Memoranda. Memorie, riflessioni, racconti per il futuro (Pagina 1)

Questa rubrica è coordinata dall’antropologo e scrittore Vito Teti e ha lo scopo di raccogliere le “memorie” della vita quotidiana delle giovani generazioni e delle persone di ogni età nel tempo presente.

PAGINA 1

La sezione si colloca nell’ambito del progetto “Il mio spazio vissuto”.

Tutte le immagini a cui i testimoni fanno riferimento nei loro testi sono disponibili nella sezione Memoranda – Media

 


 

Caro diario, le mie giornate sono quasi tutte molto simili tra loro, sicuramente posso affermare che regna la monotonia. Essendo una persona molto organizzata e schematica, ho preferito organizzare le mie giornate in maniera tale da dover rispettare ogni dovere. La selezione delle attività da svolgere durante il quotidiano è essenziale. Ogni attività merita il suo tempo e la sua attenzione. Frequentare ordinariamente le stesse persone potrebbe risultare uggioso, poiché non si susseguirebbero scambi di idee, non si entrerebbe in relazione con nuova gente. Passare costantemente del tempo con la propria famiglia è uno dei valori che spesso viene sottovalutato; per cause di forza maggiore, ognuno di noi è tenuto a passare intere giornate circondato dalle solite persone. La convivenza con la famiglia potrebbe assumere aspetti sia negativi che positivi. Uno degli aspetti positivi è l’unione, l’empatia che si crea nel momento in cui questo periodo critico potrebbe distruggere psicologicamente, è la forza di ogni singolo individuo che accomuna l’intera famiglia a renderla unita e solidale . Il rapporto con i miei genitori e mio fratello è solido e stabile, fondato su principi di rispetto reciproco e solidarietà. Considero mia mamma come una sorella, abbiamo solo 23 anni di differenza; con lei riesco a confidarmi, a sfogarmi durante i momenti di rabbia e tristezza, è la persona con la quale interloquisco di più. Per quanto riguarda mio padre, con lui ho un bellissimo rapporto, siamo molto simili caratterialmente, quindi solitamente si susseguono dei dibattiti, i quali molto spesso si rivelano costruttivi. E infine, mio fratello minore, senza il quale sarebbe difficile sopportare la quarantena, lui riesce a rendermi le giornate noiose divertenti, ha un modo particolare di relazionarsi con me, viviamo quasi in simbiosi.

Ciò che osservo dalla finestra della mia stanza suscita in me un sentimento piacevole, quasi un nuovo modo di vedere le cose. Spesse volte sono rimasta ad osservare il panorama e ho notato dettagli che generalmente per me sarebbero stati insignificanti. Si possono scorgere la varietà di montagne e colline, ma ciò che principalmente mi attira è il colore blu del mare. Non mi sono mai soffermata troppo ad osservare il panorama, però in un periodo critico come questo, dove il tempo è tanto, sono stata attratta dalla natura, probabilmente perché cerchiamo proprio le cose che in quel momento risultano irraggiungibili. Restare in casa per quasi due mesi interi non significa chiudere ermeticamente tutti i rapporti con il mondo esterno. Fortunatamente la tecnologia avanzata odierna ci permette di interferire e dialogare anche a distanza. Non vedere i miei più cari amici e colleghi per un po’ di tempo mi ha fatto riflettere su vari temi. Uno di questi è l’importanza che si presta ad un rapporto d’amicizia. La costanza nel scambiarsi messaggi o chiamate è davvero fondamentale per mantenere viva un’amicizia? Il non vedersi tutti i giorni potrebbe influenzare negativamente il legame che tiene unite due persone? Sono state queste le domande che mi sono posta e sono riuscita ad ottenere una risposta. La mancanza che si sente nei confronti di una determinata persona è dovuta da vari fattori, innanzitutto dal tipo di rapporto che si ha con essa, ma principalmente dalle vostre abitudini; se si è abituati a vedere una persona ordinariamente, nel momento in cui questa continuità si interrompe, è lecito che si noti la differenza. Ma ciò non cambia i sentimenti di affetto che si provano per quella persona. Il contatto umano è importante, è completamente differente interferire tramite un telefono poiché si possono creare fraintendimenti, non è chiaro il tono di voce che viene usato o semplicemente non si recepiscono bene le informazioni, siccome non c’è un contatto visivo. È assurdo vivere in una circostanza simile, anche se nel momento in cui tutto ciò sarà finito, ognuno di noi sarà capace di apprezzare ogni minima cosa, saremo in grado di valorizzare ciò che prima era irrilevante. Avremo un nuovo modo di vedere le cose. Ma la cosa più ambigua è pensare che abbiamo vissuto in un contesto assimilato solo tramite dei libri. Prima d’ora non ero capace di immedesimarmi nelle persone che avessero vissuto in una pandemia globale come la peste, la malaria o l’influenza spagnola. Auguro che la diffidenza nei confronti delle persone passi il più presto possibile e che tutto torni alla normalità.

Selene, 19 anni, Terranova da Sibari (CS)

 


– NOSTALGIA CANAGLIA
Ci sono svariati sentimenti che arricchiscono queste lunghe giornate di quarantena.
Ma il sentimento comune che prova, credo, tutto il mondo in questo periodo è la Nostalgia .
Eh già… Nostalgia: parola greca composta da due parole; ritorno “nostos” e dolore “algios” .
Una parola che può  tramutarsi in significati diversi per ognuno di noi.Nostalgia è tristezza per persone che amiamo, ma che sono lontane da noi, mancanza di un luogo a noi caro, rimpianto della vecchia routine giornaliera.
Nostalgia intesa sia come ricordo che come rimpianto.
Il ricordo di aver passato momenti indimenticabili tra amici o anche solo il rimpianto di non aver fatto una determinata cosa a causa di questo virus.
Molti sono un po’ come l’Ulisse della storia e della letteratura, nostalgico per la sua terra, Itaca e per la famiglia.
Così come i molti italiani sparsi nel mondo o più  semplicemente non nella loro regione, spesso tormentati da questo sentimento.Penso che tutta questa situazione abbia stimolato ognuno di noi a dare valore e, appunto, capire, il concetto di libertà!
Lo spirito dell’autonomia, il poter stare insieme al proprio gruppo di amici, il desiderio di ritornare ad abbracciare i propri cari, amici o familiari che siano, la determinazione nello scegliere le proprie abitudini, senza norme restrittive e senza nessuna paura di contagio. Il sentimento stesso della paura ci ha resi ciechi. Proprio così, questo virus ci ha offuscato la mente, ci ha costretti a rinchiuderci nella propria dimora.Ma ci si dà forza, proprio come Ulisse; è  il ricordo dei bei momenti trascorsi in passato che dà la forza di andare avanti.
Veder di nuovo risplendere il nostro Paese rispettandolo più di prima.
La voglia di voler VIVERE, penso sia questo il messaggio che la pandemia dovrebbe trasmettere a tutta l’umanità!
Rossella Minnelli, 20 anni, Petilia Policastro (KR), Studentessa di Matematica

Care generazioni future,

sentirete parlare molto di cosa è accaduto durante questo 2020, e chi meglio di un osservatore diretto che ha vissuto questi momenti può raccontarvi cosa sta succedendo?

Spero che leggendo queste righe riusciate a percepire anche l’ansia e la preoccupazione che per mesi hanno convissuto con noi.

Non voglio raccontarvi qualcosa che non sia pertinente alla realtà e non voglio neanche farvi spaventare, voglio raccontarvi di cosa è successo e succede ancora oggi mentre vi scrivo. Voglio che sappiate che c’è stata una terribile pandemia, arrivata in modo “quasi” silenzioso che, in pochi mesi, ha ucciso molte persone e dal momento in cui si è insediata nelle nostre vite ha dato inizio ad un vero e proprio “cambiamento”. Dapprima eravamo increduli, affascinati dal nostro “eterno presente” non abbiamo dato peso a tante cose, ci siamo cullati con l’idea che il virus che incombeva in Oriente non sarebbe mai arrivato da noi in Italia. Ma non fu così, arrivò velocemente e senza destare sospetti.

La sanità fu colta impreparata e con essa volarono via le vite di centinaia tra dottori, infermieri e personale ausiliario che con scarse protezioni, cercarono di aiutare la nazione in qualunque modo, tanti, anzi tantissimi e se vogliamo essere precisi ad oggi sono 222.000 i contagiati. Cifre che fanno paura associate al numero dei morti. Il governo nel corso di questa pandemia ha emanato tante restrizioni, per cercare di limitare i contagi e l’Italia si è fermata per due mesi. Siamo stati fermi, immobili nelle nostre abitazioni, cambiando totalmente le nostre abitudini, e spesso noi giovani ci siamo sentiti in “gabbia”.

Certo non è stato facile, abbiamo passato la Pasqua in casa da soli, anche i nostri compleanni, fiduciosi, però, che da lì a qualche settimana le cose sarebbero andate meglio, non ci sono state feste di paese, non c’è stata alcuna partita di Champions, c’è stata solo l’Italia ferma ad aspettare che tutto passasse, alcuni fermi sul divano, altri a lottare tra vita e morte e altri cercando di dare il miglior aiuto possibile, tutti uniti con un unico obiettivo: uscire fuori da questa pandemia e ritornare più forti e consapevoli di prima.

E oggi – care generazioni future -, a pochi giorni dall’inizio della fase 2, qualcosa seppur di poco è cambiata; per la prima volta dopo tutte queste settimane ci è stato concesso di poter far visita ai nostri congiunti. Non vi nego la felicità che ho provato udendo questa decisione, mi sento quasi come una bimba a cui regalano il gioco che ha desiderato per mesi e, nel momento in cui è tra le sue mani, avverte quasi “paura”; ebbene, a me non hanno regalato un gioco qualsiasi, ma mi è stata concessa una parziale “libertà”; la situazione italiana va un po’ meglio certo, però la responsabilità che abbiamo tra le mani in questo momento è molto grande: dobbiamo comportarci bene, non far prevalere l’irresponsabilità e la voglia di recuperare in pochi giorni i mesi trascorsi a casa, lontano dai nostri luoghi abituali.

Già dall’uscio di casa avverto qualcosa di diverso, una sensazione strana e camminando tra le vie del mio paese ne ho la certezza, non trovo più i soliti ragazzini a giocare a palla o i soliti anziani seduti al circolo a giocare e ridere tra loro, ci sono poche persone in giro, munite di mascherina e guanti che cercano di evitarsi l’un l’altro, nella paura che proprio l’altro possa essere il “pericolo”. Si nota subito che qualcosa è cambiato, nessuno è più lo stesso e neanche io che, camminando, mi sento quasi una “turista invisibile” tra le vie del mio paese, quello stesso paese che mi ha visto crescere e cambiare. È una sensazione molto strana: inizio a guardare tutto quello che c’è intorno a me, come se questi 2 mesi in casa mi abbiano restituito quella curiosità che, in genere, si prova quando conosci un paese o un luogo dove non sei mai stata, cammino e cammino ancora meravigliandomi di come la natura possa aver continuato ugualmente il suo processo, gli alberi sono tutti fioriti, sento l’odore dei fiori d’arancio, i raggi del sole che man mano diventano più forti e riscaldano la mia pelle. Noto la fila davanti al supermercato, che ormai è diventata un’abitudine, non c’è più dialogo tra le persone, che, in fila, aspettano il proprio turno: niente risate, niente scambi di ricette “last minute”, niente consigli. A prevalere è solo il silenzio e ancora un po’ di paura, perché “l’asintomatico” potrebbe essere chiunque e dovunque anche l’amico del cuore o la persona che è in fila davanti a te. Ho anch’io un po’ d’ansia, non lo nego, ma nel bel mezzo di vari pensieri lo noto, bello, limpido e blu, quel blu intenso che ti attrae. Lui è lì, il mare, e con lui tutti i pesci che durante questo periodo di assenza dei pescatori si sono sentiti “liberi” di poter, per la prima volta, girare senza alcun pensiero. E che attualità intravedo tra le parole di Jim Morrison che scriveva : “Sii sempre come il mare che infrangendosi contro gli scogli, trova sempre la forza di riprovarci”; noi ad oggi ci siamo solo “infranti” come le onde del mare contro gli scogli; è proprio da questo momento, dal cambiamento che sta avvenendo in ognuno di noi che dobbiamo trovare la forza per riprovarci, riprovarci ancora una volta sicuri che, insieme, possiamo sconfiggere qualunque battaglia.

Cara generazione futura, è a voi che oggi mi rivolgo mentre scrivo questo elaborato, anche per farvi capire che è proprio per voi oltre che per noi stessi che stiamo cercando di cambiare, di costruire un “nuova” società più attenta ai piccoli avvisi che ci dà la natura e soprattutto più prudente. Non c’è la certezza che avvenga un vero e proprio cambiamento ma noi ci stiamo provando, e qualora non ci riuscissimo lascio a voi la capacità e l’intelligenza di arrivare oltre, di spingervi a cambiare le cose senza avere alcun timore, rispettando, però, questo fantastico pianeta che ci ospita da tanto, tanto tempo.

