo gioiello in uno studio lungo e stretto, molto luminoso: una porta/balcone, lucernario e 2 finestre. Da quella più grande ogni tanto il collezionista scorge Demetrio, il vicino del condominio di fronte. È sempre diffidente, ma oggi sorride, stranamente complice. Avrà realizzato che i rumorosi lavori di trapano sono finalmente conclusi.

Ora le matite sono tutte lì, in bella mostra, sembrano incastonate al muro, come gioielli alla corona. È uno spettacolo d’arte varia: morbide, dure, lunghe, strette, chiare, colorate, riciclate, piccole, grandi, antiche, vintage, moderne, mangiucchiate, intonse, temperate e ancora da temperare. Disposte così il collezionista le può quasi chiamare per nome… Ognuna ha, nel proprio intimo, una storia da raccontare. Le ultime sono frutto di recenti relazioni via social. Adam, dalla Scozia, ha mandato delle matite conta-parole; con John da Vancouver, il collezionista ha scambiato matite giapponesi, di rara bellezza; dall’Ucraina Oleksandra ha inviato matite della sua infanzia; da Venezia, Roberto ha contribuito con matite promozionali americane.

In questo periodo particolare, il collezionista ha dato nome e spazio alla sua passione, stringendo contemporaneamente relazioni, virtuali ma autentiche. Risultato? Un centinaio di nuove matite ed un finale ad effetto.

“Non importa che matita sei. Fai la punta, e prova a lasciare il segno”».

— Stefano, 42 anni, Bassano del Grappa (VI)

 


« Per pochi minuti la notte mi offre una scarsa razione di normalità.
Sono le tre e sono tranquilla.
Mi affaccio alla finestra, guardo le case e respiro quel silenzio che di giorno mi inquieta.
Mai come adesso quattro mura in calce e mattoni sembrano intonacate da una luminescenza quasi mistica.
Un rifugio, una comoda trincea.
È notte e sembra una notte normale.
 Ma adesso anche il silenzio, indossato con tanta naturalezza, si fa cattivo: lo stesso silenzio evoca il corteo di camionette militari, improvvisati carri funebri per centinaia di salme, avanza, investendo tutte quelle piccolezze per cui settimane prima avrei avuto il coraggio di lamentarmi.
Fra qualche ora vivrò un giorno di cui non mi importerà conoscere il nome ma a cui darò un significato nuovo.
Osservo il cielo bucherellato di stelle e, per la prima volta, mi sento parte dell’umanità.
Un cielo che trasuda preghiere in lingue diverse tra loro eppure tutte uguali.
Resterò qui nel mio fortino dal profumo di pasta frolla, dove il tempo è generoso. Riscoprendo il vecchio e il nuovo, alternando silenzio e musica, piegando orecchie alle pagine dei libri e cantando una canzone di compleanno da dietro il display di uno smartphone.
Dal divano contribuirò ad aiutare il mondo. Dalla finestra sussurrerò la preghiera: “Che nessuno dimentichi che siamo tutti umani”»

— Ilenia, Gioiosa Jonica (RC)

 


«Ogni giorno mi sveglio alle 8.30, apro la finestra e prendo una boccata d’aria fresca. Con le strade deserte l’aria è diventata migliore, più fresca, con meno inquinamento. Dopo essermi messa la divisa da casa vado al piano di sotto e puntuale come sempre trovo Artù, il nostro cucciolo di pincher di 6 mesi che è sempre pronto a giocare. È il più allegro della famiglia dato che è sempre al centro dell’attenzione in questi giorni; prima della quarantena rimaneva a casa da solo alla mattina, in quanto io andavo all’università e mia mamma, mio papà e mia sorella a lavoro. Dopo qualche carezza vado a salutare mio papà, già sveglio da qualche ora e già all’opera in qualche suo progetto per la casa lasciato in sospeso da molto tempo a causa del lavoro, ma ora è a casa; quindi, può riprendere i suoi progetti per la casa. Finita la colazione si sveglia anche mia sorella. Quasi tutte le mattine le passo a fare chiamate ai miei familiari. A volte chiamo mia sorella maggiore che da circa un anno non abita più con noi e, quindi, non possiamo vederci, se non con le videochiamate. A volte chiamo i miei nonni, loro non li posso nemmeno vedere perché non sono molto tecnologici, ma almeno li sento e mi mancano davvero tanto. A volte chiamo gli zii, per sentire come stanno. A volte facciamo videochiamata di gruppo io e le mie amiche per ridere e scherzare nonostante la distanza. Per pranzo ci raggiunge mia mamma, lei lavora ancora per un’impresa di pulizie ora impegnata nella sanificazione di vari stabili. Al pomeriggio, invece, solitamente seguo delle lezioni dell’università e, dopo lo studio, porto a spasso Artù. La nostra fortuna è abitare in un paese di campagna, quindi lo porto nei terreni davanti a casa e lo lascio correre in libertà. Ogni tanto troviamo anche qualche concittadino che porta a spasso il proprio cane. È bello incontrare qualcuno e fare due chiacchere. Però, svegliarsi ogni giorno e fare le stesse cose, anche se cambiandole di poco, a volte è davvero difficile»

— Greta Cecchinato, 19 anni, Terrassa Padovana (PD)

 


«Nulla avrebbe potuto prepararci a ciò che stiamo vivendo in queste settimane. Vivendo ormai sola da anni in città trovarmi qui, nel paesello della mia infanzia, durante questa epidemia appare surreale. La mia casa, da sempre considerata un rifugio, un luogo sicuro, inespugnabile, dove vivere il calore e l’allegria dell’ambiente familiare dopo tanti mesi di lontananza, comincia ora a divenire un luogo opprimente, una gabbia dorata, ma pur sempre un luogo di costrizione.

Unica nota positiva in questa situazione di “perduta libertà” è il tempo trascorso con la mia famiglia, il riscoprire abitudini ormai accantonate a causa della vita frenetica di ognuno: il preparare un dolce o il pane fatto in casa con mia madre, il guardare un film con mio padre davanti al camino acceso, il sedersi a tavola tutti insieme come nei giorni di festa…

Non sempre la convivenza forzata risulta facile. Vivendo sola ormai da anni, a volte necessito di uno spazio che sia soltanto mio, dove poter ritrovare una parvenza di libertà ed è qui che, come facevo da bambina, torno a rifugiarmi nella mia camera da letto, piccolo mondo creato a mia immagine e somiglianza, per leggere un libro, ascoltare musica o semplicemente guardare fuori dalla finestra e godere dello splendido paesaggio che si staglia davanti ai miei occhi, bellezza della quale non posso godere in città.

Il silenzio in strada è assordante, affacciandosi al balcone non si vede nessuno, non si riesce ad ascoltare altro che il cinguettio degli uccelli che giocano tra i rami, ignari della situazione e forse felici di poter riprendere possesso di quegli spazi a loro preclusi.

È proprio in queste circostanze così complicate che sento maggiormente la mancanza degli affetti più cari. Persone che, pur vivendo a pochissimi chilometri di distanza, non posso incontrare. La tecnologia per fortuna viene in mio soccorso, così la videochiamata su Skype o i tanti social network divengono un mezzo prezioso, un modo per sentirsi vicini, per conservare una parvenza di normalità fatta di sorrisi e chiacchierate o di un caffè preso in compagnia attraverso uno schermo»

— Laura, 26 anni, Cerro al Volturno (IS)

 


«Vivo a Milano ma sono di origini calabresi. Sono un insegnante di lingue e la cosa più terribile da quando Conte ha annunciato la chiusura definitiva è non poter vedere i miei alunni. Loro che sono la ragione per cui mi sono trasferito, loro da cui continuamente imparo ogni giorno qualcosa e loro imparano da me. Passo il tempo attraverso le video lezioni, le correzioni dei compiti e le interazioni che abbiamo attraverso i vari canali che la scuola ha messo a disposizione o che ognuno di noi insegnanti possiamo usare come whatsapp, skype, ecc…

Qui vivo in una struttura con altre 110 persone, ridotte a poco meno di 40 in quanto la regione Lombardia ha emanato un decreto, secondo il quale le strutture ricettive devono essere abbandonate per ritornare nei comuni di residenza. Peccato che la mia residenza è in Calabria e che non potevo scendere né con treni, né con aerei e né tantomeno con la macchina. In più non ho nessuna intenzione di mettere in pericolo i miei cari o i miei compaesani, per cui ho scelto di rimanere qui. Rimanere qui ha significato convivere con persone in spazi piuttosto ristretti, soprattutto la cucina e con la mancanza dei familiari. Rimanere qui ha significato che uscire per andare a fare la spesa equivale ad andare in guerra, ma significa anche vivere momenti di solidarietà tra me e il coinquilino e tra gli altri ospiti della struttura; significa collegarsi con i colleghi per aggiornarci sulla situazione, sulle classi e fare aperitivi virtuali; significa anche che il giorno del mio compleanno ho sentito una vicinanza da parte di tutti, alunni compresi alcuni dei quali hanno voluto collegarsi per farmi gli auguri in un giorno in cui non era prevista lezione.

Ciò che voglio dire è che questa quarantena forzata bisogna viverla per quella che è: una quarantena necessaria per sopravvivere e mediante la quale si potenziano i legami e i rapporti interdisciplinari, in attesa di poterci riabbracciare e vederci faccia a faccia migliori di prima»

— Rocco, 33 anni, Milano

 


«Il tempo dilatato | Sembrano molti di più ma sono “solo” 27 giorni che la mia vita è radicalmente cambiata, come quella di noi tutti.

Se mi guardo intorno posso solo ringraziare Dio per tutto ciò che mi ha dato e che ho ancora, per questo sole che trapela dalla finestra del soggiorno: la speranza.

Era sera quel lunedì 9 marzo, quando Conte ha annunciato, in soldoni, che non potevamo più circolare liberamente. Sono corsa da mia nipote le ho dato un bacio in testa e l’ho abbracciata da dietro, per evitare anche solo minimamente di metterla a rischio. Sapevo che per molto tempo non l’avrei più rivista e ho sentito una stretta al cuore.

Eh sì, devo rimanere nella mia residenza…così alle 1.40 di notte sono andata presso il mio domicilio a 95 km a prendere le necessità, in primis il mio laptop, perché ero già in smart “worki”… (ah, come vedete il piglio ironico non l’ho perso ancora).

Tra i km, la paura, i lampeggianti della polizia, l’ansia, i calzini, l’incredulità e una scarpa, pensavo a Fabio. Lo avevo conosciuto quattro giorni prima e che bella domenica pomeriggio… la prima e l’ultima trascorsa insieme.

Non è stato facile e non lo è, ma le giornate sono un fiume in piena, connessa h12/24. Al mattino lezioni con gli alunni e poi ancora lavoro, sport online mentre i miei gironzolano nel background, canto, con annesso rischio di ricevere pomodori avariati da parte dei vicini, leggo, cucino, pulisco, faccio spesa, varie ed eventuali. È così che scandisco le ore della giornata e allontano quel senso di vuoto e smarrimento che talvolta si affaccia, come a dire: “è inutile che fai finta di niente…”.

Già. Chissà quando smetterò di riempirlo e riavrò tutto ciò che al momento è nascosto, segregato, oscurato, distante, evanescente, tutto ciò che sta sfumando… in un ricordo.

Eppure sono salva, i miei cari stanno bene, posso ancora sorridere davanti una meme o un video scemo, ascoltare musica e dedicare canzoni, fare una videochiamata, vedere un concerto casalingo di qualche artista, avere un buongiorno virtuale con fiori e cuori, riempirmi di bellezza, arte e amore»

—  Lucia, 33 anni, Foligno (PG)


 

«Il nostro non vissuto. Immaginate un grande castello di carte, lavoro di anni, spazzato via da un colpo di vento mentre lo stai osservando in una stanza che credevi avesse le finestre chiuse e quindi impermeabile. Sostituite il castello con un progetto che prevedeva un lavoro nuovo, una casa e un matrimonio già fissato e il Covid-19 con il vento. Le mani che hanno costruito quel castello sono le mie e quelle di Elisabetta.

Di vissuto rimane il vedersi su Skype o Whatsapp durante la giornata, ognuno di noi fermo in un posto diverso da quello che in cui avremmo dovuto essere.

La cosa più eccitante fatta dall’inizio della quarantena ad oggi? Spostare il matrimonio, avvisare chi di dovere, beccarsi la pietà e i tentativi di consolazione.In mezzo ore sempre uguali, vissute a distanza. Smart Working lo chiamano. Smart Loving invece lo abbiamo inventato noi, costretti a vivere il nostro rapporto su piattaforme multimediali neanche fossimo il Miur.