Samanta, 20 anni, Corigliano-Rossano (CS), Studentessa di Lettere e Beni Culturali

 


 

Il 2020 è stato colpito da  “un nemico invisibile”  il quale, inevitabilmente, ha segnato le nostre vite, distruggendo la sottovalutata normalità.

 La catastrofica situazione ha richiesto una limitazione di quelle libertà che si pensava fossero ormai acquisite e che, sfortunatamente, molte volte si davano per scontate.

Le difficili circostanze hanno fatto emergere la vera natura della società e degli uomini, i quali, lentamente, hanno manifestato la loro smisurata crudeltà.

Questa pandemia  ha procurato  molteplici effetti negativi, paradossalmente però, ci ha ‘’aiutato’’ a rivalutare quelle che io chiamo ‘’piccole cose’’: preparare ogni sabato la pizza con tutta la famiglia, una giornata di sole,  la bellezza dell’avvento della primavera, una passeggiata, la lettura di un buon libro, assaporandone ogni singola pagina.

Abbiamo rivalutato le cose effimere, le quali venivano trascurate a causa della tecnologia, che ci impediva di guardare oltre lo schermo, ignorando la bellezza del nostro mondo.

Questa tragica situazione, ci ha fatto comprendere come uno strumento tecnologico non possa sostituire il calore umano, le interazioni sociali, poiché queste sono le cose che ci tengono in vita.

Le mie giornate, nonostante tutto, sono ricche di amore; le passo in famiglia, preparando dolci con mamma, tra risate e profumi che riportano al passato;  leggendo ogni sera ‘’Il piccolo principe’’ al mio fratellino di nove anni, affinché possa sentirsi meno solo.

Ho intrapreso un “viaggio intorno alla mia camera”, ispirandomi alla suggestiva  opera di Xavier de Maistre, il quale scriveva: ‘’Non finirei più, se volessi descrivere la millesima parte dei singolari avvenimenti che mi capitano quando viaggio nei pressi della mia biblioteca’.’ Tra una meta e l’altra, in balìa dell’immaginazione è possibile osservare ogni oggetto, anche il più banale, con occhi diversi.

Il mio amore per i classici mi ha aiutato ad ascoltare diversi suggerimenti, favorendo un fruttuoso  dialogo con numerosi personaggi immaginari.  ‘’Interrogo i libri e mi rispondono. E parlano e cantano per me. Alcuni mi portano il riso sulle labbra o la consolazione nel cuore.  Altri mi insegnano a conoscere me stesso.’’ È sorprendente quanto le parole del poeta trecentesco, Francesco Petrarca, ancora oggi non risultino anacronistiche.

In questa drammatica condizione, ho riflettuto molto su alcune considerazioni del celebre sociologo Zygmunt  Bauman, il quale parlava di una ‘’modernità liquida’’, descrivendo un contesto che poggia su palafitte, poiché in assenza di un punto di riferimento tutto si dissolve in una sorta di liquidità. Una realtà in cui ‘’l’incertezza è l’unica certezza’’.

Riflettendo su questi argomenti, inevitabilmente, ho pensato alle mie esperienze passate; quei preziosi momenti durante i quali le cose semplici  erano indispensabili, poiché ci rendevano felici e spensierati. Ho ricordato piacevolmente le vacanze pasquali, trascorse ogni anno in compagnia di nonni e parenti, i quali sfortunatamente, quest’anno, ho potuto sentire solamente al telefono con ineluttabile nostalgia.

L’affetto della mia famiglia ha colmato questa mancanza e lenito ogni dolore; ancora una volta, ho riflettuto sulla potenza dell’amore.

In questi giorni ho pensato a come potessi terminare questo diario, questo viaggio introspettivo, preferirei definirlo in questo modo. Cercavo un finale che potesse riassumere quel che ho percepito, amato, detestato, tuttavia, penso che le emozioni/sensazioni non possano essere esplicate in una pagina Word. Pertanto, concludo questa incredibile esperienza, con delle nuove convinzioni, certezze e idee, che inesorabilmente, hanno modificato il mio modo di percepire la realtà circostante, rivalutando la bellezza fugace delle cose effimere.

Tutto fermo a causa di un mostro invisibile.

Maria Teresa, Gerocarne (VV)

 


 

Oggi giorno 12 maggio, ormai nella fase due, affronto con più serenità il tema che coinvolge i miei stati d’animo che vivo durante il periodo corona virus. Tutto ha avuto inizio nei primi giorni del mese marzo in Italia, ma in Cina sul suo inizio si è ancora un po’ incerti, si ipotizza che sia iniziato nel dicembre 2019. Quando in Italia si apprese la notizia, agli inizi di gennaio dell’anno corrente io ero un po’ preoccupata, perché apprendevo dai media che il numero di vittime da ora in ora, e da giorno in giorno aumentava, temevo sarebbe arrivato qui in Italia, e così infatti accadde. La preoccupazione era tanta, ma considerando che in Italia non si contava alcun contagio continuavo con la mia vita di sempre passavo le giornate a studiare per via della sessione invernale per tutto il mese di gennaio e metà febbraio, tutto continuava seguendo quella stessa routine che da sempre vivevo. Fino a quando, però, in Italia si conta il primo contagio circa la fine di febbraio, e a seguire, poi, se ne conteranno molti altri. Il presidente del Consiglio Giuseppe Conte, in una conferenza stampa nella metà di marzo, ha dichiarato tutte le regioni d’Italia zona rossa, visto l’alto numero di contagi e le prime morti in un brevissimo tempo e definì il Covid-19 “pandemia”. È così che ha avuto inizio la quarantena per tutti i cittadini italiani. Nelle prime settimane non mi sono fatta coinvolgere completamente da stati d’animo negativi: passavo le mie giornate a studiare a seguire le lezioni anche a distrarmi guardando serie tv e rimanendo in contatto con i miei amici e colleghi, parlando con la mi famiglia nonostante in casa il clima era un po’ teso per via della preoccupazione del virus, ma non ci siamo lasciati travolgere dalla negatività. In seguito però, i miei stati d’animo iniziano ad essere più negativi, mi mancavano molte cose, ma soprattutto la libertà; si tende molto a sottovalutare la vita che si ha; quando poi non possiamo più viverla, è così che ci accorgiamo di quanto fosse bella. Alternavo molto i miei stati d’animo, un giorno ero serena e il giorno seguente ero presa dallo sconforto, così è continuato fino all’inizio della fase due. Nella fase due sono sicuramente più serena in quanto ho potuto vedere qualche mio caro e sono anche felice che la situazione in Italia per ora sia stabile e con tassi in diminuzione di contagi e soprattutto morti. Ad oggi la libertà non è ancora del tutto nostra, è giusto che sia così per il bene dei nostri cari e anche per la salute personale. Tirando le somme, sicuramente ho potuto in questa quarantena studiare cose che per alcuni motivi non ho potuto studiare in precedenza, ho fatto dell’introspezione riscoprendomi una persona diversa, più consapevole e tollerante. Ma nonostante ciò gli aspetti negativi sono stati molti: non solo l’ansia di vivere in questo periodo così difficile, ma mancava anche l’affetto di un abbraccio da parte nei miei parenti e amici; ho riscontrato molte difficoltà a concentrarmi sullo studio perché le giornate passavano tutte allo stesso modo: non avevo energia e voglia di fare, ma solo noia. Ad oggi posso solo che augurarmi che la situazione continui così e che presto tutti noi potremmo riavere indietro la nostra vita.

Nicol Gianna, 20 anni, Acri (CS), Studentessa di Scienze dell’educazione

 


 

23/03/2020

«Caro diario,

è da tanto tempo che non ti scrivo, anche perché non trovavo motivo. Trascorrevo la mia vita tranquilla: andavo all’università, nel tempo libero uscivo con le mie amiche, il sabato sera con il mio ragazzo… oggi mi è difficile fare tutto questo. Da due settimane sono chiusa in casa per combattere una grave forma di influenza che hanno battezzato Coronavirus o in termini scientifici COVID-19. Viene chiamata “Pandemia” perché, purtroppo, ha colpito tutti i paesi del mondo, partendo dalla Cina per poi arrivare all’improvviso ed espandersi alla velocità della luce in Italia. Tutto il Paese è stato dichiarato zona rossa dal nostro Presidente del Consiglio e noi italiani siamo stati invitati a rimanere a casa fino a quando la situazione non migliora ed ad uscire solo in caso di necessità o di salute. Migliaia di persone sono in quarantena volontaria, come me e la mia famiglia; altri in quarantena forzata poiché positivi al virus. Nessuno avrebbe mai pensato di vivere così, lontano dagli affetti, dai nonni, dai parenti, amici, fidanzati.
Io alterno le mie giornate tra tv, divano, giochi con le carte con mia sorella, fare dolci, pizze e  lezioni online. Lezioni che avrei dovuto seguire di persona all’università con le mie colleghe, facendo tra una lezione e l’altra una bella pausa caffè e magari anche un giro in macchina e vivermi il mio primo anno da matricola.
Alterno momenti di gioia e di speranza a momenti di sconforto e tristezza guardando l’enorme numero di contagiati e soprattutto di morti, la maggior parte anziani. Quanti funerali non celebrati, quante persone sono volate via da sole, senza un ultimo saluto, senza un abbraccio da parte delle persone a loro più care. Morti in solitudine posti in fila indiana nei cimiteri in attesa del loro turno per essere sepolti senza rito funebre. Mia nonna, in questo periodo, ha perso suo fratello minore e non vedendolo spesso, poiché lui abitava in un piccolo paese non molto lontano da Cosenza, dove lei vive con me e i mie genitori e mia sorella, voleva almeno andare al suo funerale per salutarlo un’ultima volta.. un desiderio che, però, non ha potuto realizzare a causa dell’emergenza sanitaria. In questi giorni le emozioni sono amplificate, le lacrime sono l’unico rimedio per sentirsi un po’ più liberi, per superare questo lutto perenne, fino a quando la sofferenza e l’ansia non ritornano a travolgere l’animo.
Quando mi sveglio dalla mia stanzetta guardo fuori il mondo ormai svuotato di tutte quelle persone che prima passeggiavano, del rumore dei clacson nelle lunghe code di macchine sulle strade, delle chiacchierate ai bar e risate nei vari ristoranti, pub e pizzerie. Ora riecheggia nell’aria il canto degli uccelli sia di giorno che di notte, l’odore della primavera, il profumo dei primi fiori sbocciati, il sole caldo che tramonta sempre un po’ più tardi.. Mi affaccio dalla finestra e vedo al piano di sopra la mia cara amica di infanzia, non passavamo un giorno senza vederci, ora ci vediamo così dal balcone e dialoghiamo per un po’. Durante il pomeriggio ricevo diverse chiamate, sms, videochiamate di amici così da tenerci in contatto e lo stesso faccio con mia nonna e i miei cugini. Quando arriva la sera prego affinché la speranza non muoia, so che prima o poi tutto si risolverà. Ti aggiornerò se ci sono novità.

06/04/2020

Caro diario,

oggi 6 Aprile è il mio compleanno, ho compiuto 20 anni. Avrei voluto festeggiare fuori con i miei amici, ma sfortunatamente il periodo non me l’ha permesso. Ancora siamo nel vivo della quarantena, aspettando il giorno in cui ci diranno che tutto è finito, che potremo di nuovo abbracciarci, stringerci la mano, stare vicini.. Tutto ciò che ora ci è vietato. Beh, in ogni caso ho festeggiato ugualmente il mio compleanno, i 20 anni non vengono una seconda volta e sicuramente sarà il giorno di cui più avrò memoria e che da grande racconterò forse ai  miei figli un giorno. Sono stata a casa con la mia famiglia: mia nonna, mamma, papà e mia sorella. Io e mamma avevamo preparato una torta alla nutella e decorazioni con la panna, sulla quale ho poi messo una candelina per esprimere un desiderio. Tutti  ci siamo preparati per l’occasione, per poter festeggiare al meglio questo “strano” compleanno. Al momento della torta ho ricevuto la videochiamata da parte dei miei cugini e zii e con loro mia nonna, tutti insieme a cantare l’imbarazzante canzoncina di compleanno per poi riempirmi di auguri e di: “Ci vediamo presto, un abbraccio!”. Di sicuro è stato un giorno indimenticabile che mi porterò nel cuore perché alla fine sono le piccole cose quelle che amo di più.
Ah! Quasi dimenticavo, stamattina suonano al citofono, era il corriere con un pacco per me da parte del mio fidanzato. Non me l’ha aspettavo, quando l’ho aperto tremavo; è stata una vera e bellissima sorpresa, anche lui avrebbe voluto festeggiare con me questo mio giorno. Ma tutte le persone a cui voglio bene vicine o lontane che siano sono state con me oggi.
Settimana prossima sarà anche Pasqua, un’altra festa in cui staremo solo tra di noi, non che mi dispiaccia, ma – durante le feste – ci riunivamo in famiglia e a Pasquetta si andava in montagna o al mare con gli amici.
La domenica non potrò neanche andare a messa nella chiesa vicino casa, sarà vuota quest’anno in confronto agli anni passati in cui era popolata di tantissimi fedeli tra cui ragazzi, bambini, adulti e anziani. Loro come me la vedranno da casa, alla tv. Il Papa celebrerà la Santa Messa in una chiesa di Roma anch’essa vuota, nella quale le parole del pontefice rimbomberanno nel silenzio, così da affermare con ancora più potenza la Resurrezione di Gesù e con l’auspicio di svegliarci un giorno senza sentire parlare di vittime, di contagiati, di questo nemico invisibile, così da riprendere in mano la nostra vita e viverla a pieno»

Giorgia, 20 anni, Cosenza, studentessa di Lettere e Beni Culturali

 


«Riflessioni di un riscoperto nostalgico.
Dorme, il mondo, stanotte. Dormono le madri pensando a cosa stiano provando i propri figli: è da tempo, d’altronde, che non si emozionano più nel rivederli. Dormono i bambini, così innocenti e vogliosi di vivere. Non possono di certo capire, loro, cosa il destino stia perfidamente tramando. Dormono anche i nonni, i quali, dall’alto della loro esperienza e saggezza, sanno che presto questo maledetto buio dovrà pur finire, ma resistono, lottano con le esigue forze che hanno in corpo, pur di rivedere con i propri occhi il sorriso intenso dei propri nipoti.
Stanotte la città è strana. Sarà l’ora tarda, molto tarda, ma nasconde un silenzio sotteso, profondo, che raramente ho potuto percepire in lei, così caotica e rumorosa. Anche lei, forse, ha bisogno di ridestarsi.
Dorme, il mondo, stanotte. Ma non di certo io, chiuso in una stanza piuttosto angusta a sognare e a pensare. Mi sento come lo scrittore francese Xavier de Meistre nel suo ”Viaggio intorno alla mia camera”, un esploratore voglioso di inseguire la propria vera natura ma costretto a rimanere rinchiuso in una piccola superficie, senza poter avere l’opportunità di scappare via.
Forse dovrei dormire, ma proprio non riesco a conciliare la stanchezza del mio corpo all’alacre laboriosità della mia mente. Vivere est cogitare, affermava Cicerone nelle Tusculanae disputationes.
Riflettere è sempre stata un’attività che ha riscontrato il mio gradimento, lo faccio di continuo. A volte in ritardo, a volte troppo, ma costantemente. Penso agli argomenti più disparati, alle contingenze più assurde e paradossali, cercando sempre di andare a rapportare ogni situazione e concettuosità al mio io e alla mia esistenza. Sono il primo giudice di me stesso, sempre pronto a sentenziare condanne sul mio operato, sono il mio primo critico e osservatore, la mia nemesi e il mio tormento. Sì, tormento, proprio quello che ormai da giorni sto provando sulla mia pelle.
Non siamo soltanto corpo e mente. Siamo anche cuore e sentimento, siamo passione e ardore, senza le emozioni non avremmo la forza di continuare a vivere. E, senza vita, noi non siamo niente.
Vedo i pochi alberi che riesco a scorgere dalla mia finestra agitarsi. Anche loro, come me, soffrono? Riescono a cogliere le mie emozioni o sono indifferenti alla vita umana e sono semplicemente agitati da un vento che in un determinato istante ha deciso di spirare ad una potenza più elevata?Anche loro provano nostalgia di un tempo che ormai sembra non esservi più? Ecco, credo che la nostalgia sia il sentimento più forte che in questi ultimi giorni stia provando. E, a ripensarci, è davvero un evento straordinario, a cui mai avrei pensato di tendere.
Proprio io, nostalgico? Colui che credeva che fosse totalmente immune da un simile sentimento, sempre proiettato com’era verso la creazione del suo futuro senza dare per nulla peso al passato?
Ebbene, sono costretto a ricredermi con fermezza. Mi manca il passato, mi manca il tempo di cui prima potevo beneficiare e adesso non più. Il tempo, questa è la chiave, perché i nostri pensieri sono sempre proiettati verso il tempo nei quali si concretizzano, non verso i luoghi. È l’uomo a rendere speciale un luogo attraverso la sua presenza nel mondo, è l’uomo a dare ad un semplice spazio un significato nuovo, valorizzandone il tempo vissuto al suo interno. Ciò che prima avevo sempre sottovalutato adesso ritorna prepotentemente nel mio cuore, lo agita e lo sconquassa.
Riprendendo un’immagine donata da Ludwing Binswanger, importante psicolo svizzero, mi sento come un’alpinista costretto a fermarsi nel bel mezzo della sua scalata, senza la possibilità né di scendere né di salire. In bilico costante tra un passato ormai non più emulabile e un futuro colmo di incertezze, con un presente che non permette alcuna via d’uscita.
Raggiungere la vetta o precipitare?
Dorme, il mondo, stanotte. Ma ancora non riesco a smettere di pensare, io, nel buio e nel silenzio irreale della mia città. Vedo un grattacielo, l’unico edificio che riesce a svettare tra le tenebre, e la luna, così poetica con il suo nitore, a cercare di alleviare le mie sofferenze. Ad un tratto però mi assale un dubbio: ciò di cui sento la mancanza è proiettato solo verso il passato o anche verso il futuro?
La nostalgia che provo è espressione solo di ciò che ho vissuto e che vorrei che rifosse o anche di ciò che vorrei che sarà?​ La nostalgia senza il futuro non potrebbe esistere. Se Ulisse non avesse creduto di poter vivere in un futuro anche lontano con la sua amata Penelope, avrebbe mai compiuto il suo travagliato ritorno? Se Dante non fosse stato certo che l’intervento di Dio lo avrebbe condotto verso la salvezza, sarebbe riuscito a portare a termine il suo viaggio? Nostalgia è anche futuro: se il passato è il suo corpo, il futuro è il suo nutrimento. Se non avessimo alcuna speranza di ritornare a vivere come un tempo e se, quindi, non avessimo fiducia nel futuro, in noi sarebbe presente solo rassegnazione e sconforto. La nostra stessa esistenza sarebbe votata all’autodistruzione.
Dorme, il mondo, stanotte. È tardi, certo, ma ancora non così tanto da dover smettere di pensare, il buio e il silenzio mi inquietano, ma allo stesso tempo mi animano.
Il termine nostalgia, ricordo, deriva da due termini greci densi di significato: nóstos e άlgos, ritorno e dolore. È un ritorno doloroso quello che si attua, è un dolore che si estrinseca nel desiderio del ritorno. Ma davvero si tratta di un ritorno quello che si vorrebbe attuare?
Più che un ritorno, direi, sembrerebbe essere un’andata. Compiere un viaggio significa sempre ripartire, creare una nuova diramazione nel viale della nostra esistenza. Quando si parte non si ritornerà mai più come prima. Non esiste un punto di ripristino nelle nostre vite. Cambia il luogo, cambia il tempo, cambia l’io. È impossibile ritornare ad essere quelli che si era, bisogna sempre cercare di mutare con il mutamento, poiché ciò che è solido e immutevole è destinato al fallimento. La fluidità riuscirà, al contrario, sempre a sopravvivere all’azione corrosiva del tempo.
Come si può cambiare con il cambiamento cercando sempre di perseguire la felicità?
Dorme, il mondo, stanotte. O forse è solo apparenza. In realtà è in continuo fervore e tensione, volto com’è verso la risoluzione di un conflitto terribile che lo ha colpito nel profondo. Non posso restare indifferente ai sacrifici che molti stanno portando avanti per fare in modo che si crei un futuro più ameno, per dare un senso al presente. Il viaggio non è ancora terminato, è in costante evoluzione. Un viaggio contro un virus che, codardamente, non si mostra, mira solo a distruggere ogni essere che incontri per la sua strada.
Tornare alla normalità richiederà sicuramente molti giorni, forse mesi. Ma alla fine, ne sono certo, sapremo cogliere più intensamente la bellezza della normalità a cui tutti eravamo abituati. Bisognerà ricomporre, ripensare, rifondare, ricreare, tanti, troppi sono stati gli errori del passato, è il senso di umanità che dovrà guidare l’uomo nella creazione di ciò che sarà.
Il baratro è vicino, per tutti. Siamo chiamati a guardare in faccia la Storia, tessitrice sottesa di tutti gli intrecci. Ciò che verrà siamo noi, e noi decideremo se volare o precipitare una volta per tutte. L’equilibrio è labile, non potremo più comportarci come prima.
È tardi, ormai. Molto tardi. Ormai sono completamente sfinito, pensare del resto stanca parecchio. Presto sarà l’alba. Anche questa volta il sole risorgerà per me e per gli uomini, e mostrerà l’intrinseco e misterioso spettacolo della vita.
Ritornerò domani a pensare, e ancora in futuro, così come tutti gli esseri umani, quando tutto questo sarà terminato.
Vi sarà, del resto, un futuro nuovo da dover costruire»

Gianmarco, anni 19, Cosenza


 

EREDITA’ DI QUARANTENA

«All’indomani della fatidica “Fase due” tutto mi appare diviso in due blocchi monolitici, c’è ancora chi vede la realtà così cristallizzata nella sua interezza e chi si affretta con una foga mai vista a ridare un senso a tutta quella dinamicità perduta nei mesi di arresto. Mi trovo, in ultima istanza, a propendere per la cristallizzazione in attesa di avere le idee più chiare. Ma la realtà che conoscevamo, che fine ha fatto? E poi in fondo, questa realtà, noi, la conoscevamo davvero? Probabilmente non c’è mai stata una unica e vera “realtà”, per non parlare della “normalità” alla quale molti vorrebbero ritornare più di ogni altra cosa. Frasi che riecheggiano come slogan pubblicitari, stiamo a casa, state a casa, porte chiuse, porti aperti, parole ripetute all’infinito, assembramento, distanziamento, indennità, contingentamento, fino a risultare svuotate di senso, cosicché ognuno possa riempirle a proprio piacimento dando ad esse il senso che vuole, chi più chi meno. Come quando da bambini si colorava con colori diversi – ma sempre dentro le figure e mai oltre i bordi prestabiliti. E pensare che nessuno mai avrebbe potuto immaginare che le nostre vite, la nostra società, l’economia, la politica, la sanità e non per ultimo il clima, sarebbero potuti cambiare così radicalmente in così poco tempo. Ovvio che, per alcuni luoghi, molte delle dinamiche territoriali siano rimaste ancora intatte nella loro atavica imperfezione; potrei dilungarmi a fondo su come ad esempio la Calabria stia gestendo la situazione, governata peraltro proprio nell’ottica del “distanziamento sociale” e aggiungerei regionale, ma non è lo scopo della testimonianza. Dopo la primissima paralisi dettata dal lockdown nazionale, nella serata del 9 marzo, ero appena rientrata dopo diversi mesi, nella mia residenza, in Calabria, a Lamezia Terme, per una fortuita coincidenza né un giorno prima né uno dopo. Casualità, causalità, fato, destino, karma? Oppure ancor più semplicemente uno dei tanti eventi che “capitano” perché devono capitare e perché in fondo siamo sempre e solo noi, esseri senzienti, a farci delle domande, a cercare delle risposte che non ci sono e che vogliamo per forza dare o avere. Con molta probabilità non lo sapremo mai. Di colpo l’intero territorio nazionale viene dichiarato “zona rossa”, che fare? Ricordo con altrettanta nitidezza tutti i sentimenti che in scomposta rassegna si affollarono nella mia mente in così breve tempo, era un misto di tristezza, angoscia, stupore, incredulità, rabbia. Tuttavia, più di tutti sentivo uno straniante senso di divisione, tra la vita che avevo appena lasciato e quella che mi si sarebbe prospettata di lì a poco. Sentirsi divisi è strano, alle volte fa male, alle volte fa riflettere. È la condizione primaria di chi decide di abbandonare la propria regione per diversi motivi, nel mio caso, per proseguire un percorso di studi e affrontare la disambiguazione di una nuova sfida e di una nuova vita “oltre”. È uno stare qui ed uno stare lì, contemporaneamente, in due posti lontani e diversi tra loro Condizione oggi, così facilitata da una velocità di comunicazione che non lascia spazio ad altro. Si rivela, dunque, in potenza, una presenza sdoppiata che spesso dà luogo a controverse letture di stampo sociologico, etnografico, antropologico e simili, ma che solo chi vive in prima persona sa e può parlarne. Il bisogno di essere presenti e divisi crea alle volte stati d’animo contrastanti, perché non si è né qui né lì, si è dove si decide di stare col cuore e con la mente. Tuttavia, molto spesso cuore e mente non seguono le stesse traiettorie e le stesse direzioni, anzi. Ho letto tanto su concetti quali la doppia presenza, la delimitazione, il posizionamento, la condizione liminale della soglia, ma non avrei mai pensato di viverli, anche se per poco, sulla mia pelle trovandomi a convivere con la condizione imposta da una reclusione forzata causa pandemia globale. Sembra la trama di un film fanta-post-apocalittico. Eppure, eccomi qui a testimoniare come tantissimi altri solo una piccolissima porzione del mio vissuto in questi ultimi mesi. Descrivere accuratamente e in maniera singolare ogni stato d’animo vissuto in questo ultimo periodo sarebbe estremamente difficoltoso e lungo. Mi preme, tuttavia, rimarcare il senso di disorientamento e di congelamento che ha dato luogo a lunghe riflessioni sul senso della realtà, della normalità, della vita pre e post emergenza. Ovviamente, considerazioni come queste, riescono sempre meglio una volta usciti dalla situazione stessa, a freddo, come dopo un trauma. C’è chi rimuove volontariamente per un meccanismo inconscio e di protezione della mente, chi ha paura di ricordare, chi va direttamente oltre, chi rimane bloccato nella sua stasi manifestando dubbi e paure e chi diventa paranoico. Personalmente propendo per la riflessione estrinseca in sé del fenomeno, sforzandomi di vedere nel complesso il quadro organico della realtà. Operando una sorta di scissione tra un io fisso e un io mobile, distanziato, che mi permetta di avere una migliore visuale sulle cose, non rimanendo focalizzata sul singolo episodio perdendo, dunque, la visione d’insieme. Quella visione d’insieme, a me così cara, che non poche volte mi ha permesso di mantenere il controllo, anche e soprattutto in situazioni di estrema difficoltà. Tuttavia, dopo poco tempo, mi sono semplicemente adagiata sulla realtà delle cose, cercando di fare di ogni giornata una nuova sfida quotidiana. Quando si ha così tanto tempo a disposizione sono veramente tante le cose che si possono fare, per me ad esempio, leggere nuovi libri o i grandi classici, ma anche rileggere quelli che ci hanno fatto battere il cuore e ci hanno fatto dire “si, è proprio così che mi sento, provo le stesse cose anch’io”, studiare, approfondire hobby e argomenti che durante il frenetico tran-tran della vita, che ogni giorno ci obbliga a recitare lo stesso mantra “produci-consuma-crepa”, non si ha il tempo di fare. Secondo la mia modesta opinione, quello che stiamo vivendo è un tempo restituito e che ci restituisce il tempo anche per abbandonarci a lunghe pause e articolate riflessioni circa il senso di tante cose che avevamo perso di vista. Inoltre, questa lunga pausa, mi ha permesso di ritornare a scrivere, di mettere nero su bianco sentimenti, emozioni, rabbia, paure, incertezze, che quando le vedi scritte è un po’ come se le avessi affidate a qualcun altro che non sei tu. Non ti gravano addosso col peso di un macigno. Le puoi vedere dall’esterno, leggerle, rileggerle, cancellarle, riscriverle, non fanno male, non ci si sente giudicati, non ci si crea delle aspettative per cui poi rimanere delusi, si scrive, punto. È quel flusso costante di pensieri che viene impresso su carta, giusti, sbagliati, non importa ai fini dell’atto in sé. E di questo un po’ in fondo mi sento grata poiché difficilmente avrei potuto farlo in un altro momento. Per cui, lungi dal voler ripetere alle stesse condizioni la medesima esperienza, cerco di rendermi testimone di questo tempo, per lasciare una traccia, un segno del mio passaggio. Di sicuro, niente più ritornerà come prima, per quanto possiamo desiderarlo intensamente, magari avrà luogo una normalità rinnovata o perché no una nuova realtà. Spero veramente che non ci si dimentichi di tutto questo e che alcune delle buone pratiche acquisite diventino delle buone abitudini nel tempo. Questa esperienza ci ha segnati nel profondo ed è ancora difficile rendersene conto; probabilmente tra qualche anno potremo effettivamente cogliere l’eredità delle nostre singole quarantene e perché no, condividerle e trasmetterle in linea di continuità perché non si dimentichi e non se ne perda la memoria, ma anzi venga restituita attraverso la collettività»