Duro paradosso in un momento storico di cui si dice “ha ridotto le distanze, ha reso tutto a portata di mano”. Noi, novelli luddisti, preferiremmo farne a meno e tornare al vecchio caro vis à vis. Non abbiamo nemmeno balconi comunicanti o finestre cui affacciarci per scambiarci almeno un bacio volante. Nulla, ci dividono pure i chilometri. Pensate un po’»

Francesco; 38 anni; Corigliano-Rossano

 


 

«While having my morning tea on the terrace I water the sunflower seeds I planted the day before quarantine. They now have small leaves. I call them ‘my little pots of hope’ because I envisagethis period will be finished by the time they flower. We have always loved Italy and moved here two years ago. We lost our home in Ireland to the bank some years ago as a result of the economy crashing, I no longer see it as home, Italy is home. My business is destination weddings to Italy, so I have gone from working eight hours days on the computer to now two hours max per day, all my work at the moment is postponing weddings to next year.

I do my two hours of work after I water my sunflowers. Then I write my blog post for the day. I started my blog the first day of quarantine. I try to keep it humorous as it forces me find something to laugh about each day. We are eating really well because we are planning our meals better and restricting ourselves to one trip to the supermarket each week. I have been outside our gate three times in the last four weeks. Between eating and writing and answering emails, I walk around the back field, with my two dogs and cats. This happens about 10 times a day. At 17:55 I sit at my computer and go onto Lab24. I take a screen shot of the previous days figures – active cases, deaths, recovered, new cases. I then light a candle and wait for the new figures for the last 24 hours to come in, which is usually between 18:11 and18:20. The candle is for the people who have died that day and for the families who cannot be with them. I then watch the Irish news and Sky News as I have my parents in Ireland, my daughter in London and a brother in New York. I blow out the candle, and watch a comedy before bed»

— Rosie; 48 anni; Tuoro Sul Trasimeno, Umbria 

 


«QUESTO NUOVO MONDO È DELLE VOCI | Io quelli che si lamentano della quarantena proprio della quarantena proprio non li capisco. 
Di sicuro in mezzo a questi bradipi in pigiama, m’avverto divenire un cosplay dell’Uomo Ragno.Questa luna spoglia quarantena assola i sensi. E di Netflix non ne ho bisogno.Perché il mondo, questo nuovo mondo è delle voci.  Le voci della strada.

Quando sento delle voci per strada, sotto casa mia, mi precipito alla finestra non per vedere se c’è gente che corre e indignarmi, ma per seguire la conversazione. Mi interessa tutto: cosa hanno da dirsi, se sembrano felici, come sono vestiti, quello che spunta dai sacchi della spesa Esselunga e il tipo di rapporto che può esserci tra i due (non sono mai più di due). Se si tengono per mano. Immagino la strada che faranno se girano l’angolo a destra o a sinistra, la loro storia, come fossero prima del corona, magari si stavano lasciando o sono parenti che non si parlavano da anni, oppure invece no, era già tutto a posto tra loro e la quarantena gli è più lieve. Comunque, stare alla finestra is the new guardare la televisione»

— Anonimo, 37, Cerisano

 


«Posso dire che vivo questa forzata clausura sospesa tra incubo e realtà, cercando di non lasciarmi avvolgere troppo da pensieri negativi e opponendo una ferrea volontà di sopravvivere. Non ascolto la televisione continuamente per non lasciarmi impressionare troppo dai numeri dei contagiati e dei deceduti.
In casa: cucino, pulisco e disinfetto sia in quest’ordine che nell’ordine inverso, leggo, anzi sto audioregistrando un libro a capitoli che settimanalmente riverso nella chat “l’ora di lettura” che prima di tutto “questo” tenevo il giovedì in una libreria della mia città. Vorrei stare sempre in casa ma ho una mamma che è appena stata dimessa da una struttura riabilitativa e non è per niente riabilitata per cui con un’altra sorella dobbiamo occuparcene il tutto con tanta circospezione e paura.
Questo COVID-19 senza corpo, né faccia ci sta mettendo in ginocchio e nonostante alle finestre ci siano bellissimi cartelli che dicono che “andrà tutto bene” la sensazione è di vivere un incubo»

— Anna; 64 anni; Voghera

 


«Il nostro quotidiano si articola nello spazio e nel tempo. Sono le due dimensioni fondamentali che caratterizzano le nostre giornate. Ci spostiamo lungo questi assi ogni giorno. Se quello del tempo è percorribile in un solo verso e finito, quello dello spazio ha tutt’altre caratteristiche, diametralmente opposte. Questi assi non sono mutati, neppure in questo momento così eccezionale: allora cos’è stato davvero alterato? Cosa ci rende inquieti? Avevamo prima e abbiamo anche ora quattro pareti a racchiudere il nostro spazio di lavoro, quattro pareti a proteggere l’alcova del riposo. Eppure è tutto diverso da prima. Forse, il problema sta in quelle quattro pareti: ora sono sempre le stesse. Non c’è più separazione fra la concentrazione del lavoro e il conforto della focolare.
Non c’è più la dicotomia che segna il giorno. Anzi, non una divisione in due, ma forse più parti scindevano il nostro essere a seconda delle coordinate di tempo e spazio. Che succede allora? Che fra quelle quattro pareti restiamo solo noi. Non ci possiamo più dividere, dobbiamo restare uniti. Uniti con noi stessi. Forse è proprio questo che ci inquieta.
Ci sappiamo riconoscere? Sappiamo identificare, comprendere e accettare la nostra individualità? In questo momento così eccezionale forse è arrivata l’occasione di metterci allo specchio e vederci. Mettere noi stessi al centro del nostro sistema di assi non in un moto d’egocentrismo autarchico, ma per avviare una ricostruzione, personale. Per riscoprire il proprio valore, non superiore, ma unico. Riscoprire che non importa quali siano le quattro pareti a delimitare il momento, noi siamo noi.

Penso a tutto questo mentre il silenzio pervade le mie giornate. L’appartamento è condiviso con alcune piante poco rumorose, il condominio è placido e persino la primavera sembra attutita. Mi accorgo di essere io nel modo in cui ho disposto le fotografie sul mobile, e allora cerco di disporre in modo analogo le parole nei documenti che compilo. Mi accorgo di essere io nel prediligere mezzi di comunicazione non istantanei, e allora cerco traccia di questa tendenza all’attesa anche nel modo in cui cucino. Nell’attesa mi riscopro. E non vivo più entro quattro pareti».

— Alessandra; 29 anni; Ancona

 


«Email ad un’amica | Ciao Teresa, salutami Franco… Io come sai ho un po’ di terra e anche prima del corona ero già attivo qui. Mi ero anche trasferito qui. Con Mara c’è stata un po’ di crisi, nel frattempo avevo messo in ordine gli spazi al piano terra in campagna e mi sono sistemato in una camera al piano terra tutta per me.
Lavoro con i miei ritmi blandi nella vigna e nel campo tutto il giorno fino al tramonto, ho molto da fare e priorità incalzanti ma nonostante qualche  imprecazione quando c’è un imprevisto, un guasto, un rompimento…  contemplo il tutto e ringrazio. Oltre a mia moglie Antonia, le mie due figlie sono a casa che studiano e così passo anche molto tempo con loro durante le pause. La vegetazione e gli animali sono in piena attività, c’è molto più silenzio (soprattutto le domeniche) così il sottofondo è il loro e l’aria è decisamente più pulita.
Ogni tanto faccio acquisti, riparazioni e rifornimenti di materiale per quel che c’è (alcuni servizi secondo me essenziali sono chiusi… vi pare che magazzini di distribuzione nazionale come Bosch o Husqvarna debbano essere chiusi, oltre a tornitori e rettificatori locali, affilature, riparatori di motocicli? E che i corrieri continuino a consegnare di tutto, magari in mezzo a qualche confezione di disinfettante o farmaco da banco o che coloro che producono i sacchetti di plastica per/e le colombe pasquali o i plum cake invece lavorino a pieno ritmo?) e poi passo a trovare la Mara, ma solo una volta a settimana per ora. Siamo rimasti in buoni rapporti. Ma non c’è più sesso! E tu invece sei a casa tutto il giorno con Franco! È vero che c’è questa emergenza ospedaliera più che sanitaria, ma ci sono molti aspetti che non quadrano.
Non c’è lo spazio per scriverlo ma sicuramente permettere ad associazioni di categoria di riunirsi e lavorare mentre vietarlo alle altre associazioni (culturali, ambientaliste, comitati) mi sembra ingiusto. Inoltre come sai ridurre gli spazi di discussione pubblica organizzata, compresi quelli parlamentari, non porta bene, non migliora le decisioni e quando ci sono emergenze (compresa questa emergenza ospedaliera) sarebbe opportuno invece incrementarli. Ci saranno online vero? Sui social? Videoconferenze? Bhé non ne posso più di vedere figurine sullo schermo. Ho come una schermosensibilità che mi logora i nervi. Da quando è iniziata sta storia ho sospeso con droghe e vini, produco e bevo tisane di erbe e ho ridotto anche gli schermi perché poi mi aspetta un nuovo turno di ricerca (per gli australiani) e devo risparmiarmi adesso. Mi manca molto del buon sesso… decisamente»

— Ugo; 49 anni; Forlì

«Realizzare un bel vestito nuovo. Il primo giorno ho fatto il bozzetto: ho trasformato il tavolo della sala in una scrivania, tanto che adesso è quasi soffocato dalla quantità di libri, alla cultura non c’è mai fine; di fogli, gli appunti sono pillole speciali; di penne, matite, evidenziatori e pennarelli, ci vogliono colori e sfumature per un bel disegno; dall’agenda, dove pianificare il lavoro; dagli hard-disks, alla memoria serve sempre più spazio; ma il principe che sovrasta tutti è il computer, fedele amico e  compagno principale delle mie giornate a causa del mio lavoro di ricerca. Il decimo giorno le idee erano chiare: rimanere a casa. Il bozzetto ha iniziato ad avere una forma ben definita e il mio animo ad esser soddisfatto dei buoni frutti del lavoro svolto. Cambiano le condizioni, ma non il fine! Nelle pause dal telelavoro, mentre riprendevo in mano passioni abbandonate e mettevo tick nella lista delle cose da fare, ho iniziato ad osservare sempre di più le persone: molte di esse non riuscivano a dare inizio alla progettazione del loro abito, ma al contrario guardavano il foglio senza fare niente. “Non so cosa fare tutto il giorno in casa!” oppure “mi annoio”. È stato in quel momento che ho realizzato che non tutti sono pieni di passioni, hobbies, interessi, che possano distrarli, occuparli e tranquillizzarli. Nel frattempo, è arrivato il ventesimo giorno: ho preso in mano i pennelli e ho iniziato a dare colore alla mia opera: mi sono sentita bene! In sala in un angolo la scrivania, nell’altro l’atelier, in camera lo spogliatoio, in garage la palestra, in giardino il trekking, in cucina il ristorante. Giorno trenta, dettaglio importante del disegno: in questa casa non sono sola ed è bello apprezzare il più tempo insieme. Certo, dentro al foglio mancano famiglia, amici e persone care, ma hanno preso forma dentro un’altra cornice, quella dello schermo del telefono o del computer e anche se non si possono toccare, il calore vero arriva anche attraverso un messaggio, una foto, o una videochiamata, che va tanto di moda in questo periodo. Cambiare l’abito, non lo stile»

— Noemi; 30 anni; Falconara Marittima (AN)

 


«Penso di essere molto fortunata, perché a differenza di tanti vivo in campagna, quindi riesco a passare del tempo all’aria aperta senza violare le difficili, ma necessarie restrizioni del governo. Penso di essere ancora più fortunata perché, a differenza di tantissimi, la mia esperienza con il virus è legata alle notizie riportate dai media e ai racconti di come amici e parenti trascorrono le proprie giornate.
Ciò che è cambiato maggiormente per me è la percezione di spazio e tempo. Lavorando in una città che non è quella in cui sono cresciuta, il mio tempo prima del COVID-19 era scandito sia dalla routine quotidiana (andare a lavoro, a fare la spesa, a passeggiare dopo la giornata passata in ufficio), ma anche e soprattutto dal viaggio in treno nel fine settimana. Le giornate adesso sembrano tutte uguali e non è più ben chiaro se il giorno successivo sarà sabato, domenica o se sta per iniziare una nuova settimana.
La percezione dello spazio è altrettanto cambiata. Quello dedicato al lavoro è cambiato anche fisicamente perché si è ridotto. Adesso invece di lavorare nel grande ufficio che condivido con altre persone, mi trovo nella mia piccola stanza da sola con libri, pc e scrivania. Volendo trovare un aspetto positivo in questo, posso dire che lavorando in uno spazio ristretto la concentrazione è maggiore, quindi le voci della mia “to do list” quotidiana vengono spuntate più facilmente. Lo spazio fisico dedicato alla mia vita privata si è, invece, espanso perché anche se la tecnologia riesce a mantenere uniti menti e cuori soprattutto in questo momento, aumenta anche la distanza fisica tra le persone. Forse questo è l’aspetto più difficile da affrontare per me perché le lunghe conversazioni che, naturalmente, avrei con i miei cari, magari seduti davanti ad un buon caffè, adesso avvengono a grandi distanze (ognuno a casa propria), ma sono costrette nel piccolo spazio dello schermo del pc o del cellulare»

— Cristina, 30 anni, Corropoli (TE)

 


«Fino a Pasqua, sono confinato nella mia casa in un paese di 9.000 abitanti, 17 km a sud del centro di Firenze. Sto vivendo in una camera, con bagno e una piccola terrazza, che dispone di un panorama di Firenze con dietro le montagne della Garfagnana e del Mugello. Di grandezza, la terrazza è appena sufficiente per accomodare un po’ di ginnastica ogni mattina. Dalla mia finestra il sole brilla e il cielo è azzurro. I miei pasti vengono depositati sulla scala tre volte al giorno. Parlo con mia moglie dal balcone. La nostra zona è molto più silenziosa del solito, senza il passaggio di aerei e macchine.
Si vive la vita ‘in linea’. Come docente universitario, da 40 anni insegno e studio disastri. La mia università si è adattata rapidamente all’attuale crisi. Ha subito spostato lezioni, esami e riunioni in linea. Ha creato una sofisticata struttura di gestione della crisi ai livelli strategici, tattici e operativi. Ora, non importa dove sono. Ho una giornata di lavoro pieno. I principali problemi di questo non giacciono nel fare il lavoro a distanza, ma nel lavorare a distanza in ‘multitasking’.
Sono arrivato alla disciplina della geografia perché avevo insegnanti a scuola che erano bravi e molto moderni di atteggiamento. Anche perché mi hanno invitato a leggere il libro Theoretical Geography, pubblicato dal geografo americano William W. Bunge. Egli era un intellettuale radicale, proprio il tipo di personaggio che piace a uno studente di liceo con tendenze accademiche. Bunge insegnava ai suo studenti vestito in pigiama, guidava un taxi, aveva idee radicali sul colonialismo. Era fico. Era così radicale che doveva pubblicare il suo libro in Svezia, non negli Stati Uniti.
La tesi di Bunge era che la topografia non ha più senso in un mondo sotto l’ombra dei missili nucleari intercontinentali e dominato dalle comunicazioni di massa. Siamo tutti in prima linea, disse, ovunque siamo. Lo spazio geografico è stato annientato, compresso, girato alla rovescia. E questo fu 30 anni prima che Internet rendesse le sue idee ancora più plausibili.
Dall’inizio della crisi Covid-19, ho partecipato a tante interviste per i mass media – ben 6 ieri. Ho trasmesso in diretta sulla radio australiana a Sydney. Stasera andrò in onda alla radio di Salt Lake City, Utah. Ho lavorato per ore con un giornale di Tokio. Tutto ad un tratto, dove stiamo non ha importanza. È come gestire l’assenza di gravità nello spazio»

— David; 67 anni; San Casciano in Val di Pesa (FI)

«Until Easter, I am in isolation in my home in a town of 9,000 inhabitants, 17km south of the centre of Florence. I inhabit a bedroom, a bathroom and a small terrace, with a view of Florence with the Mugello and Garfanana behind it. The terrace is just about big enough to accommodate basic gymnastics every morning. From my window, the sun is shining and the sky is blue. My meals are placed on the stairs three times a day. I have conversations with my wife over the balcony. The area is much quieter than usual, with no aircraft overflights and no traffic outside.
Life is lived on line. As a university staff member, for the past 40 years I have taught and studied disasters. My university was quick to adapt to the current crisis. It rapidly shifted lessons, exams and meetings to on-line format. It formed a complete and sophisticated structure for crisis management at the strategic, tactical and operational levels. Now, it does not matter where I am. I have a full working day. The main problems lie, not in remote working, but in remote multitasking.
I came into the field of geography because I had good, very modern teachers at school in the 1960s and because they persuaded me to read the book Theoretical Geography, published in 1965 by the American geographer William W. Bunge. He was a radical, just the sort of writer to appeal to a high-school student with intellectual leanings. Bunge lectured in his pyjamas, he drove a taxi, he had new ideas about colonialism. He was cool. He was radical enough that his book had to be published in Sweden, not the USA.
Bunge’s thesis was that topography has no meaning in the age of nuclear missiles and mass communications. We are all in the front line, he wrote, wherever we are. Space has been annihilated, compressed, turned inside out. And that was 30 years before the Internet made it a much more plausible hypothesis.
I have done many mass media interviews since the start of the Covid-19 crisis–six yesterday alone. I have been live on Australian radio in Sydney. This afternoon I will be broadcasting on the radio in Salt Lake City, Utah. I have spent hours working with a newspaper in Tokyo. Suddenly, where we are is of very little importance. It is like trying to manage weightlessness in space»

— David; 67 years old; San Casciano in Val di Pesa (FI)

 


« Gli spazi della sicurezza e del pericolo nell’A.D. COVID19 | Ho il privilegio di abitare in campagna ed essere circondato da un giardino, orto e piccolo podere agricolo. L’aspetto saliente di questo periodo di isolamento non è pertanto la “costrizione spaziale”, quanto piuttosto la ridefinizione del confine fra spazio sicuro e spazio pericoloso, nonché delle tipologie di spazio vissuto. Nei fatti, gli elementi fondamentali della mia vita non sono cambiati così radicalmente. Fortunatamente ho le persone care qui con me, il frigo pieno, l’accesso internet ancora attivo, l’elettricità e le altre comodità di vita moderna.
A livello fisico, c’è un mondo di dentro ed un mondo di fuori. Il primo è rappresentato dagli spazi della casa, nei quali svolgere le azioni della vita quotidiana necessarie alla sopravvivenza; questo è uno spazio ad uso esclusivo e quindi percepito sicuro. Il mondo di fuori è invece suddiviso in fasce a sicurezza decrescente. Il giardino e l’orto adiacenti la casa, sono una zona ricreativa esterna ancora ad uso esclusivo e quindi ancora sicura. Il resto del podere, nel quale posso fare lunghe passeggiate con il mio cane è invece una zona di frontiera, meno sicura in quanto non più ad uso esclusivo. In lontananza vi si possono scorgere altre persone, del vicinato, che a loro volta fanno passeggiate. Infine, ai limiti del podere, c’è la strada vicinale vuota e silente a demarcare nettamente il confine con quello spazio pubblico esterno contenente il pericoloso virus.
Accanto a questo spazio fisico, la tecnologia ci ha creato uno spazio ancora più grande, quello digitale. Questo spazio è completamente sicuro dagli effetti del COVID19, anche nelle sue aree pubbliche. Questo spazio virtuale era già importante nella mia vita privata e professionale, ma in questo periodo sta assumendo un ruolo centrale. Sebbene a distanza, mi permette di mantenere i rapporti sociali, professionali e fornisce anch’esso infinite possibilità ricreative. Grazie al “telecommuting” la mia routine lavorativa non ha subito grosse interruzioni. Posso continuare a fare ricerca, lezioni e seminari online o partecipare a online meetings. 
Questi sono gli spazi del mio vissuto COVID19; spazi che a dispetto di limiti e restrizioni contengono anche benefici che mi mancheranno quando ritornerò in quel mondo fisico oltre la strada vicinale… ».

—  Fausto; 54 anni; Osimo (AN)

 


« Bolzano, 02.04.2020 | Me ne sono accorto solamente ora perché sono entrati in ogni spazio della casa in modo così subdolo che tacitamente e necessariamente li sto tollerando. Con la scusa di essere aggiornati sui dati della pandemia, di leggere la miglior interpretazione possibile dei dati, di sapere cosa fanno amici e conoscenti, di vedere un volto (la trasgressione maggiore possibile) ed avere un’interazione pretestuosamente sociale, di poter continuare a lavorare con grande fatica: 3 computer e 2 cellulari, sempre vicini e spesso interposti fra me e la mia famiglia, mediandone la relazione, con la scusa dell’ansia di socialità e di comprensione del disastro in corso. Peraltro, nelle videochiamate con gli amici sparsi per l’Europa: “allora, com’è Bolzano?” Sì, perché ci siamo trasferiti in questa casa il 25 febbraio, 4 giorni dopo il primo caso in Italia, ed ora sono più i giorni in cui “siamo stati” a Bolzano chiusi in casa, dei giorni in cui abbiamo “vissuto/visto” Bolzano potendo uscire di casa. Chiusi in un immaginario che si autoalimenta a due dimensioni, la linea del torrente Talvera e delle montagne.
Mentre Milano, dove sono le nostre famiglie, è lontanissima e portatrice di racconti nefasti. I ritmi però sono rimasti li stessi, nostro figlio Ernesto, 1 anno e 1 mese oggi, ci tiene ben ancorati alla routine, è il nostro baricentro. Sveglia sempre intorno alle 7, tentativi di dodò (pisolino) alle 10:30, pappa alle 12, tentativi di dodò alle 14:30, merenda intorno alle 16, cena alle 19 in punto, altrimenti son lacrime. Per fortuna c’è mia moglie. Lui, in barba ai decreti, ha imparato a camminare in corridoio durante la quarantena, tant’è che non ha mai camminato fuori casa nella sua vita! E vede solo noi e il gatto, non vede altri bambini. Vorrei fargli vedere un sacco di cose, quello che precedentemente c’era là fuori, fonte della cultura materiale che quotidianamente manipola nell’universo dei suoi oggetti di cui ora prova a intuirne i significati. Sono addirittura arrivato a mostrargli dei video della realtà là fuori, i primi della sua vita.

Ma ora basta, voglio nuovamente separare il gioco dai media: Ernesto è così felice che possiamo giocare con lui tutti i giorni dalla mattina alla sera, un tempo eccezionale e irripetibile ».

— Fabio; 37 anni; Bolzano

 


« Oggi è il primo Aprile, questo significa che siamo in casa da… beh, un bel po’. 20 giorni? Ho perso il conto. Non ho preso bene le restrizioni. Anche se non le ho mai violate. Emotivamente non riesco a capacitarmi di come la vita delle persone possa essere letteralmente ficcata in una scatola. Razionalmente capisco e mi adeguo. Ma fino a quando? Ho reagito come mio solito buttandomi sui libri: “Se non ora quando” e “Il sergente nella neve”. Non hanno aiutato molto il mio umore. Forse era meglio Stefano Benni.
Ora lavoriamo a casa, in uno spazio che fino a prima era un mezzo sgabuzzino, pieno di cose ammassate. Una parte di me è serena ma una parte teme che la ripartenza sarà difficile. Aspetto. Come tutti. Spendo molto del mio tempo a pensare a cosa farò, a cosa è importante per me. Di fatto questo periodo mi sta aiutando a rompere una routine che non sempre è stata positiva. Le cose importanti emergono con più chiarezza ed è più facile capire cosa ha senso smettere di fare anche dopo.
La mia scrivania è il mio mondo. Mi ha aiutata ad appropriarmi del mio spazio nella casa nuova. Prima mi sentivo un ospite, ora è anche mia. Ho un luogo che appartiene solo a me.
Una cosa che invece mi manca molto è l’arrampicata. Sono solo una principiante, ma per una persona introversa come me è uno sport perfetto. Mi fa stare con gli altri, ma senza esagerare, e tiene occupato il cervello oltre al corpo. E il risultato è uno sfogo totale dello stress che in altre attività non avevo trovato. 
Per ovviare alla sua mancanza la cucina/salotto ora è più che altro una palestra. In questi giorni, per noi, va forte il “tableclimbing”. Sembra facile, ma vi assicuro che se il vostro tavolo è più largo dell’apertura massima delle vostre braccia le cose cambiano. Almeno questo siamo riusciti a farlo sul terrazzo, da cui ho il piacere di respirare aria fresca e ascoltare i gridolini soddisfatti della bimba dei vicini che gioca. Ha circa due anni ed è molto buffa.
E quindi nulla, resto lì, ascolto, inspiro forte. Aspetto che passi, sperando che l’estate, per allora, sia solo alle porte».

— Marta, 32 anni, Bernareggio (Monza)

 


« La casa come rifugio o come istituzione totale?
In tempi normali vale la prima situazione. Dopo una giornata in giro, caos, traffico, movimento, bello e brutto, la pioggia magari: casa è il mio bozzolo, cocoon, home sweet home.
Tiro su il ponte levatoio, sguinzaglio i coccodrilli nel fossato, stacco telefono cellulare e citofono. Il fuori resta fuori. Tutto il mondo fuori (1).
Ora che non si esce, è galera? Ospedale? Istituzione totale? Forse, ma di lusso.
A volte penso che sono pronta agli arresti domiciliari: la prossima volta che dovessi subire ingiustizie, offese ecc.  invece che dall’avvocato, andrei a pestare per bene il colpevole, ma non troppo. Tanto da avere per condanna non più degli arresti domiciliari: vuoi mettere la soddisfazione.
Tanto ormai sono abituata. La casa, in fondo, mi accoglie e mi raccoglie. Ho anche il mio angolo, siamo in due e a ciascuno il suo. Lo dicono anche gli astronauti che bisogna trovarsi il proprio angolo. Il mio è fatto di una poltroncina rossa e di un casco da parrucchiere.
Metto la testa nel ronzio ventilato e associo liberamente.
Mi sento in orbita, and all this science, I don’t understand, it’s just my job five days a week, a rocket man (2).
Non ho cantato sul balcone, ma da dietro le persiane chiuse, come una star in incognito. Cantavo solo io, affaccio sul cortile e qua ci sta giusto un tastierista karaoke, che predilige Baglioni.
Ma vuoi mettere il gusto di urlare: avrai avrai avrai la stessa mia dolce speranza e penserai di non aver amato mai abbastanza (3).
Amiamo abbastanza?
Quando c’è l’amore c’è tutto.
Veramente quella è la salute (4)
Basta la salute e un par de scarpe nove e poi girà tutto er monno. E m’accompagno da me (5)

Bibliografia (la prima che scrivo con piacere)

1 Vasco Rossi, Alba Chiara 1979

2 Elton John, Rocket man 1972

3 Claudio Baglioni, Avrai 1982

4 Massimo Troisi, Ricomincio da tre 1981

5 Tanto pe’ canta’, Ettore Petrolini 1932»

—  Francesca, 61 anni, Roma

 


« Stamattina mi sono svegliata, per la prima volta dopo tanto tempo, non riuscivo a capire che giorno fosse, né tantomeno a ricostruirlo, mi era ignota sia la data, che il giorno della settimana. Ho avuto un senso di spaesamento mai provato prima.