— Gaia Materazzo, 26 anni, Lamezia Terme (Nicastro)

 


«Scrivo tutto questo nella cosiddetta “fase 2”, per dare uno sguardo ad un passato recente, ma, forse, è proprio qui che sbagliamo a definirlo essere passato, questo è più che mai un presente che si ripercuote sulla nostra vita. Partiamo dall’inizio quando – ansiosi per l’arrivo del nuovo anno -, rivolgevamo gli occhi al cielo con una certa nostalgia, ma con la forte speranza di poter trascorrere un anno migliore di quello precedente, esprimendo desideri ed anche qualche dubbio. Provai un certo dispiacere ed un senso di compassione quando sentii al telegiornale di un grave virus che stava colpendo una città della Cina che attaccava duramente l’apparato respiratorio e qui, in Italia, arrivò una sorta di ondata di razzismo verso la comunità cinese che abitava nel nostro paese per paura che potessero contagiare gli altri; inutile dire quanta rabbia provassi per coloro che decidevano di non frequentare più le attività cinesi e di intimare gli altri a non farlo, portandone molte anche alla chiusura. Mentre tutti erano intenti a “raccomandare” la lontananza dai cinesi, ecco che la vita aveva in serbo qualcosa che mai avremmo pensato di toccare in modo tangibile, ovvero quell’invisibile virus che stava già colpendo la Cina. Iniziarono i primi casi in Lombardia; l’Italia, dopo qualche giorno, venne blindata e denominata “zona rossa”; il popolo italiano iniziava la sua quarantena obbligatoria. Da lì un periodo di paura e di angoscia: i mass-media ci bombardavano di notizie, direttive, consigli su come comportarsi ed ogni giorno si rimaneva connessi per poter sapere i dati forniti dalla Protezione Civile, sempre più preoccupanti. Le strade d’Italia erano vuote, senza vita. Ogni giorno, medici ed infermieri combattevano in ospedali arrivati al collasso, tante famiglie piangevano a distanza i loro cari, visti per l’ultima volta mentre andavano speranzosi, ed anche preoccupati, verso una cura . Le famiglie trascorrevano la propria quarantena a pensare alle proprie attività chiuse, a cosa poter fare per passare delle giornate, ormai, totalmente diverse dalla normalità. In ognuno di noi regnavano sentimenti contrastanti, per molti questo periodo ha rafforzato i rapporti con la propria famiglia ed anche con chi era lontano, il cui unico modo per poter  vedere era uno schermo e  fu proprio uno schermo l’ancora di salvezza di molti pazienti malati di Covid-19 che avevano la possibilità di vedere il sorriso dei propri cari. La volontà di evadere risiedeva in molti di noi, chi per poter fare una passeggiata, chi per poter rivedere quello che aveva lasciato fuori ed apprezzarlo ancora più di prima capendo che molte volte non è il superfluo a renderci felici, ma le piccole cose; abbiamo imparato che pur vivendo in una società super moderna, abbiamo bisogno di cose semplici, comprendendo che una carezza, forse, vale più di un bacio. Abbiamo imparato che le “armi” di oggi non sono i fucili e le bombe, ma la distanza e le mascherine e questa non è una guerra contro di noi, ma, è un arma di difesa per combattere un male invisibile che si è insediato in tutti i paesi del mondo, che ha fatto capire anche ai più scellerati di dover tirare il freno dalla loro mania di esibizionismo e di potere. Oltre alla strage compiuta da questo virus, purtroppo, un risvolto negativo ha caratterizzato questa parte della nostra vita: non tutti hanno trascorso le proprie giornate in compagnia, pensiamo a tanti nonni lontani da tutti ed i più duramente colpiti, ma pensiamo anche a tante persone, figli, che si sono sentiti dei piccoli prigionieri nelle loro case. Purtroppo, non sempre la propria casa è sinonimo di serenità, allora si cercava di evadere con la mente, l’unico mezzo a disposizione per poter viaggiare in quel momento, si cercava di comunicare con le persone al di fuori delle quattro mura domestiche che si considerava essere il proprio appoggio. Questa quarantena ha segnato ognuno di noi, evidenziando le nostre paure, i nostri sogni, le nostre fragilità ed anche il nostro senso di carità perché molte famiglie, sfortunatamente,  hanno conosciuto un brutto periodo di crisi ed allora le piccole comunità italiane si sono mosse ed hanno dato il loro contributo, entro le proprie possibilità, donando beni di prima necessità. Quello che più è mancato è stata senz’altro la presenza: la presenza di un nostro amico, dei nostri nonni, della scuola, di un posto che tenevamo nel cuore. Molti hanno trovato conforto avvicinandosi alla fede e molti, invece, si sono visti allontanati dalla loro “routine” religiosa, non potendosi recare più in chiesa e non potendo partecipare in particolar modo ai riti dell’attesa settimana santa. Sarà stato un segno che questa chiusura obbligatoria sia avvenuta in concomitanza della Pasqua? Forse per farci capire ed apprezzare ancora di più i nostri usi e le nostre tradizioni, per non farci allontanare da quelle che sono le nostre radici, soprattutto per chi non ha avuto la possibilità di rientrare nella propria terra. Nel mio paese, Corigliano Calabro, per la prima volta non abbiamo potuto porgere un saluto al nostro protettore San Francesco che festeggiamo il 25 aprile. La nostra devozione è tanta perché, secondo la tradizione, il 24 aprile 1836  avvenne un forte terremoto che distrusse Rossano ed i comuni limitrofi, mentre a Corigliano non ci furono vittime, in tutto ciò i coriglianesi videro l’intervento di San Francesco e da quel momento venne istituita la festa del 25 aprile. Questi momenti rappresentavano anche un momento di ritrovo e per molti, oggi, ha significato dare più valore alle tradizioni, anche da parte dei giovani. Siamo tutt’ora qui a difenderci da questo male, anche se con qualche libertà in più, cerchiamo di vedere giorni un po’ più rosei nonostante la consapevolezza che non sia ancora tutto finito, non sappiamo cosa aspettarci ma bisogna restare uniti e muoverci pieni di senso civico e di responsabilità verso chi amiamo e verso il nostro paese, ma, purtroppo, durante tutto ciò si è notato in qualcuno un senso di egoismo che definirei atroce vista la situazione, dove non sono state rispettate le regole e si è rischiato di mettere a repentaglio la vita di molti. Siamo in pieno periodo di apertura dove si parla e si discute tanto: da una parte il virus nemico che tantissimi medici stanno cercando di allontanare con la creazione di un vaccino che ognuno di noi aspetta con ansia, e dall’altra, la voce di chi è disperato che chiede di poter riaprire la propria attività per sfamare la propria famiglia, ci troviamo dinanzi ad un bivio che vorremmo fosse una strada dritta senza ostacoli. Molti esperti dicono che tutto questo farà emergere quelle che sono le ripercussioni a livello psicologico in tutti, ma in particolar modo in anziani e bambini; terminato tutto questo forse dovremmo fare i conti proprio con questa nuova realtà, forse proprio ora, perché quelli che ci aspettano saranno giorni duri in cui la realtà sarà totalmente diversa da quella che abbiamo lasciato ed allora bisognerebbe attivarsi in ogni ambito per poter ricreare la serenità di un tempo per far sì che le cicatrici che si sono formate siano meno dolorose. Saranno giorni duri, ma penso che molti di noi, da ora, ne apprezzeranno ogni aspetto, a discapito di chi purtroppo trova una lamentela quasi su tutto anche ora. Il senso della vita si è accentuato in noi portandoci, forse, a riflettere molto di più sulle scelte che facciamo, pensando meno alle frivolezze, ma, forse, a volte, sono proprio alcune frivolezze a farci “allontanare” dalla realtà, ma allo stesso tempo ci aiutano a discostare per un attimo la mente, pur non allontanandoci  dai nostri obiettivi e certezze. Qualcuno potrebbe chiedersi di quali certezze dovremmo parlare visto che la situazione in corso le ha smantellate quasi tutte. Le circostanze influiscono è vero, però siamo noi a dover costruire la nostra persona e a trasformare qualcosa in certezza, perché le certezze non arrivano da sole e non diventano tali da sole. La vita è un bagaglio di esperienze, penso proprio che questo sarà uno dei più pesanti ed in quanto tale quello più ricco: ricco dei sentimenti e dei pensieri più contrastanti, della consapevolezza più consapevole che ci sia ma, soprattutto, di un amore più intenso verso la vita! Allora cerchiamo di sfruttare il peso di questo forte bagaglio per ricordarci delle cose essenziali, delle persone che ci sono sempre state, dei veri valori da perseguire, dei nostri obiettivi e dell’aiuto verso chi è in difficoltà, proprio come stiamo facendo ora comportandoci responsabilmente»

— Maria Giovanna, 20 anni, Corigliano Rossano (CS)

 


«Scelgo di inviare questa mia lettera a pochi giorni dalla scadenza, per poter trascrivere a pieno, cosa, questa ondata di ignoto, ha travolto nella spiaggia pacifica e assolata della mia vita. Come se non si curasse di coloro che annegano sul fondo, continua imperturbabile nella sua marcia letale e non ci concede respiro. Ma come tutti i mali, non sempre, o almeno non in tutto, vengon per nuocere. Pensare, infatti, che un nemico invisibile potrebbe, tra un passo e un altro, insinuarsi nella sua quotidianità e distruggerla, spinge il perseguitato a godere più intensamente di ciò che prima trascurava o dava per scontato. Io, come quest’ultimo, mi sono sentita catapultata in un mondo che in apparenza definivo mio, ma di cui in realtà ravvisavo soltanto la superficie. Parlo dell’angolo inesplorato sotto casa, nascosto e accogliente, della via stretta e alberata che ora accompagna lunghe passeggiate, ma che prima rappresentava uno sfondo misero nella fretta giornaliera. Parlo del caffè fumante al mattino, cullato dalle mani affettuose di mia madre, teso in un gesto inconsapevolmente generoso, ma che io apprezzo solo ora. E parlo anche di tutte quei cari, amici e parenti, che ingenuamente credevo a fianco, ma in realtà, ora comprendo, erano distanti anni luce, e di tutti quegli altri che, non importa quanta strada ci sia tra noi, quello è lo spazio che ci unisce.