Riesco a tenere bene la divisione dei giorni, so se è lunedì, martedì, fa ridere lo so, ma in questo mi aiuta la raccolta differenziata. Non riesco più a ricollocare bene i ricordi nella memoria a breve termine, per me è tutto un “l’altro giorno”, “l’altra volta”. È una condizione nuova, dato che ho una memoria tale che mi permette di ricordare con esattezza gli ultimi 20 capodanni della mia vita.

Ormai il passato recente è un unico fluire di ore, ricordi e sensazioni, privi di separazione, come un unico lunghissimo giorno, non contrassegnato da alcuno spazio divisorio.  

Nel presente, sto stranamente reagendo in maniera positiva, nonostante gli immediati danni economici subiti e la perdita di una persona cara, che non ho potuto salutare, né accompagnare verso l’inevitabile meta. Tuttavia, sto vivendo questo periodo come una grande opportunità.

Quante altre volte avrò l’occasione in vita mia di trascorrere tutto questo tempo a casa, senza sentirmi in colpa e con una giustificazione più che palese?

Per cui faccio progetti e sogno tanto. Non ho ancora iniziato a leggere un libro, né a seguire una serie tv, attività che di solito mi aiutano a trascorrere il tempo libero se sono a casa.

Scrivo di continuo: pensieri, poesie, racconti, agli amici, ai parenti, ma neanche questa è una novità, è una cosa che facevo già, l’ho solo intensificata.

Faccio anche cose più prosaiche: mangio, dormo, faccio lavatrici e pulisco la cucina.

Il mio futuro? Appare incerto. Ma non è sempre così il futuro? Anche quando crediamo di sapere cosa succederà in realtà non lo sappiamo, la nostra è solo un’illusione.  Eh meno male, altrimenti sarebbe una bella tragedia avere già il copione scritto. Una terribile noiosa predeterminazione.

Non lo reggerei. Meglio l’imprevisto, il fantasioso, il meraviglioso che sono anche le cose che mi aiutano ad andare avanti in questo momento ».

— Antonella, 40 anni, Vico Equense (Na)

 


« Con l’emergenza Coronavirus e i decreti restrittivi volti limitarne i contagi, la libertà e lo spazio in cui ogni individuo si muove e relaziona si trovano ad essere ridotti e limitati alle cosiddette “quattro mura domestiche”.
In questo periodo di dura prova cerco di programmare ogni giornata, dedicandomi allo studio, all’attività fisica e ad hobby, come la lettura libera, l’ascolto di buona musica, le conversazioni sui social. Vivere continuamente relegato in casa significa percepire la stessa, a seconda dei momenti, in due modi, in teoria opposti, cioè come una prigione e come un luogo particolare.
In effetti stare continuamente in casa non fa bene: si percepisce un senso di chiusura, di ristrettezza e anche un po’ di solitudine, nonostante si abbiano accanto i propri familiari; allo stesso tempo prevalgono sensazioni come la monotonia e la fiacchezza, vista la quasi totale impossibilità di uscire e dedicarsi ad attività diverse.
D’altro canto, la casa è percepita come un luogo particolare, un’eccezione rispetto all’esterno: la quarantena, seppur con i suoi aspetti negativi, sta dando la possibilità di rafforzare i legami con i propri conviventi, non solo perché ci si dedica tutti insieme ad attività che fino a poco prima venivano fatte raramente a causa dei rispettivi impegni – come dilettarsi ai fornelli sperimentando nuove ricette oppure condividere i propri hobbies – ma anche perché gli stessi familiari o conviventi divengono le uniche persone con le quali è possibile relazionarsi senza ricorrere a mascherine o guanti come si fa quando si è all’esterno.
L’interno della propria abitazione, dunque, diviene l’unico luogo in cui i modi di approcciarsi rimangono inalterati. Riguardo, poi, alle interazioni con le persone esterne, è bene distinguere quelle che avvengono con i propri vicini da quelle con parenti e amici dislocati altrove: con i primi si comunica solo dall’esterno, conversando liberamente, ma sempre tenendo le dovute distanze; con gli altri, invece, si ricorre ai social network o alla messaggistica istantanea, i quali permettono di effettuare videochiamate (anche di gruppo), scambiarsi informazioni e pareri o anche semplice materiale ludico per divertirsi e provare a sorridere e sentirsi uniti, nonostante il periodo negativo ».

— Gian Marco, 27 anni, Tortora (CS)

 


« Non rientro nella categoria delle persone denominate iperattive, in quanto sono abituata a trascorrere spesso le mie giornate tra le mura domestiche. La mia vita in casa, da quando siamo in isolamento, è più che mai incentrata intorno a mio figlio di 2 anni. In casa c’è anche il mio compagno, con il quale, adesso, abbiamo riscoperto la vita familiare senza corse e senza l’assillo dell’orologio. Il bambino assorbe buona parte delle nostre energie e giornate, scandite dalle sue esigenze.
Mi ritengo fortunata perché lo spazio in casa nostra è dinamico: primo piano, piano terra e veranda esterna ci permettono di muoverci liberamente. La maggior parte delle mie giornate si svolge nella zona giorno al piano terra e quando c’è il sole corro fuori semplicemente per sentire il vento tra i capelli. Non pensavo fosse cosi bella come sensazione.
Il suono della radio, le canzoni dei cartoni preferiti di mio figlio, il rumore dei suoi giocattoli (continuamente rovesciati a terra) e il gran disordine di oggetti sparsi in giro mi tengono impegnata, allontanando i brutti pensieri.
Questa condizione mi permette di sentirmi quasi distaccata dalla realtà. Oltretutto vivo fuori dal centro abitato, quindi non vedo quasi nessuno. Qui regna il silenzio. Le rare volte in cui vedo i pochi vicini di casa è quando mi trovo sul balcone. Ci salutiamo con un sorriso di speranza. Spesso da lì osservo le case in lontananza e le auto parcheggiate, segnale dell’immobilità forzata.
Per sentire vicini i miei genitori, gli amici e i parenti utilizzo le videochiamate e i messaggi su Whatsapp.  So reggere la lontananza grazie all’esperienza dell’università che mi ha insegnato a stare forzatamente distante dai miei affetti. Tuttavia, non so fino a quando sarò forte. Non posso sapere cosa succederà dentro di me, perché in questo momento nessuno è in grado di dare risposte. Usando i versi di Montale “non domandarci la formula che mondi possa aprirti”.
Una di queste sere, in lontananza, ho sentito qualcuno che ascoltava musica da discoteca. La vita lancia dei segnali, nonostante l’incertezza. Si vive sospesi nel presente ».

— Valentina, 36 anni, Porto Empedocle (AG)

 


« Da quando è iniziata la quarantena l’umore è altalenante. L’angoscia per quello che sta accadendo nel mondo, la paura che i miei amici e familiari si possano ammalare e per il futuro che sarà, per mia figlia soprattutto, non mi fanno dormire sempre sonni tranquilli. Ma il mio compagno trova sempre il modo giusto per “riportarmi alla realtà”, chiedendomi ad esempio di scrivere su un quaderno un elenco di cose da fare in casa, barrandole quando le abbiamo fatte. Ho una bambina di 8 mesi e sono ancora in maternità, quindi, in questo momento, non sto lavorando e mi dedico 100% a lei e alla mia famiglia. Per fortuna abitiamo al piano terra, abbiamo un bel giardino ed intorno a noi c’è campagna. Quindi, ci dedichiamo per lo più all’esplorazione della natura (visto che il tempo meteorologico lo permette), cosa che facevo molto spesso quando ero bambina. La parte positiva di questa quarantena è proprio questa, mi ritrovo a rivivere e a far vivere a mia figlia quello che vivevo io da bambina. Le insegno i nomi delle piante e dei fiori, glieli faccio toccare (stando attenta che non se li mangi, le riproduco i versi degli animali che vivono intorno a noi, le faccio vedere la loro operosità (di api, formiche, uccellini etc). È un tuffo nel passato accogliente e rasserenante. Posso confermare, quindi, che i sensi più usati sono vista ed tatto, nonostante il grande assente di questa reclusione è il contatto fisico (gli abbracci, quanto mi mancano!) con le persone più care, in particolare con i miei amici, i miei genitori, e i nonni, zii e cugini di mia figlia Caterina. Con tutti, usiamo le videochiamate per vederci e comunicare ».

— Sofia, 35 anni, Monte San Vito (Ancona)

 


« Non possiamo uscire di casa, sono saltate le consuete bussole cronologiche. La percezione più evidente: spazio assume più pregnanza del tempo. Mia moglie mi dice che, anche se siamo reclusi in casa, io riesco comunque ad essere altrove, quando ci sono incombenze comuni… (tramite il ricorso alla lettura di libri, di siti on line, etc). Nei primi giorni di “reclusione”, ho preso contatto con la memoria accumulata in garage. Infatti, ho iniziato a catalogare il contenuto di diverse scatole che contenevano documenti degli anni passati. Non è possibile partecipare alla Messa domenicale. Questo mi ha spinto a cercare il modo di trasformare lo spazio di casa in spazio di preghiera in famiglia: la preghiera di Papa Francesco nel vuoto di piazza San Pietro ha comunque “riempito” la nostra sala di casa. Da diversi anni sono in telelavoro, quindi sono “abituato” a trasformare lo spazio di casa in spazio di lavoro. Ho due figli, di 10 e 5 anni. L’aspetto sensoriale che risalta è quello sonoro: chiuse le scuole, stanno a casa e, rispetto alla vita precedente, risalta di più il fatto che i bambini chiamino me o mia moglie. Per scambiare informazioni uso molto Whatsapp. Mi è capitato di usare le email per condividere commenti su come vivere la emergenza, dal punto di vista sociologico, ecclesiale, etc. ».

— Giandiego, 44 anni, Monte San Vito (Ancona)

 


« Dopo la sorpresa perfino liberatoria dei primi momenti, vivo la forzata clausura come la prova generale della vita che ci aspetta, sempre più avulsa dal fuori e più dipendente dai dispositivi a cui affidiamo tutti i tipi di scambi che ci stanno a cuore: il lavoro, lo svago, il commercio, le passioni, l’amicizia, il sesso. Le categorie che ne usciranno per sempre cambiate, addirittura capovolte, sono quelle del dentro e del fuori, di lontananza e vicinanza.
Ricevo messaggi e chiamate Whatsapp o Skype dalla Siria, da Washington, dal Burundi (il culmine della lontananza, non solo geografica, ma culturale, perfino in certe espressioni della nostra lingua), sono amici che prima sentivo qualche volta all’anno e ora vogliono sapere giorno per giorno se sto “ancora” bene e come vivo questa condizione irreale di isolamento. Ma assisto contemporaneamente alla rarefazione di figli, fratelli o amici stretti, ripiegati e concentrati a ritessere nuove abitudini nelle case di colpo vuote o troppo affollate e a dilatarle su tempi incerti e certamente lunghi. Gli studenti frequentano la scuola dalla loro scrivania, gli impiegati fanno riunioni di decine di persone contemporaneamente sui loro schermi, chiunque di noi entra nelle case degli altri a tutte le ore del giorno, ma non esce dalla sua. Il virus è selettivo, si accanisce su chi ancora lavoro col corpo, i medici, gli infermieri, gli operai, le cassiere dei supermercati, gli assistenti degli anziani. Tutti gli altri sono, siamo, individui smaterializzati, anonimi, è questa la condizione che stiamo sperimentando e in sui siamo immersi come mai prima, una specie di prova generale che attraversa età, luoghi, condizioni di che cosa potrebbe diventare il futuro minato dalla paura di un virus in agguato, che se anche se ne va, può tornare in ogni momento, mutato, diverso o del tutto nuovo, che vive nel respiro degli altri, e non gli altri venuti da fuori, ma i nostri genitori, i nostri figli, fratelli, sorelle, amici, perfino i nostri bambini, untori inconsapevoli. Questa calamità collettiva ci ha fatto riflettere, ci ha dato il tempo di ripensare alle molte assurdità della nostra vita, ai paradigmi che devono cambiare in noi e fuori di noi, all’alto prezzo pagato per comodità e libertà, è quello che dagli schermi ci diciamo e ci ripetiamo continuamente, milioni di individui che ogni nuovo giorno di clausura si sentono diventare più lucidi e determinati a cambiare.
Ma che sono, siamo, soli, confinati, schermati e solo nello schermo possiamo versare la nostra nuova consapevolezza.
Ho nostalgia della lontananza e della vicinanza fisica, di quell’andirivieni necessario ad avvicinare il lontano e ad allontanare il vicino che è l’insostituibile premessa di ogni conoscenza e di ogni reale sentimento di comunanza ».

— Maria Pace, 65 anni, Milano

 


« I miei giorni della quarantena sono tranquilli, grazie a Dio. Ci siamo messi in paziente attesa che passino.
La mattina mio marito va ad aprire il suo negozio di edicola-tabaccheria, i miei due ragazzi sono impegnati con le lezioni on line a scuola e all’università e anche io con i colleghi del mio ufficio alle 8,30 sono pronta con lo smart working.
Diciamo che anche se in maniera un po’ sgangherata funziona: chi guarda la posta, chi protocolla, chi tiene i contatti con le famiglie degli alunni per rigenerare password e cose del genere, chi si occupa di far compilare le schede per le graduatorie interne ai docenti… io sono il loro capo e li coordino e cerco di tenere d’occhio scadenze e adempimenti vari. Alle dieci chiamo mia madre che è isolata a Sala Consilina, zona rossa, come del resto il Comune in cui vivo io, Auletta. Mi solleva sapere che ha dei bravi vicini di casa che le fanno la spesa e le chiedono sempre se ha bisogno di qualcosa.
Poi arriva l’ora di pranzo e in genere ho preparato qualcosa tra una telefonata e l’altra, cerco di essere precisa: primo, secondo, contorno e non come nei giorni normali in cui i pranzi e le cene sono sempre frettolosi e arruffati. Devo dire che è bello ritrovarsi a tavola, in genere i nostri orari non lo consentono. È un tempo di attesa, ma anche di tristezza, di dolore per le vite perdute così, da un giorno all’altro, nella solitudine. Da noi sono morte delle persone anziane e un comandante dei Vigili del Fuoco di 57 anni: era stato lo scorso anno nella mia scuola per un incontro con gli studenti, il territorio ha perso un uomo di valore. Nel pomeriggio mi metto a lavorare sul serio collegandomi da remoto col mio pc in ufficio e lo faccio per un paio d’ore e sono contenta di farlo. E alla fine di una giornata comunque trascorsa in fretta, resta la speranza che tutto davvero possa finire presto e un pensiero grato per chi non nella quiete ovattata della propria casa, ma in trincea, negli ospedali sta lavorando e lottando per tutti ».

— Filomena; 51 anni; Salerno

 


« Convivo con mia figlia tredicenne e i miei genitori (papà pensionato, mamma insegnante di scuola primaria).
Il periodo di quarantena è stato accolto inizialmente come occasione propizia per anticipare le pulizie straordinarie di primavera, quest’anno più accurate del solito.

– Facciamo anche il cambio di stagione?
– Addirittura? Non è un po’ presto?
– Dici che per l’inizio di aprile ne saremo fuori? 

Le stanze si sono trasformate: più pulite, inondate di luce, ariose. Ho la fortuna di vivere in periferia, di disporre di un piccolo giardino (seppure condominiale). Oltre il muricciolo che lo delimita, vi sono i campi di grano che in questa stagione sono già verdi. Più oltre ancora la ferrovia e macchie di boscaglia che punteggiano i prati, e poi ancora campi sino al mare.
Nelle belle giornate le pareti sembrano assottigliarsi e si lasciano attraversare dalla luce e dai profumi delle siepi di pitosforo, degli aranci, delle rose. Questo rende la clausura più sopportabile e al contempo più struggente.
Le stanze si sono trasformate: più grandi e rumorose. La cucina è uno studio legale, il soggiorno è un’aula scolastica, il tinello è la trincea del nonno che non si capisce bene cosa faccia, la stanza da letto è il bunker della tredicenne che vive in perenne modalità video-conferenza con tre quattro amiche dalle voci squillanti. Frammenti di vita domestica altrui rimbalzano tra le pareti.
Le stanze si sono trasformate: all’improvviso si fanno anguste e opprimenti, si chiudono come trappole, ti accorgi di quanto siano caotiche, con i cellulari che squillano in continuazione, la musica ad alto volume, la tv sempre accesa, la luce quasi violenta e le tende troppo leggere che si alzano come vele.
– Facciamo il cambio di stagione?
– … dici che per maggio ne saremo fuori? ».

— Angela, 42, Taranto

 


« Sul riso incarcerato: la (non solo) mia condizione di autoreclusione mi fa ricordare le mie esperienze in carcere. La più importante è stata a Rebibbia per un seminario sul riso per le Brigate Rosse. Ma ho pensato alla prima volta a Regina Coeli: dovevamo fare l’esame di antropologia culturale a un giovane accusato di un crimine orribile: la morte di due bambini bruciati vivi a Primavalle.
Entrammo in una sala dedicata all’antropologia criminale, sì, proprio a Lombroso, con la sua foto e altre dedicate alla fisiognomica assassina. Pensai che questa sala dovesse stare al museo Pigorini. Lo studente aveva difficoltà a rispondere e a una domanda sul mutamento culturale sostenne che la rivoluzione sarebbe accaduta grazie all’Albania. Gli feci notare che era militante di potere operaio che aveva ben altra strategia. Non rispose. Lo incontrai molti anni dopo in Brasile dove da rifugiato politico stampava un giornalino in italiano. Feci diverse altre esperienze per esami e anche una tesi di laurea con una studentessa ergastolana per l’assassinio di due guardie giurate vicino casa mia… L’odore del carcere è di ferri arrugginiti che si aprono e si chiudono alle tue spalle.
Un giorno una mia collega mi propose un seminario sul riso per un gruppo di detenuti “irriducibili” delle Brigate Rosse. Lei aveva studiato a Trento ed era amica di Renato Curcio. L’idea era di liberare queste persone dal loro passato col riso, un riso liberatore. Avevo da poco pubblicato un libro con un capitolo sul riso, dove cercavo di mostrare la complessa ambiguità di questo comportamento umano. Parlai imbarazzato. Citai il riso sardonico, secondo cui i Sardi o Sardoni lapidavano i loro vecchi ridendo (ma non per crudeltà, anzi). Il riso danzante di Dioniso, Cristo non ride mai, il riso pasquale osceno e poi censurato, quello dei demagoghi nazisti che facevano ridere il pubblico imitando l’ebreo. Il riso crudele dell’uomo che deride. Per Charlie Chaplin la donna sulla cui scollatura colava il gelato doveva essere ricca e grassa. Se povera nessun avrebbe riso. Ma perchè “grassa”? E infine il mito di Odisseo che, tornato a Itaca, dovrà riprendere a viaggiare finchè non incontrerà gente che non conosce il remo ecc ecc. Insomma Poseidone furente e tutti gli dei olimpici devono ridere, una risata omerica, appunto, per donare pace all’eroe. Niente. Curcio e gli altri rimasero sempre impassibili, fecero una domanda di circostanza e il seminario finì con un senso di sconfitta. Qualche anno dopo uno di loro pubblicò un libro su un omosessuale brasiliano conosciuto proprio a Rebibbia. Ebbe il permesso di uscire. Poi anche Renato Curcio, grazie a una associazione cristiana, potè uscire e fondò una casa editrice: Sensibile alle foglie. Un giorno camminando a Testaccio lo incontrai, mi fece entrare e mi regalò un paio di libri. Ci salutammo educatamente senza sorridere. Il sorriso pare sia meno crudele del riso perchè non mostra i denti. Chi sa… Certamente le foglie non sono sensibili al riso. Forse non ci si potrà mai liberare da certe azioni, nè ridendo nè sorridendo? Chi sa… Eppure quando uscirò di casa vorrei tentare di ridere piano piano tra me e me, e sorridere a tutti quelli che incontro …»

— Massimo Canevacci; 76 anni; Roma

 


« La mia Quarantena – uno spazio sospeso tra le mie ricerche e la vita quotidiana | Ci sono quarantene e quarantene, la mia è in circa 60mq, un piccolo spazio di un bilocale soppalcato condiviso con il mio compagno, futuro marito Gaetano.

Viviamo insieme a Modugno (ma io sono una fuori sede). Il nostro piccolo “castello” è ad un tiro di schioppo da Bari e a molto meno dalla mia sede di lavoro, il mio Dipartimento, la mia Università. Attualmente sono un’assegnista di ricerca e mi occupo di temi legati all’Economia Circolare, agli impatti da gas climalteranti, al turismo.

Il tempo scorre nella stessa maniera dal lunedì al venerdì, sveglia solita (6.30 – 7.00), colazione e poi preparata come sempre, maglioncino, camicia e jeans, alcuni giorni in Skype Call, altri no. Una pausa per un pranzo frugale tra le 13.00 e le 14.00, non sempre, e poi ancora al PC sino alle 20.00. La ricerca continua, si può fare da casa, dall’ufficio, in tempi di guerra, ovunque e il progresso non può fermarsi.

Gli affetti sono sparsi per l’Italia, chi a Brindisi e chi a Milano, ma la tecnologia fortunatamente aiuta. Sostanzialmente soffro poco questa quarantena costretta tra le mura domestiche, quello che mi manca è una passeggiata sul lungomare, sentire la brezza fresca tra i capelli e l’odore di primavera. Ci vorrà ancora un po’! Noi siamo qui a fare in modo che tutto passi in fretta!

Ora scappo, l’altra mia passione mi chiama (la cucina!) ».

—  Tiziana Crovella; 34 anni; Modugno

 


« La mia quarantena | Mi chiamo Gaetano Ragone, ho 32 anni, e questa è la mia quarta vita.
Dopo averne passate di ogni, scampato per miracolo ad un incidente mortale, una vita di battaglie per un lavoro dignitoso, non avrei mai immaginato di combattere anche una guerra. Si, perché questa è una guerra. Il coprifuoco, le strade vuote, le mascherine, il silenzio agghiacciante del mondo fuori. Vedere tua nonna sul cellulare, i tuoi genitori che non puoi abbracciare, i fratelli, gli amici con cui non puoi più uscire neanche per un caffè.
Vivere rinchiuso, in 65 metri quadrati, forzatamente, per un giornalista e uomo libero pensatore come me è la cosa peggiore che potesse capitare. Vivere a contatto tra la gente, frequentare posti, conferenze, convegni, conoscere gente e poi non poterlo più fare notte tempo è un dramma.
La quarantena è iniziata ufficialmente il 10 marzo. Ieri, 28 marzo, è stata la mia giornata peggiore. La notizia letta sul Corriere della sera di una sedicenne morta in Francia mi ha letteralmente angosciato. Non riesco ancora a capire se questo virus sia naturale come dice il mainstream o se c’è qualcos’altro che non sappiamo. Temo che l’Italia difficilmente si rialzerà in tempi brevi, si corre il rischio di una seria bancarotta dato che i mercati potrebbero non avere fiducia nella solvibilità del Governo facendo altro debito.
Ad oggi, però, l’unica cosa che conta è uscirne ad ogni costo. Salvare più vite possibili, poi ci sarà il momento di analizzare cause e colpevoli, laddove ce ne fossero.
Venerdì il Papa ha parlato di tenebre sulla terra. Credo che Dio sia l’ultima speranza che abbiamo, come sempre. L’unica certezza è che vorrei tornare a decidere cosa fare della mia vita.
Liberamente. La libertà, cantava Fabrizio Moro, “è sacra come il pane”. Il quarto Gaetano, passata la tempesta, non sarà più lo stesso. Cambierà tutto. Forse ».

Gaetano Ragone; 32 anni; Modugno

 


« Lavoro, studio partiture per entrambi i cori che frequento, sono impegnata in un progetto fotografico sull’ isolamento (si intitolerà ‘Inside’), seguo video-lezioni, faccio video-chiamate con amici e parenti, vedo serie TV che non avevo mai avuto il tempo di seguire, seguo tutti i giorni la conferenza stampa della Protezione Civile, chiacchiero con mio marito, faccio giocare i gatti, leggo, faccio mezz’ora di pilates al giorno.
Cantavamo e facevamo musica, all’inizio della quarantena, ma oggi nel mio condominio nessuno ne ha più voglia. Ora, a turno, qualcuno va in cortile e legge: un racconto, un articolo di giornale, un post sui social particolarmente significativo. Noi seguiamo dai balconi e poi, dopo aver applaudito, restiamo per fare due chiacchiere e ci chiediamo l’un l’altro se abbiamo bisogno di qualcosa. Mio marito va tutti i giorni in ufficio (sono rimasti in due), pertanto ho la casa tutta per me per gran parte del tempo…e per gran parte del tempo percepisco sullo sfondo il silenzio della città.