Ricordare e sognare ora, fa più male che mai. Ogni singolo oggetto o spazio diventa nido di un mio ricordo e mi aggrappo ad esso con fermezza per fuggire temporaneamente dalla realtà. L’unico mezzo di interazione con gli altri è lo schermo scuro di un dispositivo e il conforto risiede proprio in coloro che si trovano dall’altra parte. Proprio per questo, sono arrivata alla conclusione che lo spazio sicuro di questa mia quarantena, sia l’abbraccio, reale o virtuale, delle persone con cui ho condiviso paure, speranze e ricordi. Ho capito che la parola “futuro”, spesso utilizzata per ripararci dal presente, a volte è un mostro ingannevole e illusorio che sceglie di mostrarsi proprio quando ci sentiamo più protetti e invincibili. Ho imparato ad apprezzare sinceramente le piccole cose della vita, perché non è sicuro che siano sempre lì, ad aspettare che tu le noti. In casa e per le strade risuona il motto “andrà tutto bene “ e io scelgo di ascoltarlo perché so che sarà così. E seppur ferito e zoppicante, la mia unica speranza oggi è che, quando tutto questo finirà, il mondo abbia imparato anch’esso l’instabilità delle sicurezze»

— Valentina, Filadelfia – studentessa Unical

 


 

«Cara me,
ho deciso di scrivere in questi giorni con l’intenzione di lasciare un piccolo ricordo di queste giornate più tristi.
Ti sei ritrovata nel bel mezzo del primo anno di università, nel fior fiore dei tuoi vent’anni a pareggiare i conti con una pandemia globale.
Ci avresti mai creduto? Una pandemia, ripeto, globale. Proprio come quella di cui leggevi nei libri di storia e letteratura.
La quarantena è solo una delle tante e gravi conseguenze, il distanziamento sociale, l’isolamento.
Approfitto di questo stand-by dalla routine quotidiana della vita prima del Covid-19 per godere delle gioie che mi regala la mia famiglia, della semplicità dei piccoli gesti, della felicità di un aperitivo in video-call con le amiche, della novità delle lezioni online e dell’amore ai tempi del Corona Virus, il tutto tra le varie stanze di casa.
Sai, adesso mi capita spesso di guardare il sole albeggiare dalla finestra della mia camera da letto e mai, come in questo periodo, sono stata cosi grata al canto delle rondini, al suono della sveglia di papà che deve andare al lavoro e al rumore della sua macchina che si accende mentre il sole gli splende in viso, all’odore del caffè che gusta mamma ogni mattina.
Eppure fuori dalla finestra è tutto fermo, ci sono pochissime macchine e tanto silenzio, ma ci penso io a fare rumore, io e le mie fruste del frullatore mentre circa due ore più tardi prepariamo la mia torta preferita. Il suo profumo è per me, senza alcun dubbio, il dolce risveglio di queste giornate di lockdown. Conosci bene la mia passione.
Mentre cuoce in forno accendo la TV. Non credo di essermi mai fermata a guardare il telegiornale per intero.
È straziante sapere che tante persone stanno volando in cielo senza poter nemmeno salutare i propri cari ed è ancora più devastante osservare il dolore di questi ultimi negli occhi mentre, durante un’intervista, cercano di esprimere il proprio sentimento riguardo all’impossibilità di celebrarne i funerali.
È in questi momenti che rifletto di più sulla situazione, quando non ho altre distrazioni oltre che guardare il telegiornale o leggere notizie online in merito alla situazione in Italia e nel mondo.
A volte mi sembra di vivere la scena di un film in cui siamo tutti delle comparse, ma ritorno subito alla realtà quando vedo mia sorella uscire con la mascherina e i guanti per andare a fare la spesa e quando rientra disinfettando tutto ciò che ha comprato, dopo aver lavato accuratamente le mani.
È tornata dopo circa un’ora dicendomi che c’era molta fila, ma ne è valsa la pena perché ha comprato il lievito di birra. Stasera pizza per cena, rigorosamente fatta in casa.
Mentre lei, amante della cucina, impasta, io vado in camera mia con il pezzo di torta che ho preparato e una tazza di tè per studiare.
Sento il campanello. È il corriere, ha lasciato davanti al portone un pacco. Lo apro.
Finalmente sono arrivati i libri che desideravo. È il regalo di mia sorella, quella che vive a Roma, per il mio ventesimo compleanno. Certo sono arrivati in ritardo, ma meglio tardi che mai.
Ho festeggiato il mio compleanno a mezzanotte circondata dall’amore della mia famiglia e ho ricevuto tanti messaggi da zii, cugini e amici. Non ho dato vita al party che avevo in mente, ma è stato, comunque, un giorno speciale. Sarebbe stato bello poter abbracciare tutti e spegnere le candeline anche insieme a loro e, proprio per questo, il prossimo anno sarà ancora più bello perché sono sicura che vinceremo contro questo virus.
Oggi siamo come topi in gabbia e la gabbia l’abbiamo costruita proprio noi. Noi esseri umani che non rispettiamo il pianeta che ci ospita e gli habitat che appartengono ad altre specie di esseri viventi. Penso che questo deve essere il punto di partenza per riflettere su quanto sta accadendo ed essere migliori domani.
Adesso, il domani è la possibilità di regalarci la libertà e il rispetto. Io ci credo»

— Alessia Ruggiero, 20 anni, San Giovanni in Fiore (CS)

 


«Domenica, 8 marzo 2020. Mi sto accingendo a compiere gli ultimi preparativi per raggiungere, l’indomani mattina, l’Università della Calabria, in vista dell’inizio del secondo semestre delle lezioni. Una lieve tensione comincia a farsi sentire, dovuta alla gioia di rivedere i colleghi universitari con cui, nei mesi precedenti, avevo stretto amicizia. Vado a letto con questo nodo alla gola. Non sto nella pelle.

Lunedì, 9 marzo 2020. Mi sveglio alle prime luci dell’alba, in modo da potermi preparare e raggiungere la stazione con tutta calma. Mi vesto e scendo al piano inferiore per mangiare qualcosa e per controllare di non aver dimenticato nulla. Faccio colazione e, nel mentre, “sfoglio” le ultime notizie del giornale online. Non si parla d’altro che di Coronavirus, malattia che si era, erroneamente, sottovalutata. «Aumento progressivo dei contagi in Italia», «Numero di vittime in aumento» e, infine, l’inesorabile «Emergenza Coronavirus: l’Italia diventa zona protetta». Le conseguenze sono prevedibili: attività commerciali chiuse, a eccezione di quelle adibite allo smercio dei beni di prima necessità; scuole e università chiuse, e introduzione delle lezioni online; divieto assoluto di uscire di casa, salvo per motivi urgenti di lavoro o di salute. Sembra, dunque, che il mio primo anno accademico sia giunto alla fine.

Martedì, 10 marzo 2020 – domenica, 3 maggio 2020. La prudenza non è mai troppa, è vero. E proprio per questo motivo il lockdown ha interessato anche i luoghi in cui non vi sono stati contagi, tra cui il mio paese. Da quando sono entrate in vigore tali misure, ogni giorno è trascorso all’insegna di un unico stato: la noia. Tutte le giornate sono segnate dalla solita, uggiosa routine: sveglia alle 9, funestata dal pensiero di dover passare l’intera mattinata al computer, combattendo contro i server intasati e la connessione instabile; le lezioni online, minate purtroppo dai problemi sopraccitati; un paio di passeggiate dopo pranzo sul balcone di casa, tanto per ricordarsi che odore ha l’aria; gli immancabili sospiri, causati dai piacevolissimi 24°C primaverili, ora resi insopportabili dal pensiero di dover restare in trappola tra le mura domestiche e che, in un certo senso, scandiscono la giornata. A condire il tutto, si aggiungono le due frasi ripetute fino alla nausea, i cui significati contrastano tra di loro: “Andrà tutto bene” e  “Niente sarà più come prima”.  Ma davvero niente sarà più come prima? Davvero non potremo più tornare a vivere una vita, tutto sommato, “normale”?

Lunedì, 4 maggio 2020. Ebbene sì, è finalmente giunto il giorno che tutti stavamo aspettando, come carcerati che attendono con impazienza il giorno in cui riacquisteranno, dopo tanti anni di detenzione, la tanto agognata libertà. E, sebbene nel nostro caso si sia trattato di poco più di due mesi, essi hanno avuto il peso di quasi due anni. Infatti, da oggi si entra ufficialmente nella famigerata Fase 2, che consiste in un “alleggerimento” delle misure restrittive. Tra queste, è possibile finalmente uscire di casa, pur mantenendo le misure di prevenzione illustrate nei giorni precedenti. La noia, che è stata la padrona incontrastata dei giorni precedenti, sta venendo gradualmente sostituita dalla gioia nel vedere come le strade del mio paese, e di tutta Italia, pullulano di una moltitudine di persone di differente età, genere ed etnia, ma tutte accomunate dall’indossare un particolare strumento: la mascherina. Questa, che è diventata la protagonista assoluta della pandemia, nonostante abbia il compito di distanziare, ha anche la capacità di unire: indossandola, infatti, spariscono alcuni tratti del nostro volto, comprese gran parte delle imperfezioni, rendendoci tutti uguali. Certo, ciò cambierà radicalmente gran parte delle nostre interazioni con gli altri, così come ci farà perdere un po’ della nostra individualità. Ma, in questo caso, vige il proverbio il tempo pone rimedio a tutte le cose: infatti, sarà proprio il tempo a far sì che coprire la bocca ci sembrerà normale»

—  Lorenzo, 19 anni, Trebisacce (CS), Studente di Lettere moderne

 


1) Cosa ci torna in mente e come, più frequentemente del nostro passato?
Spesso penso a quando da piccoli ci si riuniva con la famiglia, lo consideravamo un momento di festa, di gioia e Unione. Vedevamo l’unione stessa della famiglia a raccontarsi com’è andata la giornata, a ridere… I più piccoli, immersi nelle fantasie di trovare un gioco che potesse piacere a tutti. Sono questi i momenti che mi mancano. I momenti dove “la spensieratezza” prendeva il sopravvento su ogni altra cosa.
Dove “un gioco in compagnia” valeva più di stare attaccata ad uno stupido telefono, oggi.
2) Cosa rimpiangiamo?
Rimpiango il tempo perso dietro a stupide idee che mi hanno allontanato da persone importanti.
Dove uscire con le amiche era più importante di stare a casa con la famiglia.
3) Cosa ci manca di più?
Mi manca “essere”.
Essere piccola e spensierata.
Essere felice con poco.
Essere abbastanza piccola da non vedere le cose negative che si abbattono sul mondo al giorno d’oggi.
4) Come viviamo il fatto che il luogo in cui abitiamo, fuori, è diventato pericoloso, contagioso, minaccioso.
Beh, sicuramente male. Il mondo dovrebbe essere un posto sicuro per ogni essere vivente, un “posto” dove sentirsi al sicuro. Ad oggi, ci siamo trovati davanti ad una situazione molto tragica dove la nostra stessa natura ci rema contro. Ci siamo trovati davanti un bivio dove non è più possibile respirare l’aria pulita ma lo si può fare solo dietro una mascherina.
Dove uscire tutti insieme di casa è diventata quasi una minaccia ed uscire in solitario è più sicuro. Dove darsi un abbraccio è diventato quasi nocivo e restare distanti è diventato inevitabile.
Ci siamo imbattuti nella dura realtà dove migliaia di persone hanno perso la vita a causa di un virus.
5) Che effetto fa alle persone che abitano in zone ancora in lutto, il cordoglio, i rituali funebri sono elementi di relazioni familiari e comunitari e di elaborazione del dolore, vedere i morti in solitudine, lontani dagli affetti e poi sepolti senza rito funebre, religioso o laico?
La perdita di una persona cara è un momento doloroso per la vita di ognuno di noi. Ci chiudiamo al dolore, al ricordo, al cercare di trovare una motivazione per andare avanti, oggi più che mai, tutto questo sembra si sia amplificato. Perdere qualcuno in circostanze così tragiche come quelle che viviamo al giorno d’oggi è una cosa devastante. Non riusciamo a dire addio alle persone che amiamo e se lo si riesce, lo si fa davanti ad uno schermo tramite Skype dove, la nostra persona cara, si trova probabilmente in una terapia intensiva con accanto un medico o un infermiere, che, al posto nostro, cerca di dare la serenità e la pace che si cerca di dare ad un’uomo prima del suo ultimo respiro. Nelle zone rosse, sono molte le persone che si sono dovute separare dai propri cari senza dire loro addio, senza un ultimo “ti amo o ti voglio bene”, sono molti i figli che hanno perso i genitori, le mogli che hanno perso i mariti e viceversa.
File incestanti di carri che trasportano corpi di numerose persone che non hanno potuto avere una degna sepoltura. Come ci si può sentire davanti a tutto questo?
Come si può continuare a sopravvivere, giorno per giorno, davanti a tutto questo immenso dolore?
6) Che senso assume, adesso, la parola futuro?
Pensare al futuro ci da una speranza. La speranza di avercela fatta.
La speranza che un giorno, vicino o lontano, la nostra vita tornerà ad essere un po’ più  “nostra”.
Un futuro dove ritorneremo ad abbracciarci, con la consapevolezza di quanto questo gesto ci sia mancato.
Torneremo sicuramente più forti di prima, ma una cosa è certa, non dimenticheremo.
Non dimenticheremo di essere stati fortunati a continuare ad avere la nostra vita, di quanto essa sia importante, ma la cosa indelebile saranno le persone che, a differenza nostra, hanno perso la vita.
— Antonella, 21 anni, Stignano (RC), Scienze dell’educazione

Chi l’avrebbe mai detto che il nuovo anno sarebbe stato così? Ricordo il 31 Dicembre 2019, insieme a familiari e amici pronti, con il calice in mano, a festeggiare e ad iniziare insieme il nuovo anno. Non vedevo l’ora di intraprendere un nuovo capitolo, di mettermi in gioco, di portare a termine i nuovi propositi e di realizzare i miei sogni. Purtroppo, l’arrivo improvviso del COVID-19 ha fatto saltare tutti i nostri piani, le nostre certezze. Una grande ondata ha colpito il nostro paese, un virus letale che ha attaccato indistintamente neonati, adolescenti, madri, padri, nonne e nonni. Tante persone hanno dovuto lottare, trovandosi in bilico tra la vita e la morte. Si iniziava a respirare aria negativa, c’era tensione. Si passeggia per le strade della nostra città con il terrore che il virus possa, in un attimo, soffiarci via la vita. Da un giorno all’altro ci siamo trovati chiusi in casa, con il timore di quello che sarebbe potuto accadere lì fuori. Improvvisamente tutto è cambiato. Ci siamo sentiti soli con noi stessi, immersi in un lento ritmo quotidiano a fare i conti con le proprie ansie, paure, negatività che per un buon periodo sono state le uniche costanti dei nostri giorni. Le nostre abitudini e il nostro stile di vita sono cambiati radicalmente. Ogni relazione sociale improvvisamente svanita, la comunicazione con l’esterno consentita solo attraverso un misero schermo del telefono. E’ strano vedere un paese in continuo sviluppo e movimento annullarsi completamente, ci siamo trovati in una situazione più grande di noi da poter affrontare. E’ diventato estenuante anche fare la spesa, visibile l’angoscia, la tristezza e la paura negli occhi di ogni singolo cittadino. Le strade della mia città sono diventate improvvisamente fredde, come se, per un attimo, fosse svanito quel senso di libertà e serenità che ha, da sempre, caratterizzato le nostre vie e la nostra gente. Ho un senso di nostalgia, ripenso ai primi mesi trascorsi all’Unical tra sorrisi, pianti, ansie, insicurezze, gioie e dolori. Ripenso a quanto sarebbe bello ritornare lì, in quelle grandi aule e tra quei banchi con i colleghi che hanno reso unica, in soli pochi mesi, la mia esperienza universitaria. Ripenso a quanto era bella e spensierata la vita prima di questo tragico avvenimento e soprattutto a quante cose davamo per scontate senza neanche rendercene conto. Quanto erano belle le giornate trascorse in compagnia dei propri amici, quando bastava una semplice pizza e due chiacchiere per tenerci uniti e trascorrere una serata all’insegna della felicità e della spensieratezza. E’ pur vero che, questo periodo di lockdown, ha tirato fuori da ognuno lati e sfaccettature della propria persona, a noi sconosciuti fino ad ora. Per quanto la situazione, all’inizio, si sia presentata molto difficile ho deciso di trovare anche un solo spiraglio di positività, dedicandomi alla mia famiglia, alle mie passioni, allo studio e alla cura di me stessa. Avere speranza e fiducia è l’unica cosa che può farci andare avanti. La speranza che ogni cittadino faccia, nel suo piccolo, la propria parte contribuendo in una ripartenza del nostro paese. La speranza di poter tornare alla solita vita di tutti i giorni imparando ad apprezzare le piccole cose. Gli avvenimenti negativi sono essenziali, contribuiscono alla nostra formazione, ci fortificano e ci preparano ad affrontare tante situazioni difficili che la vita ci mette davanti. Sarà inevitabilmente complicato ripartire da zero, ritornare a percorrere le solite strade senza il timore che qualcosa possa intralciare il nostro cammino. E’ vero, il cambiamento terrorizza, ma, al tempo stesso, è l’unica cosa che ci spinge a voler sempre il meglio per noi stessi, per chi ci sta intorno e per il paese in cui viviamo. Che sia, questa tragica “esperienza”, un insegnamento di vita, una rinascita piena di luce.

—  Marianna, 20 anni, Rende (CS), studentessa di Lettere e Beni Culturali

 


RIFLESSIONI SUL COVID-19

«È come quando cadi. Un attimo prima va tutto bene, sei stabile, in equilibrio, sicuro di te stesso e di quello che ti circonda. Un attimo dopo, invece, sei a terra, confuso, ferito. Hai bisogno di qualche secondo per realizzare quello che è appena successo e la prima cosa che ti viene spontaneo chiederti è: riuscirò a rialzarmi? L’arrivo del Covid-19 non è stato poi così diverso. Certo, si sapeva della sua esistenza già da alcuni mesi prima che le vite di migliaia di persone crollassero come castelli di carte. Tuttavia, sembrava una minaccia lontana, forse troppo debole per mettere in ginocchio una nazione come l’Italia che, nonostante tante avversità, ha sempre combattuto per il suo popolo con le unghie e con i denti. E invece, eccoci qui, costretti a fronteggiare un nemico oscuro, che si insinua silenzioso tra la gente, moltiplicandosi e diffondendosi. Secoli e secoli di studi e di ricerche appaiono ora inutili e vani. La cultura e la civiltà occidentali, tronfie delle loro presunte, inoppugnabili certezze, si sono rivelate giganti coi piedi di argilla. Nessuno sa cosa fare e tutti dicono che sarebbe stato meglio prevenire piuttosto che curare. Ma, dopo più di 2 mesi di quarantena forzata per la maggior parte dei paesi del mondo, sono constatazioni che non fanno altro che aumentare l’amaro in bocca. La nostra vita è come un brutto sogno. Le case sembrano andare strette a tutti e chiunque percepisce la propria stanza non solo come luogo di sicurezza, ma anche di reclusione. Il balcone è oramai l’unico spazio di contatto con l’esterno e il telegiornale è un appuntamento fisso, legato a profonde speranze e segrete angosce. In famiglia il clima è pesante, gli animi sempre pronti ad esplodere come piccole bombe cariche di tensione. Internet, i messaggi, le videochiamate, i social, se prima erano importanti, adesso sono fondamentali. Costituiscono infatti quel filo sottile che ci permette di rimanere ancora, sebbene in minima parte, ancorati a quello che eravamo prima, e che forse non potremo mai tornare ad essere. La situazione che stiamo vivendo insegna quanto valore abbia la quotidianità, da sempre tanto disprezzata. Sicuramente, in tutti i momenti di disagio, si trova un certo sollievo nel sognare, nello sperare, nel programmare la nostra vita futura. E in questi casi emergono anche i rimpianti, attraverso i quali possiamo imparare a cogliere le occasioni belle che la vita offre. Pensare al passato e alle nostre “ultime esperienze” fa male: forse avremmo potuto apprezzare di più quella passeggiata, ci saremmo potuti godere di più quel pasto, avremmo potuto abbracciare più forte quella persona cara.  Sembra di essere tornati ai tempi della peste, in un mondo estremamente fragile, senza certezze né prospettive, in un mondo senza sicurezze, in cui “vivere” diventa “sperare di sopravvivere”. Le nostre testimonianze avranno valore per chi verrà dopo di noi e forse aiuteranno a sbagliare un po’ di meno. Siamo in guerra, è vero, ma in questo caso c’è un unico possibile “trattato di pace”, al quale l’umanità intera guarda con speranza: il vaccino.

“Ritorneremo alla normalità!” ripetono tutti. Ma, dopo migliaia di morti e milioni di contagi, può esistere ancora la normalità? E se pure riprendessimo, dopo tanti sforzi e sacrifici, a fare quello che facevano prima dell’epidemia, chi mai potrà dimenticare ciò che è accaduto? Nessuno entrerà più in un locale con la stessa spensieratezza di prima, nessuno sarà più totalmente spontaneo nell’accostarsi a chi lo circonda, nessuno ascolterà più qualcun altro tossire senza pensare al peggio. È questo quello che, una volta fatto il suo corso, il Coronavirus lascerà in ogni singolo uomo: tanta paura, paura che tutto possa accadere di nuovo, paura che l’incubo possa non  finire.

Scrive il poeta Giuseppe Palma:
“Eravamo la prima generazione
a non aver conosciuto la guerra,
o la peste. Ma solo la libertà.
Ora nulla sarà più come prima.

Conserveremo tutto, saremo
accorti come i nostri nonni
e perderemo la frivolezza che
avevamo. I timbri delle nostre voci
si faranno gravi. E gli occhi si
spegneranno. Per sempre”»

— Maria Francesca, 19 anni, Rende (CS), studentessa di Lettere e Beni Culturali

 


Giorno 57

nostalgìa s. f. [comp. del gr. νόστος «ritorno» e -algia (v. algia)]. – Desiderio acuto di tornare a vivere in un luogo che è stato di soggiorno abituale e che ora è lontano. Questo è il significato del sentimento che mi ha accompagnata in molte giornate durante questa quarantena dovuta al Covid-19, insieme all’angoscia, cioè uno stato di inquietudine che si ha nel perdere il proprio punto di riferimento. È proprio così, abbiamo perso la nostra quotidianità che rappresentava per noi un punto stabile, anche se spesso volevamo evadere da questa, ora la vorremmo tanto indietro. Adesso ci stiamo accorgendo di quanto manca un semplice bacio, un abbraccio o la spensieratezza di poter mangiare un gelato in compagnia dei nostri amici e stare insieme nelle piazze delle nostre città che adesso sono vuote, prive di calore umano e sono diventate dei non-luoghi. Sicuramene, il periodo della Santa Pasqua è stato per me quello che più mi ha fatto realizzare e percepire la situazione che stiamo vivendo in quanto ero fin da piccola abituata a trascorrere questi giorni di festa insieme a tutta la mia grande famiglia, era un momento di ritrovo e di serenità che purtroppo quest’anno non abbiamo vissuto. Tutte queste cose ora mancano, prima le davamo per scontato e chissà per quanto tempo ancora dovremo mantenere queste distanze a cui non siamo per niente abituati. Il cambiamento immediato che abbiamo subito è stato sicuramente destabilizzante per ognuno di noi, ci siamo ritrovati nelle nostre case come “prigionieri”, privi della nostra libertà e la casa da nido è diventata quasi una prigione. Dico “quasi” perché penso a quanto io sia stata fortunata in questa situazione, sono tra le quattro mura di casa mia, insieme alla mia famiglia e per quanto possa essere difficile è sicuramente meglio che trovarsi da soli come è successo a molti universitari fuori sede che devono fare i conti con la solitudine, alle tante famiglie che sono divise per motivi di lavoro o alle tante persone che si trovano a combattere, a causa di questa pandemia, tra la vita e la morte. In questa situazione di emergenza siamo costretti a riflettere sulla nostra vita, ad interrogarci sul nostro futuro, ad ascoltare noi stessi, i nostri pensieri e le nostre emozioni. “Quando tutto questo sarà finito non saremo più gli stessi!”, è un’affermazione che sento spesso, saremo più diffidenti nei confronti degli altri, o forse saremo più comprensivi? Saremo persone migliori o peggiori? Non saprei rispondere a queste domande, una cosa è certa dovremo adattarci ad un nuovo modo di vivere e di relazionarci. Mi auguro che da questa emergenza si esca al più presto e con consapevolezze maggiori, spero ci porti a capire che le piccole cose sono quelle importanti e che la libertà ha un valore inestimabile.