Io sono una dei fortunati. In famiglia stanno tutti bene (compresi i membri più anziani), ed ho ancora un lavoro. Tuttavia, non riesco a scrollarmi di dosso il silenzio e il timore che non torneremo mai più quelli di prima » 

Paola; 54 anni; Torino

 


« Da quando è iniziata la quarantena, lo spazio intorno a me è diventato simultaneamente minuscolo e gigantesco. Sono costretto fra quattro mura, per eventi accaduti molto, molto lontano da qui e che son venuti a bussare prepotentemente alla mia porta. Improvvisamente, queste quattro mura sono affollatissime: non devo più condividerle solo con mia madre, ma adesso, attraverso uno schermo, anche con i miei colleghi e professori universitari. Camera mia non è più soltanto mia, ma in un certo senso uno spazio pubblico, lo spazio del mio rapportarmi agli altri, del confronto, della discussione e del lavoro di gruppo.

Le incursioni gradite e attivamente ricercate fra queste quattro mura sono poche, e consistono in quei piccoli, pallidi tentativi di mantenere una normalità all’interno delle mie relazioni. Si possono passare anche ore di fronte a uno schermo, guardando un volto, ascoltando una voce, far finta di star guardando insieme un film solo perché si è in videochiamata nel frattempo, ma tutto questo non è che una fragile illusione che si infrange miseramente nel momento in cui si allunga un dito verso lo schermo e a rispondere al tocco è solo una fredda superficie in vetro. Improvvisamente, il corpo della persona che amo mi è lontano, estraneo; a pensarci intensamente, mi sembra quasi di sentirlo sotto le mani, ma è come vuotare un bicchiere di acqua nel deserto, non diventa mica il mare.

Al contempo, ogni giorno che passa mi sento meno estraneo a me stesso. Improvvisamente mi son reso conto che l’unica compagnia di cui godo costantemente è la mia, e le parole di Adriano nelle sue Memorie acquisiscono un nuovo senso:

“Quanto all’osservazione di me stesso, mi ci costringo, non fosse altro che per entrare a far parte di questo individuo in compagnia del quale mi toccherà vivere fino all’ultimo giorno”.

E se lo spazio intorno a me sembra essersi fatto piccolo piccolo, sto scoprendo giganteschi spazi inesplorati dentro di me. E in fondo, è quello lo spazio in cui dovrei imparare a vivere ».

Ciro; 23 anni; Napoli

 


« Io ci sto al #restiamoacasa, l’hastag più cliccato ai tempi del coronavirus declinato come consiglio, avvertimento, prescrizione e imperativo categorico. Eccomi a casa. Spazio vissuto del mio vissuto. Spazio di affetti e intimità. Spazio di libertà, di riparo, di protezione. Spazio di riservatezza e di accoglienza. Spazio di identità e di memoria. Uno spazio in cui occupare tanto tempo, per ora indefinito. Uno spazio-tempo che incrocia la relatività della condizione esistenziale.
Quel #restiamoacasa urlato dagli altoparlanti spezza per un attimo l’atmosfera di silenzio irreale che circonda la casa. Strade deserte, senza traffico e senza le voci dei bambini che giocano o vanno a scuola. La lunga fila di macchine parcheggiate da forma a un paesaggio mai visto.
Però lascia intuire che dietro quelle porte e finestre chiuse ci siano persone. Atomi di una comunità di destino che solo ora si accorge di essere tale. Il distanziamento sociale e il ritiro nel privato diventano momento di privazione della socialità. Condizione anche questa essenziale della nostra umana esistenza. Una socialità mediata e surrogata da nuove tecnologie del villaggio globale.
Per la prima volta le immagini trasmesse, visioni drammatiche di sofferenza e morte che non guarda in faccia nessuno, non anestetizzano il senso di realtà. Fermate il mondo, voglio scendere, verrebbe da gridare. Salgo in terrazzo e alle desolanti immagini mattutine della TV, fa da contrasto l’esplosione di verde che riveste gli alberi del giardino fino a ieri spogli. Il cinguettio degli uccelli che volano in gruppo mi ricorda che il giorno soppianta la notte e che c’è nuova vita. L’aperto è il luogo della nuda vita.
Abito In questo habitat che cambia. In questo spazio-tempo della mia vita ho sempre vissuto. Sono nato nella casa costruita da mio padre, che col picco ha scavato le fondamenta e con la terra cruda, bagnata da gocce di sudore, ha costruito mattoni di fango e paglia essiccati al sole che ancora reggono una casa nei tempi ristrutturata. Questo mito di fondazione, di archè, di inizio, per me è antropologicamente e ontologicamente pregnante e coinvolgente. Questo spazio è il nido dove mie figlie sono cresciute per poi volare libere verso altri luoghi, felici sempre però di tornare. Perché questo spazio-tempo oggi è di resistenza. Ma anche re-esistenza, perché questa pandemia darà un nuovo senso e significato alla vita ».

— Dino; 66 anni; Quartu Sant’Elena

 


« Questa terza settimana di isolamento è stata, per me, un momento di passaggio a una realtà nuova e profondamente mutata rispetto a quella che ho vissuto nelle prime due settimane.
I buoni propositi dei primi momenti sono svaniti. Ogni giornata comincia a somigliare sempre di più alla precedente. Al mattino, controllo il calendario, conto i giorni già trascorsi e mi chiedo quanti ancora ne dovranno passare prima di tornare alla normalità (quale normalità poi?). Il tempo si dilata.
I libri si accumulano formando delle piccole torri negli angoli della mia camera. I vestiti si ammonticchiano sul letto. Le tazze coprono il comodino. Come i gigli che tornano a crescere nel deserto, la vegetazione degli oggetti domestici sembra riappropriarsi dei suoi spazi. Ma quella che percepisco è una condizione inedita, singolare, a metà strada tra entropia e vita.
La mia camera da letto è adesso una casa nella casa. Il mio letto una camera nella camera. Lo spazio elementare del mio corpo, come ha detto Perec. Un rifugio in cui penso, scrivo, leggo, suono e fisso il soffitto nelle notti di insonnia. Ma l’ambiente rassicurante che con fatica ho costruito nei giorni passati è avvolto da una membrana estremamente sottile. Il guscio che mi protegge dalle interferenze esterne è fragile e quando le tensioni e le paure provenienti da fuori irrompono nella pace della mia camera e del mio letto, attraverso i social o tramite una telefonata, un sentimento di inquietudine mi pervade.
L’inquietudine si fa poi irrequietezza. E l’irrequietezza si trasforma rapidamente in ansia di movimento. Allora lascio la mia tana e comincio a camminare per casa come se stessi cercando qualcosa. Certe volte vado in cucina, apro il frigo e, dopo una fugace occhiata all’interno, lo richiudo senza prendere nulla. Qualche volta mi intrattengo con mia madre in soggiorno. Molto spesso invece esco in balcone e lo percorro da una punta all’altra. Da un po’ di giorni ho notato che qualcuno nel palazzo di fronte fa la stessa cosa. Ogni tanto mi viene voglia di salutare ».

— Maura; 27 anni; Palermo

 


« Tracce di altri spazi. Qualsiasi confinamento, se imposto, forza le condizioni dell’abitare. Ma c’è una situazione ancora più paradossale e, a tratti, dolorosa: quella di restare confinati in uno spazio senza vissuto, senza storia.
Questa è la mia particolare condizione da poco più di un mese. Il mio lavoro, come tanti altri, è scandito da viaggi, traslochi, soggiorni di più o meno breve durata. Eccomi quindi sbarcata in una nuova città – una nuova casa – alla vigilia dell’epidemia.
Un monolocale che subito, come un’avvisaglia di solitudine incipiente, ho cercato di colmare con pezzi di un’altra casa lontana, di vissuti divenuti nel tempo abitudini. Qualche cartolina, un tappeto dal motivo tropicale, pochi – ahimè pochissimi – libri, qualche utensile, un cavatappi con l’etichetta di un vino francese regalatomi a Buenos Aires, le scarpe e i vestiti belli, quelli per danzare, una coperta acquamarina, una caffettiera che ha fatto quasi il giro del mondo, una radiosveglia di dieci anni fa.
Così, gli spazi vuoti di questo appartamento sono punteggiati da immagini e oggetti che assolvono a più funzioni. È grazie ad essi che i vari ambienti assumono, non senza difficoltà, tratti di familiarità domestica – riproduco gesti, sequenze di azioni, pensieri più o meno conosciuti. Sono ancora queste immagini e questi oggetti ad ammonirmi, a ricordarmi in parte chi sono, cosa mi piace fare, dove sono andata e dove ritornerò di nuovo. Ogni sera, prima di dormire, ho di fronte a me, sulla parete del grande mobile che separa la zona giorno dalla zona notte, cartoline di mostre – Chagall, Ghirri, la Luna, Adolfo Kaminsky –, un “santino” di un bandoneonista e il disegno di una celebre milonga di Buenos Aires; mi dico, forse ingenuamente, che mi proteggeranno.

Le finestre alte e a cassettoni impediscono l’affaccio su una corte che sembra letteralmente deserta, se non fosse per il vento che agita a volte le imposte degli altri. Non ci sarebbe stato spazio per le mie ortensie, e tuttavia, proprio appena arrivata, pensai che una delle prime cose che avrei fatto in primavera sarebbe stato andare a comprare nuove piante da posare sul grande mobile separatore, una cornice verde in corrispondenza della luce».

— Valeria; Ferrara

 


« Sul bidè alla Moka: la prima cosa da alzato è fare il caffè. E il caffè per me significa smontare la Moka, anzi “Moka”, lavarla bene in ogni sua parte, perchè Moka ha un corpo smontabile uno e trino che deve essere pulito in ogni sua parte.
Premesso che detesto le capsule, un’offesa al genio di Bialetti, grande artista del ‘900, capsule che per me sono supposte da infilarsi nel deretano di questi aggeggi pseudo-chic che se la tirano.
Tornando a Moka, la parte bassa sono i piedi e lo stomaco, con cui si adagia sul fuoco e si riempie di acqua; quella centrale è cuore e polmone, aspira l’acqua bollente e la mescola con la polvere della vita, scura come gli occhi di un’amante; quella alta ha sia la testa e il collo e ascelle, da lavare con attenzione affettuosa, sia sotto la zona del bidè, dove si assettano i residui del caffè precedente e che con movimenti circolari delle dita devono essere ripuliti con cura. Un vero bidè-Moka… Infine, Moka è bisessuale o poliamorosa: se il cilindro è il fallo, da cui esce il liquido dell’orgasmo bollente, l’intera vaschetta è la vagina che accoglie il seme, già mescolato con la polvere-ovulo. Dopo avviene il momento cruciale: si consiglia di mescolare il caffè ormai pronto ma dai diversi livelli di densità e poi si versa dal beccuccio, che è chiaramente una bocca ermafrodita, nella tazzina soggiacente su cui, a piacere, si può collocare o meno lo zucchero. Conclusione: se la scarpa rossa era il feticcio, Moka – una e trina – è il meta-feticismo, metafisica materialista che sospira e borbotta e delizia alla vita ».

— Massimo Canevacci; 76 anni; Roma

 


« La mia vita profumava di felicità. Era un profumo dolce, intenso, inondava tutte le stanze del mondo che mi circondava, vivevo in un mondo perfetto.
Mi sono sempre sentita, più che una principessa, una guerriera, la Mulan moderna. Ma non avevo mai fatto veramente i conti con qualche terribile drago da sconfiggere. Mai, fino a questo periodo… Mi sono ritrovata catapultata in un nuovo mondo, disorientata, atterrita.