Annarosa, 22 anni, Cosenza, studentessa di Scienze dell’Educazione

 


Il valore dei ricordi  

In questo “tempo senza tempo” in cui le giornate trascorrono inesorabili le une uguali alle altre e in cui le albe e i tramonti continuano ad alternarsi con un moto antico ed eterno, il solo ingrediente ad alimentare il nostro spirito e a fornirci un sostegno contro gli abissi dell’oppressione sembra essere il ricordo dei momenti passati.

In un contesto di dolore e smarrimento quale quello che stiamo vivendo, ritengo degna di nota un’iniziativa “di incontro con gli altri” nata paradossalmente e in maniera del tutto spontanea in un gruppo Facebook del mio paese, San Giovanni in Fiore (CS).

Tutto è iniziato quando un membro del gruppo ha pubblicato una vecchia foto in bianco e nero, scattata nel 1971 e raffigurante un punto nevralgico del paese conosciuto come “Maronnella” (per via di una statua della Vergine collocata all’interno di una nicchia).

E’da sempre un luogo di incontro e lo scatto me ne ha dato testimonianza: moltissime generazioni nel corso dei decenni si sono incontrate alla “Maronnella” per bere un caffè nei freddi pomeriggi invernali, per mangiare un gelato nelle torride giornate estive, per chiacchierare, confrontarsi, ritrovarsi.

Da sempre sono stata affascinata dalla spontaneità di questi incontri soprattutto nei decenni in cui la tecnologia non aveva ancora fatto la sua comparsa; ricordo il mio bisnonno Francesco che, nonostante il peso dei 90 anni, non mancava mai agli incontri quotidiani alla Maronnella, come se dovesse assolvere ad una tacita ritualità. Indossata la sua inseparabile coppola, ogni pomeriggio, attorno alle 15.00 diceva: «Vaiu alla Maronnella» (Vado alla Maronnella) e si incamminava: era sicuro che lì avrebbe trovato i suoi amici o che avrebbe comunque trovato qualcuno con cui parlare, con cui condividere i dolorosi ricordi della guerra che aveva vissuto in prima persona, della prigionia in Albania, della fame, del proiettile che aveva squarciato la sua pelle lasciandolo, per un colpo di fortuna, vivo; lì avrebbe potuto parlare di politica, dei tempi in cui era bambino, dei suoi genitori, di quando ha iniziato a fumare le Nazionali senza filtro; lì, ogni pomeriggio, avrebbe rivissuto momenti importanti della sua vita.

Quello scatto in B/N, privo di colori eppure così vivido, ha innescato una reazione a catena per cui, nell’arco di pochissimi giorni, centinaia di vecchie foto sono state pubblicate, accompagnate da una breve descrizione contenente indicazioni sulle persone e sui luoghi immortalati.

 Ho avuto dunque la fortuna di ammirare momenti di vita vissuta che le fotografie hanno consegnato all’eternità: scene di festosi banchetti, ritratti di famiglia in cui spesso mancava la figura paterna soprattutto nel periodo della grande emigrazione alla ricerca della fortuna; donne giovani, fiere e coraggiose ma con un velo di tristezza negli occhi per la responsabilità di dover tirare su la famiglia da sole, con i mariti lontani, senza che potessero riceverne notizie per mesi interi.

Questi occhi, nonostante la fissità delle fotografie, sono per me libri aperti, mi riportano in tempi remoti che non ho mai vissuto ma che posso ritrovare attraverso i racconti delle mie nonne che con la forza di un uragano hanno cresciuto i loro figli facendo le veci di padre e madre.

Molte sono poi le foto dei bambini con i capelli al vento, gli sguardi vispi, gli abiti stropicciati e mi colpisce il fatto che siano state scattate quasi tutte all’aria aperta. Immagino le strade oggi deserte (semivuote anche prima del virus a causa dello spopolamento che ha colpito i paesi del Sud negli ultimi anni) un tempo animate da colori, profumi, sentimenti.

Proprio le strade, le viuzze, i vicoli erano sfondo principale della vita di tutti quanti e diventavano una sorta di continuità della casa: erano luogo di ritrovo, di conforto, di confronto; immagino le donne che si riunivano fuori dalle abitazioni per recitare il Rosario e altre preghiere antiche, per ricamare il corredo da dare in dote alle proprie figlie, per tessere una rete di amore sincero, di affetto indistruttibile, di solidarietà spassionata; immagino un visibilio di bambini liberi di giocare insieme rincorrendo le ultime luci del giorno, penso agli uomini, ai pochi rimasti, che potevano condividere vecchie storie davanti ad un bicchiere di vino e ad un tozzo di pane (frutti di un lungo e faticoso lavoro).

In questo periodo di spaesamento il valore di queste fotografie è inestimabile: sono più efficaci di qualsiasi unguento miracoloso, hanno il potere di lenire le ferite dell’anima più di qualsiasi medicinale.

Ritrovare e osservare questi scatti è un modo per scongiurare la crisi della presenza che in questo momento storico particolare incombe minacciosa; questi momenti sospesi nel tempo rappresentano il nostro “Campanile di Marcellinara”, il nostro punto di riferimento, le nostre radici, le nostre memorie; ci ricordano com’eravamo e come siamo cambiati ma soprattutto, durante l’isolamento a cui siamo costretti, rappresentano la possibilità di evadere dall’oppressione grazie alla mente.

Attraverso le foto partecipiamo, seppur non fisicamente, ai momenti ritratti: viaggiamo in tempi lontani immaginando la vita e i ritmi di allora, vediamo i nostri cari da bambini e immaginiamo di giocare insieme a loro, li vediamo poi adulti e in un attimo veniamo catapultati davanti ad una tavola imbandita o ad un fuoco acceso a conversare con loro della giornata trascorsa, delle aspirazioni future, dei progetti in cantiere; attraverso le foto rivediamo persone che ci hanno lasciato ma che sono presenza viva nei nostri cuori. Ogni singolo scatto va a costituire la storia di un paese, di una comunità, le fotografie sono parte delle nostre storie, sono memorie intime da custodire con cura ed ecco perché ritengo che nel condividerle ci sia un atto di grande altruismo e generosità.

L’iniziativa, apparentemente insignificante ma di incommensurabile valore, nata spontaneamente su un gruppo di una piattaforma social si è per me dimostrata una prova evidente di come anche in un momento di prova possa nascere qualcosa di bello, capace di aprire i cuori e di permetterci di ritrovare noi stessi e la nostra identità.

«Nessun maggior dolore che ricordarsi del tempo felice nella miseria » scrive Dante nel V canto dell’Inferno e senza dubbio è vero che pensare agli attimi di felicità in un presente doloroso ci rende ancora più tristi ed insofferenti; è vero che pensare al passato ci rende nostalgici perché, come dice Kant, la nostalgia non ha tanto a che fare con un luogo perduto ma con un tempo perduto; ma è altrettanto vero che il ricordo dei tempi passati può avere anche un effetto diametralmente opposto: l’allegria, la serenità, la spensieratezza del passato possono compensare, seppur modestamente, l’infelicità e il disagio attuali alimentando la speranza di poter vivere, in futuro, momenti altrettanto intensi e veri.

Certo, queste parole, in un momento strano e difficile come quello che stiamo vivendo costituiscono una magra consolazione ma questo non può essere il tempo della superficialità per cui è nostro dovere esplorare gli impervi sentieri dell’animo e andare alla ricerca di noi stessi, per non smarrirci, per evitare di ritrovarci naufraghi impauriti su un’isola deserta, per non perdere la speranza.

 

Caterina, 21 anni, San Giovanni in Fiore (CS)

 


‘È ora di alzare gli occhi al cielo!’

È notte fonda, sono distesa nel letto della mia cameretta, fisso il soffitto e mi immergo nei pensieri. Non riesco a dormire, come d’altronde da quasi due mesi.

Penso a questo 2020, a quello che sarebbe dovuto essere un anno speciale, un anno di cambiamenti: in questo preciso momento sarei dovuta essere su un aereo, diretta verso​ Valencia a svolgere un progetto Erasmus.

Da mesi immaginavo il giorno della partenza: valigie piene di vestiti, costumi, scarpe, ma soprattutto di gioia, speranza, di curiosità, di voglia di imparare e di sete di conoscenza.

Continuavo ad immaginare l’esperienza che avrei vissuto, finché non arrivò il 9 marzo.

Ufficialmente il paese era in lockdown.

Ansia, terrore, rabbia, paura, insonnia, nostalgia e tristezza: ecco gli stati d’animo che hanno caratterizzato questo periodo di quarantena.

Non è stato facile affrontare questi mesi, in cui la nostra vita è stata stravolta.

Non vedevo più i colori: era arrivata la primavera, ma dentro il mio cuore regnava l’inverno con la tempesta e il vento feroce.

Fuori c’era il sole, il silenzio insopportabile, ma dentro di me il buio e un chiasso indomabile.

Ero arrabbiata.

Arrabbiata con questo virus invisibile che ha interrotto le nostre vite: ha interrotto la nostra quotidianità, ha interrotto la spensieratezza dei bambini, ha interrotto il lavoro di madri e padri​ portandoli alla paura di non riuscire a dare pane ai loro figli, ma soprattutto ha interrotto per sempre la vita di migliaia di persone.

Un’immagine indelebile è fissa nei miei occhi: l’immagine scattata a Bergamo che ritrae dei camion dell’esercito con le spoglie delle persone che il Covid-19 ha portato via.

Un’immagine che segnerà la storia insieme a quella di Papa Francesco​ in preghiera, da solo, in una San Pietro deserta. Una scelta senza precedenti, quella del Pontefice, che​ ha voluto pregare per la fine della pandemia, pronunciando la benedizione Urbi et Orbi.

Questo mostro ha stravolto tutto ma soprattutto ci ha allontanati dalle nostre persone più care: ho sofferto nel vedere mia sorella e mia nipote in uno schermo e non poterle abbracciare​ e mi sono emozionata nel sentire Teresa, mia nipote, dire ‘Simo, andrà tutto bene! Mi manchi, ma quando il Coronavirus andrà via ci riabbracceremo forte’.

Ho sofferto nel non poter trascorrere del tempo con le mie migliori amiche, con le quali mi sentivo in videochiamata quasi ogni giorno, per accorciare le distanze.

Ho sofferto nel non poter essere nelle aule dell’Unical, con i miei colleghi, a prendere un caffè nella pausa, a desiderare la fine della lezione perché distrutta dalla giornata piena.

Ho sofferto nel non poter ridere, scherzare, piangere, festeggiare con la mia coinquilina, con la quale ho condiviso quei cinque mesi meravigliosi a Cosenza.

Ho sofferto per la mancanza del mare, del suo profumo e della dolce melodia delle sue onde: l’unica cura al mio malumore.

Ho pianto vedendo gli occhi di mio padre e di mia madre preoccupati mentre ascoltavano i numeri dei morti, catapultati nell’incertezza di un domani.

Ma il 4 maggio è iniziata la tanto attesa fase 2 che finalmente mi ha permesso di rivedere mia sorella, mio cognato, mia nipote e i miei nonni e mi ha permesso di tornare a osservare il mare.

Ho camminato per tutto Pizzo, il mio piccolo paese e​ un velo di tristezza mi ha attraversata vedendo i luoghi in cui sono cresciuta vuoti e silenziosi.

Arrivare in piazza e vedere il bar in cui mi riunivo con gli amici, vuoto, senza nessuno che cantava, urlava di gioia, senza nessuno che si perdeva osservando il salotto di Pizzo.

Poi sono arrivata alla Marina: mi sono fermata un attimo e ho osservato il mare che, come solo lui sa fare, mi ha calmato.

E lì, la tempesta che albergava nel mio cuore ha fatto spazio alla primavera, le nuvole hanno fatto spazio al sole e la tristezza è stata sostituita dalla speranza.

È stato in quel momento che ho capito che noi tutti ci rialzeremo, magari più diffidenti, magari con più paure, magari più sofferenti, magari con il cuore un po’ più fragile, ma CI RIALZEREMO.

È ora di alzare gli occhi al cielo e di ricominciare a vivere, perché come diceva Ungaretti

‘Dopo tanta​ nebbia

Una ad una

Si svelano le stelle’

 

Simona, 20 anni, Pizzo (VV), studentessa di Lettere e Beni Culturali.