Il drago è così reale e spaventoso, e il profumo che inondava la mia vita è sparito, ha lasciato spazio ad una sensazione di peso che mi opprime il petto ogni giorno.
Le giornate trascorrono, alcune velocemente, altre così lentamente da chiedermi se sto vivendo un incubo lunghissimo.
Vivo con la costante speranza di poter tornare alla normalità, so che non accadrà prestissimo come io desidero, ma sperare non costa nulla giusto?
A noi basta qualcosa in cui credere. Certo è che tutto questo ci ha costretti a rallentare, a pensare, a dare un freno alla nostra vita frenetica (scusate il gioco di parole).
Ma a volte, la vita anche nel dolore più spietato ti offre una soluzione, se guardi bene, infondo alla strada, dopo quel sentiero roccioso, dopo le mille buche, c’è un cartello un po’ vecchiotto e tutto arrugginito, ma ciò che c’è scritto sopra si legge bene, il cartello promette “Ce la faremo anche questa volta!”
Dobbiamo solo avere il coraggio di imboccare quella strada, la forza per resistere senza paura.
Nel buio c’è sempre uno spiraglio di luce ed ho imparato che se lo segui, arrivi fino al sole.
Io mi auguro di riuscire presto a rivedere il sole e non più solo attraverso la finestra in camera mia.
Lo auguro a me, a tutte le persone che stanno lottando in questo momento, ai miei familiari, ai miei allievi, ai miei amici e a tutto il mondo intero.
Ce la faremo è vero, lo so.
Ci ritroveremo per strada, ci abbracceremo e sarà come abbracciarci per la prima volta.
Solo in quel momento potremmo dire
“Sì, è andato tutto bene!” »

— Giusy Massarini; 26 anni; Rende (Cosenza)

 


« Le ore passano velocemente, e lo stesso fanno i minuti. Sono i secondi che sembrano non voler allontanare questo terribile momento. Sì, sono proprio i secondi che rendono interminabile questo momento.
Tutto questo perché le ore della mattina, tra una lezione e l’altra passano, i minuti passano tra una chiamata e l’altra. Ma quando la sera dopo una giornata di studi, senti il numero di fratelli che non sono riusciti a vincere la battaglia contro il COVID-19, pensi….  Pensi a quanti bambini non potranno più abbracciare il proprio genitore, pensi a quanti nipotini non avranno la fondamentale guida dei nonni nei momenti bui. Ma mentre sei sommerso da questi pensieri, senti una frase, una frase che purtroppo ti fa capire…, ti fa capire che non tutti fanno i tuoi stessi pensieri. Poi la risento, ANDRÀ’ TUTTO BENE, no, italiani!

Dopo tutti i fratelli che se ne stanno andando non possiamo più dirlo. Ma dato che ad oggi posso, vado da mia madre, vado nel “mio porto sicuro”, “dove solo le tue mani riescono a calmare tutto ciò che c’è di negativo” ».

— Samuele; 21 anni; Sicilia

 


« Come sto vivendo questa quarantena? La sto vivendo come un’opportunità.
Quella di poter trascorrere del tempo insieme ai miei figli. Tutti a casa, riuniti insieme ma diversi, ognuno con le proprie abitudini e passioni. E nonostante io sia una persona estremamente vitale e paziente, ad esempio amo dipingere, mi sento bloccata da una sorta di “torpore mentale” causato da questa quarantena che mette a dura prova la mia proverbiale pazienza.
Per quanto riguarda le mie abitudini, tendo a mangiare di più per cui continuo ad allenarmi a casa e facendo passeggiate veloci con il cane.  Interagisco con gli altri usando molto i social ed essendo insegnante d’infanzia, preparo delle lezioni ludiche per i bambini a casa ».
— Fausta; 50 anni; Caltanissetta

 


« Giorni strani, questi: sono fuori sede, mi sento fuori fase. Vivo col mio ragazzo in uno di quei buchi malmessi affittati agli studenti, ma per fortuna ho una terrazza salva-umore.
Lui è un freelance abituato a lavorare in casa: averlo sempre qui non è strano, anzi, meno male che c’è lui. È strano che in casa ci debba stare io, che ho sempre amato questa città per la socialità a cui invita.
In questi giorni faccio un po’ di yoga, leggo molto – soprattutto e-book, così i corrieri non devono muoversi troppo – guardo film e serie tv, videochiamo parenti e amici. Poi seguo le lezioni online, e sono lezioni di semiotica degli spazi urbani… quando si dice “l’ironia della sorte”. Arriveranno gli esami e, forse, la laurea a distanza.
Gli inquilini del piano sotto suonano bella musica gipsy con le finestre aperte: sorrido – grazie.
Le mie gambe intorpidite gioiscono quando è tempo di fare la spesa, di buttare l’immondizia, di andare in farmacia.
Quando tutto questo finirà, abbraccerò molto e mi riapproprierò a piedi dell’esterno. Per ora, invece, cerco di imparare a vivere in questo tempo piatto, lento e sospeso, conscia del fatto che “rallentare” è solo un modo diverso di “andare” ».

— Anna; 22 anni; Bologna

 


« I giorni passano veloci e molto simili tra loro.
Sedici giorni e dal balcone di casa mia ho visto germogliare i mandorli, sbocciare le margherite, cantare gli uccellini. Tra lo spazio fisico e lo spazio cognitivo non c’è più spazio.
Le onde cerebrali di ognuno di noi, hanno una sola onda in comune, la preoccupazione.
Gli ulivi vanno potati come ogni anno, i cani hanno bisogno di cibo e le pecore di zio si spaventano sempre quando si avvicina Molli.
La fortuna di vivere in campagna, circondata da natura, in questi giorni, come tutti gli ‘altri’ giorni dell’anno, mi rende libera di uscire e respirare. Non sentire per un attimo mia madre triste, mentre legge in continuazione storie drammatiche di persone in fin di vita o morte, trasmesse via facebook o altri canali i quali non fanno altro che incrementare questo senso di tristezza.
Ma poi, poi in pochi giorni, il tempo cambia e all’improvviso l’azzurro della primavera lascia in scena al cielo il grigio terso dell’autunno e dopo dell’inverno. Stamattina aprendo la finestra di casa appuro che previsioni non avevano mentito. C’è davvero la neve.
Cerchiamo di diversificare per non annoiarci, mio padre sintonizza la televisione sui film di Pierino e in un attimo scattiamo tutti a ridere, io preferisco guardare documentari su posti sperduti del mondo, i viaggi mi affascinano; mentre mia sorella, cambia su Rai Storia e la guerra è lì di fronte a noi. Ora in questa guerra muta da cannoni e aerei, da spari e bombe, il nemico siamo noi stessi e i nostri pensieri.
Chissà dove andremo? Se in soli sedici giorni, là fuori, ho visto tutte e quattro le stagioni dell’anno.
I giorni passano veloci e molti simili tra loro. Non si può parlar nemmeno di primavera.
Chiusi in una scatola a veder crollar il mondo ».

—  Francesca; 21 anni; Luzzi (Cosenza)

 


« I miei giorni continuano a scorrere densi, di responsabilità e decisioni da assumere velocemente e con fermezza. 
Questa parte della mia vita, più strettamente professionale, è quella non modificata se non perché acuita dalla vita in quarantena.
La mia vita personale viceversa può godere dell’immensa fortuna di abitare in campagna, all’interno del Parco del Molentargius. Significa godere di un ampio spazio per camminare, respirare profondamente, ponderare, vivere. Avvertire la prepotenza della natura, incurante dei nostri guai umani: sono circondata dai profumi degli agrumi in fiore, delle viole, del gelsomino, delle acacie.
Ma sono profumi che non riescono ad inebriarmi come è sempre stato finora: mi danno una fitta al cuore e all’anima, e non di rado piango.
Ho rapporti non virtuali con la mia mamma, rimasta vedova da pochi mesi, che abita qui di fianco a me. Alterniamo momenti di apparente tranquillità a grandi momenti di sconforto. Ci sono poi i miei vicini, con i quali si parla dalla rete di confine e si parla di tutto per non parlare di ciò che ci fa paura, ma ci si scambia uova fresche e qualche verdura dai varchi della recinzione. E le voci e i giochi dei due gemelli di appena quattro anni hanno su di me lo stesso effetto della natura incurante, un quasi fastidio come di musica cacofonica, anche se razionalmente so che sono loro dalla parte giusta!
In questo spazio prevale la percezione sensoriale, in particolare visiva e sonora: lo spettacolo della primavera colori, profumi e il ronzio degli insetti, i gatti e i cavalli in calore. Il silenzio umano. Lunghe ore in cui non sento voci umane e non parlo.
La gran parte dei rapporti sono necessariamente affidati a numerose chat su whatsapp, email e conversazioni telefoniche.
E resta del buon tempo per leggere, guardare quei film per i quali non si aveva mai il tempo giusto, studiare e progettare ».

— Stefania; 53 anni; Quartu Sant’Elena (Cagliari)

 


« Non si può dire troppo: ma io sto amando questo periodo di quarantena.
Lavoro come educatrice in un nido, amo il mio lavoro, ho una vita dinamica e piena di interessi e di cose da fare.
Ma, allo stesso tempo, fin da subito la prospettiva di chiudermi nella mia tana non mi ha suscitato dispiacere.
Tutto questo compatibilmente con una situazione collettiva assurda, tragica, surreale.
Ma compatibilmente con lo sconcerto per la situazione e il dolore per la tragedia italiana, io mi sento serena.
Sono facilitata dal fatto di non patire la solitudine. E amo vivere in una dimensione di tempo diverso, dilatato, lento. lontano dai ritmi nevrotici delle giornate solite.
E cosi pulisco la casa, leggo, guardo serie TV, faccio video con le canzoncine per i bambini del nido, sto in terrazzo al sole come i gatti, parlo con i miei cari e con gli amici.
Vivo queste giornate nella consapevolezza che è un’esperienza strana e irreale, di un tempo che è un tempo diverso, che rimpiangerò ».

— Laura; 53 anni; Torino


« I raggi di sole entrano caldi e rassicuranti dalla mia finestra illuminando e rischiarando i pensieri in una calma surreale, là dove la realtà si è cristallizzata.
Milano, la città in cui vivo da un anno si è fermata, nessuno avrebbe potuto immaginare che il fragore di tutti i suoi meccanismi si potesse bloccare. Il cuore economico e pulsante dell’Italia in un attimo si è congelato, lasciandoci senza fiato.
Il nostro vivere qui è completamente mutato da un giorno all’altro, niente più frenesia, niente più rincorrersi, niente più fatturare, niente più niente, e poi… Dalla mia nuova casa, dove ho fatto in tempo a trasferirmi a fine febbraio, riscopro vecchi valori e ne metto in pratica di nuovi.
Questo spazio lo divido con un coinquilino con cui mi fa piacere parlare, soprattutto al mattino davanti ad un caffè, occasione in cui cerco di incoraggiarlo positivamente. Nel cambiare casa devo ammettere di essere stata fortunata, l’appartamento è confortevole e mi sento a mio agio, soprattutto considerando la permanenza costante a causa dell’emergenza che si è scatenata. Da quando sono qui cerco di filtrare i pensieri, diluirli e proiettarli in maniera ottimista verso il futuro. 
Coltivo la mia pazienza rasserenando lo spirito con un’ora di pratica buddista al giorno, questa mi dà la carica giusta per iniziare la mia giornata.
Allo stesso tempo anche le letture a tema buddista mi sostengono molto.
Alleno quotidianamente i sensi gustando piatti che non preparavo da tempo, leggo, ascolto musica e telefono a persone care che non sentivo da un po’, osservo il verde, il cielo e i suoi meravigliosi tramonti dalla mia finestra. In generale cerco di circondarmi di pensieri positivi, di leggere buone notizie, di prendermi cura di me e di coccolarmi per quel che posso a volte con un dolce, a volte con due gocce di profumo.
Non smetto mai di alimentare i miei sogni,
così la guida degli States comprata qualche mese fa diventa l’occasione per esplorare con l’immaginazione nuovi orizzonti. Razionalizzare le risorse utilizzandole in maniera creativa è l’aspetto di cui sono più fiera, in quanto spreco e inquino di meno ».

— Valentina; 36 anni; Milano

 


« In meno di un mese la nostra vita è  cambiata completamente.
L’angoscia e la paura per le persone più fragili della famiglia e la voglia-imposizione di vivere questo periodo serenamente si scontrano in  continuazione. 
Durante il giorno i giochi e l’allegria del mio nipotino sono contagiosi,  inconsapevole di  ciò che sta accadendo canta Jingle Bells tutto il giorno felice di avere i genitori a casa. 
Quando arriva la sera e i giochi  tacciono si riaffaccia la triste realtà,  è  questo il momento delle  riflessioni: carcerati innocenti…impauriti,  è questo dunque ciò che prova l’animale in gabbia!».

— Luigina; 60 anni; Padova

 


« Inizialmente ho avuto difficoltà ad adattarmi. Da un giorno all’altro tutte le attività importanti nella mia routine sono state sospese per un tempo indeterminato.
Evitavo il pensiero che se questa condizione si dovesse protrarre abbastanza a lungo metterebbe a rischio i miei progetti per i prossimi due-tre anni.La prima settimana mostravo comportamenti tipici della depressione: mi addormentavo tardi, dormivo a lungo e al risveglio impiegavo molto
tempo per alzarmi dal letto. Ammazzavo il tempo con attività che non richiedessero sforzi fisici o mentali, e che non avessero alcuno scopo – principalmente giocavo al telefono. Per fortuna Chiara ha organizzato delle lezioni di Effort che potessimo eseguire ognuno in casa propria, non fosse per quello non avrei combinato assolutamente nulla.
La seconda settimana mi sono imposto di reagire. Ho riempito la mia agenda, stipulando per iscritto orari e obiettivi per ogni giorno. Ho pensato di poter dedicare questo tempo alle cose che mi dico che vorrei fare, ma per le quali sono sempre troppo impegnato. Mi sono creato una routine e ogni giorno facevo esercizio fisico, studiavo spagnolo, e mi dedicavo alla lettura, alla progettazione di un sito internet, al montare video, e/o agli esercizi di effort. Sono riuscito a stimolare e tenere attivi il corpo e la mente. Chi si ferma è perduto! Questa settimana sposterò le ore di sonno da 03:00-12:00 a 02:00-10:00.
Per quanto riguarda il contatto con gli altri, in famiglia durante la giornata ciascuno di noi ha le proprie cose da fare: chi lavora da casa, chi fa i compiti di scuola etc. etc. Gli unici momenti comunitari sono il pranzo e la cena. Per quanto riguarda il mondo esterno, a volte guardo dalla finestra e m’immagino di passeggiare per la città vuota, ma per gran parte del tempo neanche so che tempo faccia. Approfitto del portare la spazzatura per respirare aria fresca, e mi tengo in contatto con gli amici tramite giochi online (CoD è perfetto per questo scopo) e videochiamate. Ieri mi mancava camminare, così ho girato in cerchio in salone ».

— Jan; 22 anni; Cagliari

 


« Il periodo di quarantena per me è iniziato lo scorso 8 marzo. Inizialmente, le sensazioni erano contrastanti: la sveglia non suonava al solito orario delle 7, non c’era da vestirsi di fretta, scegliere l’abito da indossare, accertarsi di avere la camicia stirata, individuare la cravatta più adeguata a seconda degli impegni giornalieri. Tutto questo era d’un tratto sparito. Ci si poteva alzare comodamente perché non c’era nessun autobus da prendere, fare colazione senza troppa fretta, accendere il pc e rimanere a lavorare in pantofole. La cosa che più trovai difficile durante la prima settimana fu l’interazione con i colleghi di lavoro. Non si trattava più di andare da una stanza all’altra a discutere di quel progetto o della riunione del pomeriggio. Non si poteva più aspettare il canonico orario delle 10 per andare tutti al bar a prendere un caffè, offrendolo a turno. E durante il tragitto per raggiungere il nostro bar preferito, non si poteva più commentare la partita della sera prima, i siparietti tra colleghi laziali da un lato e romanisti dall’altro, con l’eventualità sempre più concreta che la Lazio potesse vincere lo scudetto. Forse queste cose riprenderanno a breve, o forse solamente con molta gradualità. Sono perfettamente consapevole che la “vita normale” ritornerà, prima o poi, ma non riesco a visualizzare con nitidezza gli stadi progressivi che ci separano da quel momento. Questo periodo è stato, ormai da molti, assimilato a un periodo di guerra. È vero, tante cose sono diverse, ma se c’è una cosa che a mio modo di vedere sarà diversa riguarda proprio il momento in cui tutto finirà. Quando la guerra è finita, l’Italia è stata liberata dal fascismo, tutti (ma proprio tutti), sono scesi in piazza ad abbracciarsi, a gridare, a urlare, a festeggiare. Forse per arrivare a quelle urla, quegli abbracci, e quella vicinanza calorosa a cui siamo tanti abituati, bisognerà aspettare ancora tanto ».

— Antonio; 28 anni; Roma

 


« Ho uno spazio fisico attorno ed un altro nella testa e nel cuore. Della casa in cui vivo con il mio compagno e i nostri animali, la nostra attività quotidiana si è sempre concentrata soprattutto in cucina. E’ una scelta di necessità perché solo in questa stanza abbiamo una fonte di calore, il camino. E’ così quando si vive nella “Sardegna rurale”, come la definisco io che sono nata e cresciuta in città. Da poco più di una settimana a questa parte il tempo si è dilatato inesorabilmente e non mi importa se mi sveglio tardi. Dalla notizia che il 118 aveva prelevato i miei genitori da casa (quella in cui sono cresciuta in Puglia) per portarli all’ospedale (lo stesso in cui io ho visto per la prima volta la luce) della mia città natale poiché affetti da Covid-19, la mia scala di priorità si è rovesciata. Da allora la prima cosa che faccio appena mi alzo e l’ultima prima di mettermi a letto è telefonare alla mia famiglia. Chiamo prima mio fratello in quarantena sebbene asintomatico, poi mia sorella che vive in Francia, dopodiché mia madre che, fondamentalmente, è sempre stata abbastanza in forze e con lei mi dilungo in riflessioni varie. In ultimo è la volta di mio padre. Faccio un grande respiro, chiudo gli occhi e cerco di aprire bene le orecchie, quindi esco in cortile, dove non c’è rumore. Scelgo questo luogo per poterlo sentire bene dato che fa un po’ di fatica a parlare poiché gli viene da tossire a causa della polmonite causata dal virus. Cerco di non rubargli molto tempo per non farlo sforzare: gli chiedo solo se si sente meglio, se ha la febbre e se ha mangiato. Le telefonate sono fulminee (circa 2 minuti) e sono accompagnate, in sottofondo, dal brusio che fa l’ossigeno uscendo dalla mascherina.
Aria. Non voglio rubargli aria. Vivo inerme in questa bolla con loro, al di sopra dello spazio e del tempo e sono qui esternamente ma, dentro di me, sono al loro fianco.
Da sabato scorso, fortunatamente, le telefonate con lui hanno iniziato ad allungarsi…»

— Viola; 32 anni; Sardegna

 


« Nella mia solitudine, ristretta in uno spazio vitale, non mi accorgo di essere sola. La mia casa è lontana dal rumore, dagli eccessi e spesso non arriva neanche internet. Il sole vi sorge e vi tramonta, e nelle belle giornate, intonate dai canti degli uccelli, non si può fare a meno di sentirsi estremamente grati per tutti questi doni ricevuti. Non vengo sopraffatta dagli stili di vita degli altri perché non mi appartengono: La mia scelta è quasi ascetica, mi porta spesso alla meditazione. Sul mio tavolo c’è sempre un libro, un diario, un computer e dei fogli con penne e acquerelli. La mia gioia è quella di osservare la natura, il cielo, i boschi, gli animali…tutte cose che la città rifiuta. Il tempo scorre lento e lo spazio temporale non esiste più: E’ come rimanere sempre giovani ma con un bagaglio di vita che diventa inevitabilmente più grande: Ed è tutto così semplice e gioioso…»

— Tiziana Patrì; 67 anni; Roma

 


« Siamo in due, io e il mio compagno, a vivere in una casa spaziosa, in pieno centro storico, al primo e ultimo piano di una palazzina. Siamo assieme ad affrontare la quarantena e questo ci aiuta nel viverla senza isterismi.
La camera che abito maggiormente è il mio studio: ci sono i mobili della mia casa di infanzia di Pozzuoli, e mi ricordano il profumo del mare e la serenità dell’infanzia. Qui trascorro essenzialmente le ore: di studio, lettura, lavoro a distanza, contatti con il mondo “fuori”.
Il mio compagno ha allestito il suo ufficio nel living: ci svegliamo e, dopo colazione, ci separiamo, ognuno nella sua stanza, per cominciare la giornata. Tento la normalità, stilo ogni mattina una lista di cose da fare, con ampi intervalli liberi, che dedico a libri lasciati sul comodino in attesa di poterli sfogliare e gustare con l’inattesa lentezza del tempo. Invio email, faccio telefonate, rispondo ai whatsapp di colleghi e alunni, ricevo e faccio foto, provo ad applicare i principi di comunità educante anche da lontani, e rifletto sulla responsabilità della “diseducazione solidificata nel tempo”, per cui siamo arrivati con tale improvvisazione a rammendare strappi antichi e impolverati.
Fuori le poche (ogni giorno più rare) voci delle persone che si confrontano sulla giornata nuova, i raggi di sole che riscaldano la pelle e il cinguettio degli uccelli, ad alternarsi alla luce fredda dello schermo ed ai miei paesaggi mentali – ricordi di viaggi, momenti, persone, e proiezioni in immagini delle parole che leggo sulla carta stampata. Anche qui ci sono state le canzoni dai balconi: ho ascoltato dal mio dentro, senza sentirmi realmente partecipe, per una tristezza di fondo che non riuscivo a scacciare.
La giornata scorre concentrata in momenti di intensa attività (mentale più che reale), che mi isolano dal virus. Quando torno nello spazio condiviso con il mio compagno, specialmente durante i pasti, guardiamo un tg o scorriamo i social, grandi contenitori di paure disordinate. Piombo nello sconforto: il mio tempo ritrovato mi fa da scudo contro la minaccia del virus, e invece eccola qua, intatta, a ricordarmi che c’è, esiste ».

— L. ; 33 anni; Quartu Sant’Elena (Cagliari)

 


«Le attività più significative svolte da me e dal mio compagno si dividono tra lavoro, letture, musica, visione di film, cucina. Nel corso della giornata siamo entrambi attenti ad essere presenti con le nostre famiglie e a curare le nostre amicizie con lunghe telefonate e, quando possibile, video chiamate. L’incredibile quantità di tempo a disposizione ci permette di pensare a idee e progetti da portare avanti, anche se è difficile darsi scadenze quando il calendario sembra riempirsi di appuntamenti eventuali, virtuali, che nulla valgono quando accostati ai numeri in crescita.
L’entusiasmo delle prime uscite necessarie è svanito alla vista dell’angoscia palpabile negli altri passanti, lasciando il posto a passeggiate visive mediante binocolo. La sensazione straniante che portano le passeggiate visive condotte esclusivamente dall’alto si alterna alla possibilità di concentrarsi sui gabbiani che si abituano a una nuova territorialità. Mentre il balcone è diventato il dehors, l’interno è diviso tra studio e intrattenimento. Una volta che il mondo esterno si è ridotto al balcone, l’attenzione è tutta sulla ricerca di una rassicurante intimità negli spazi di sempre e nelle relazioni. Che si tratti di cura di sé, delle proprie relazioni o dello smart working, la vera sfida per chi ha la fortuna di doversi preoccupare solo di restare a casa è di disporre liberamente del proprio tempo».

— Anonimo; 29 anni; Napoli

 


« Vivo a Montelibretti, paese agricolo collinare della Sabina in provincia di Roma.
In queste lunghissime e difficili giornate ove siamo tutti costretti a limitare i nostri spostamenti, io, nel mio caso, cerco di ritagliare dei miei spazi all’interno della mia abitazione; mi dedico all’attivita’ fisica in casa come posso, facendo esercizi scanditi da una buona musica rilassante; mi dedico alla lettura anche tramite i social (facebook e altri siti di informazione) per tenermi aggiornata sull’attuale drammatica situazione che stiamo vivendo. Talvolta, mi delizio in cucina  preparando qualche  dolce da consumare in famiglia per tirare su l’umore. Ho un mio spazio dedicato alla pittura, la mia “passione”, che continuo a coltivare anche adesso in casa.
Comunico  con  amici e parenti  tramite i social network ,whatsapp, con videochiamate e messaggi reciproci che ci inviamo e all’occorrenza ci aiutiamo a vicenda. Ci scambiamo  parole di conforto anche se ci incontriamo per strada o ci affacciamo dalle rispettive finestre di casa dove io posso godere dei bellissimi panorami e profumi che regala la natura che fanno da sfondo alle nostre conversazioni. Questi panorami mi ricordano le belle camminate immerse nel verde che facevo fino a non molto tempo fa e che adesso ripercorro con i miei pensieri ».

—  Maria Vittoria;  Roma

 


« Come vivo questa quarantena? Niente di diverso da quello che facevo prima, non ho mai viaggiato.
Però mi sono imposta delle regole, meno tv, meno cellulare, faccio un po’ di palestra al mattino poi inizio le pulizie in casa.
Con mio marito poco dialogo ma ci abbracciamo con i piedi perché manca davvero il contatto fisico.
Dimenticavo la lettura di libri lasciati lì da troppo tempo.
Vado al balcone ma preferisco guardare la natura però interagisci con i miei familiari che vivo in un’altra regione, utilizzo la videochiamata perché almeno li vedo e chiamo le amiche più strette. Cerco di aiutare amiche in difficoltà emotiva.
Ci sono molte amiche che stanno reagendo male a tutto questo, io cerco di dare loro conforto ».

— Stefania; 62 anni; Ferrara

 


« L’estensione di me: è la casa, dove vivo – anche in questi giorni – col mio compagno. 
Una cucina, un salone con dentro un tavolo e un divano, una stanza da letto con due letti, due bagni.
Il corridoio è la strada che conduce e induce i miei spostamenti.
I balconi sono spazi al di fuori di me. È altro da me. Sono la possibilità – ora unica – di vedere gli altri.
Stare a casa non mi turba: è occasione, per me, di vivere uno spazio mio, ascoltare i miei tempi, imparare a rimandare alcuni dei miei bisogni, privilegiare una mia identità.
La casa è somma di stanze che plasmano me e si plasmano su di me, che accolgono me e i miei pensieri in uno spazio complice di un tempo lento e indefinito eppure scandito dai medesimi riti che mi accompagnavano prima di questa quarantena: cucinare, leggere, studiare e lavorare a progetti presenti e futuri. Finirà tutto questo, no?
Se apro il balcone fuori è primavera e se spalanco tutte le finestre sento la primavera anche dentro di me ».

— Nunzia; 34 anni; Rende (Cosenza)

 


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