 


«”PASQUA: DAL PASSATO AL PRESENTE” | La celebrazione della Pasqua non è caratteristica solo dei paesi ma può essere particolare anche in città, soprattutto nel centro storico dove, in fondo, si vive una vita più comunitaria e di aggregazione.
In questo tempo viviamo qualcosa che ci scuote e turba le nostre coscienze, permettendoci di riflettere e di conoscere noi stessi profondamente. Le abitudini vengono stravolte e così i riti delle feste. Analizzando il Giovedì Santo, nel contesto della mia Parrocchia San Francesco d’Assisi di Cosenza, mettere in atto la classica funzione è stato quasi “impedito”. In una situazione di normalità il primo segno è rappresentato dalla lavanda dei piedi, effettuata con la presenza di conoscenti e amici del quartiere, proprio a testimoniare l’autentico legame che univa Gesù agli apostoli.
A seguire, anche se solo all’interno della Chiesa, la processione verso l’Altare della Reposizione. Il Signore, posto nel tabernacolo dalle stesse mani del suo vice sulla terra, il sacerdote. La comune preghiera inginocchiati davanti all’Altissimo accomuna e unisce tutti i presenti. Alla sera, la veglia che si rifà alla preghiera nel Getsemani, diventa intima e popolata di credenti che visitano i Sepolcri allestiti a festa per l’occasione, con manti rossi che rappresentano la passione, ulivi in segno di pace, candele e il famoso grano germogliato nei 40 giorni di Quaresima a partire dal Mercoledì delle Ceneri, come ad attestare la rinascita. Così si passa al Venerdì Santo, giorno di silenzio e attesa, dove protagonista è la Croce e tutti i suoi dolori. Il Sabato Santo, benedizione di acqua e fuoco, inizio del vero e proprio periodo liturgico fino all’attesa della mezzanotte che conduce alla Domenica di Resurrezione. Inutile sottolineare la convivialità di tali momenti che accomunano lo stesso “sentire”. Tutto si è fermato l’11 Marzo 2020, gli altari restano completamente nudi. Il rispetto della morte si esplica con l’assenza di addobbi. I fedeli restano soli nelle proprie abitazioni. I vescovi italiani, concordi con il Santo Padre, Papa Francesco, hanno stabilito che le celebrazioni includessero sacerdoti e pochi collaboratori per garantire un minimo di dignità alla funzione. Perciò, ritrovando amici e colleghi di sempre, ci si sente completamente spaesati nel non poter più scambiare un saluto che per noi del Sud risulta necessario. Mortificante è l’ingresso in quella che reputi casa, con l’ausilio di mezzi atti a proteggere da oggetti e persone. Si avverte un senso di vuoto, di smarrimento, nessun augurio, nessuna contentezza, solo tanta riflessione e preghiera. Chi ci dice che questa non sia effettivamente la Pasqua più vicina a Cristo?
Nell’attestazione fotografica (nella sezione Media) vengono riportate alcune immagini a confronto di ciò che era l’altare della reposizione negli scorsi anni, e ciò che è stato qualche giorno fa. Le immagini fanno riferimento agli anni 2019 e 2020, scattate da Anna Leonetti all’interno della Parrocchia di San Francesco d’Assisi, sita in Cosenza»
Anna, 26 anni, Cosenza, Corso di laurea in Scienze dell’Educazione

«Siamo nel 2020, anno in cui si credeva che le auto fossero in grado di volare, che tutto fosse migliore e invece no. Tutto è un disastro.

Penso alla notte di Capodanno, notte speciale, notte in cui ansia e speranza prendono il sopravvento. Rimani lì ferma, felice e curiosa, a pensare cosa questo nuovo anno ti riserverà, ignara di tutto.

Trascorrono i giorni e i media iniziano già a fornirci delle notizie negative: i ghiacciai iniziano a sciogliersi a causa dell’inquinamento, l’Australia “brucia”, tanti animali muoiono, ma soprattutto una notizia inizia a circolare: la diffusione di un nuovo virus, non uno qualunque, ma l’ormai celebre “Coronavirus”.

Inizialmente, tutto sembrava lontano, troppo lontano per poter divenire realtà, ma sono bastate poche settimane a farci cambiare idea, a farci capire che non si trattava, poi, di una così semplice influenza, perché è così che si manifesta, ma di una vera e propria catastrofe.

Una guerra, diversa da quella che avevamo studiato sui libri di storia, “una guerra senza armi” ci stava travolgendo.

Primo caso nella città di Codogno: l’Italia trema e inizia ad avere realmente paura. Nel giro di poche settimane cambia la nostra vita, cambiano le nostre abitudini e ciò che prima davamo per scontato ora non lo è più.

Improvvisamente, il mondo si ferma, tutto intorno a noi è immobile: non ti svegli più la mattina con quella paura di far tardi a lezione, con la voglia di incontrare i tuoi amici, prendere un caffè con i colleghi al bar, stare con il fidanzato, trascorrere le giornate tra sbadigli e schiamazzi. Nulla sembra più normale, ed è ora che capisci che queste “cose banali” che poi tanto banali non sono ti mancano.

È passato più di un mese ormai da quando l’intera nazione è in quarantena;

All’inizio l’idea di stare chiusa in casa per così tanto, troppo tempo mi terrorizzava, con lo scorrere dei giorni, ne ho capito realmente il senso. Sono andata oltre, pur avendo trascorso i primi giorni nell’apatia più totale.

Ho imparato a conoscere meglio me stessa, riscoprendo la bellezza dei piccoli gesti, delle piccole cose, della quotidianità, cose ritenute fino a pochissimo tempo fa superflue.  

Ho riscoperto il piacere del sabato sera in famiglia, tutti riuniti a far la pizza, tradizione quasi soppiantata perché tutti noi davamo ormai la precedenza ai sabati sera con gli amici.

Passano le settimane: io come tantissimi altri ragazzi, comincio a dare spazio ad un nuovo sentimento: la nostalgia. Ripercorro i momenti, gli attimi, percepisco la mancanza dei nonni, degli amici, inizia a mancarmi la spensieratezza dei miei 20 anni.

Ancora una volta, però, internet sembra salvarci, ci fa da supporto. In questo periodo si scoprono i vantaggi connessi all’uso della tecnologia; è proprio grazie ad essa che le persone ormai lontane hanno la possibilità di sentirsi un po’ più vicine: ci si scambia messaggi, email, le videochiamate sono più frequenti, sono molte, infatti, le ore che noi ragazzi passiamo al cellulare, davanti ad uno schermo cercando di colmare le distanze.

Anche la Pasqua quest’anno non è stata più la stessa, non è stato possibile seguire i riti e le tradizioni religiose ripetute ogni anno e di questo ne abbiamo sofferto tutti quanti. Io, personalmente, vivo in un piccolo borgo in provincia di Vibo Valentia, Soriano Calabro, un paese in cui la Pasqua è molto sentita; infatti, è noto anche per la cosiddetta “comprunta” che è un rito religioso che consiste nell’incontro tra Gesù risorto, la Madonna e Giovanni Apostolo, una consuetudine di cui Soriano per la prima volta ha dovuto fare a meno.

Nonostante tutti questi sacrifici, ciò che realmente mi sconvolge, però, è ascoltare in televisione il numero spropositato dei contagiati e dei morti; a fare realmente paura nel toccare tale situazione con mano è comprendere che in realtà non si tratta di semplici numeri ma di madri, padri, figli addirittura neonati che cercano di lottare con tutte le proprie forze contro questo male terribile, da soli in una vuota stanza di ospedale senza il calore dei propri familiari, morire senza dare l’ultimo abbraccio alle persone che ami pensando costantemente con spavento alla morte. Neanche per i familiari è semplice, costretti a rimanere a casa impotenti, con il terrore continuo che il cellulare squilli da un momento all’altro e riporti la tragica notizia che il proprio congiunto non ce l’abbia fatta. La morte entra spietata nelle nostre case indistintamente che tu sia giovane, anziano, ricco, povero, buono o cattivo, di nazionalità italiana o cinese, ti colpisce e lascia un vuoto incolmabile.

In semplici parole possiamo dire che questo 2020 o meglio questa pandemia globale ci ha messo a dura prova, ci ha permesso di capire che l’uomo non è così potente come crede di essere, che la vita non è poi così scontata, che tutto ciò che abbiamo di più bello può essere distrutto in un solo secondo, che le cose importanti non sono i beni materiali i quali rendono l’uomo avido, ma la vera felicità sono l’amore, gli abbracci, i sorrisi, i valori che avevamo dimenticato.

Personalmente, spero che questo “mostro” venga distrutto, che presto possa tornare la normalità, che si possa uscire di casa senza paura, ma soprattutto mi auguro che alla fine di tutto ciò l’uomo NON DIMENTICHI e continui ad essere solidale come in questo momento»

— Nicole, Soriano Calabro (VV)

 


«Io vivo in un piccolo paese di montagna, Solano, in provincia di Reggio Calabria. È un paese di 600/700 abitanti circa. È così piccolo che tutti gli abitanti si conoscono tra loro, caratteristica che amo fortemente del mio paese. Solano è amministrativamente suddiviso in due comuni: Solano Superiore, facente parte del comune di Scilla; e Solano Inferiore, facente parte del comune di Bagnara Calabra. È un paesino che non offre molte attività. Vi sono due bar; un tabacchino; tre piccole botteghe di alimenti (che non offrono tutti i prodotti di cui si necessita); vi è una farmacia; una macelleria; due asili per l’infanzia; una piccola piazza, in cui solitamente si ritrovano i bambini per giocare insieme; una scuola elementare e media; uno studio adibito per il medico; e due Parrocchie (Maria Santissima del Carmelo e Maria Santissima delle Grazie). Ecco, come vede le attrattive e le attività non sono tante però sono quelle che mantengono il nostro paese in vita. In questo periodo la chiusura di gran parte di esse, ha portato solo tanta monotonia e silenzio.

La presenza dei bar allietava gli uomini e i ragazzi più grandi del paese, che potevano decidere di andare a fare una partita a carte consci di trovare lì l’amico con cui giocare e scambiare due chiacchere su vari argomenti: politica, calcio, figli, lavoro. In estate venivano fatti anche dei tornei di carte, in cui coppie di giocatori si sfidavano tra di loro per decretare un vincitore, che alla fine avrebbe vinto un premio. Il premio si decideva al momento e per lo più era cibo, come grandi quantità di carne che venivano divise tra la coppia vincitrice del torneo. L’anno scorso i vincitori avevano deciso di condividere il premio con tutti gli altri partecipanti, organizzando una serata di “panini farciti” proprio al bar. “L’avarizia” è una delle tante parole sconosciute nel mio paese, ed infatti quella sera ognuno prese prodotti fatti nelle proprie case o attività. Olio d’oliva, direttamente dagli ulivi del paese; formaggi e latticini vari, provenienti dall’Aspromonte; salame; vino; nduja… Inizialmente tutto ciò doveva coinvolgere solo i partecipanti, ma poco dopo non si faceva più nessuna distinzione e chi voleva poteva andare a mangiare e farsi quattro risate con “gli amici del bar”. Si mangiava, si brindava, si scherzava, ci si abbracciava. Chissà se i miei compaesani torneranno, quest’estate, a fare il torneo; chissà se si stringeranno la mano, in segno di saluto, quando arriveranno nella combriccola davanti al bar; chissà se condivideranno la stessa bottiglia di birra, non importandosene della saliva altrui sul bordo; chissà se torneranno a sedersi tutti vicini nei tavolini, mentre gli spettatori staranno pochi centimetri dietro… chissà.

E se il bar era un ritrovo di svago per gli uomini e per i ragazzi più grandi, per le donne lo erano le botteghe alimentari e le parrocchie. Nelle botteghe alimentari si trovava qualsiasi tipo di donna. C’era la casalinga che doveva scappare perché aveva lasciato i figli con il marito, ed era preoccupata di non ritrovare intera la casa; la donna che badava alla madre novantenne e le stava facendo una misera spesa; la bambina, mandata dalla madre con apposita lista, che chiedeva alla proprietaria se ci fossero tutte le cose scritte sul pezzo di carta … Ma il vero boom di vendite era il sabato (giorno prima della domenica). Il sabato si scatenava l’inferno in quegli spazi così piccoli, che al massimo potevano contenere 10 persone, ma proprio quel giorno superavano il limite consentito perché le donne erano affaccendate a cercare gli ingredienti mancanti per il pranzo della domenica. E così il sabato alle sei di pomeriggio, le botteghe erano già piene. Le clienti aspettavano minuti interminabili nella fila, perché ovviamente c’era solo una cassiera a fare il conto. Eppure non era un’attesa snervante perché tutte si lasciavano coinvolgere da pettegolezzi e da vicende che si scambiavano felicemente, e il tempo passava in fretta. Aspettavano pazienti il loro turno, una affianco all’altra con pochi centimetri di distanza, mentre le loro chiacchiere e le loro risa si mescolavano. La domenica arrivava in fretta, ma non era una vera e propria domenica se non si andava a messa. Così le donne, ma non solo, si recavano in chiesa per ascoltare la parola del Signore.

“Senza Cristo siamo condannati ad essere dominati dalla stanchezza del quotidiano, con le sue preoccupazioni, e dalla paura del domani. L’incontro domenicale con il Signore ci dà la forza di vivere l’oggi con fiducia e coraggio e di andare avanti con speranza. Per questo noi cristiani andiamo ad incontrare il Signore la domenica, nella celebrazione eucaristica”. Queste parole sono state dette da Papa Francesco nella catechesi, quando spiega il perché dell’andare a messa e credo che proprio loro spieghino perfettamente il motivo per cui ci recavamo a messa la domenica.

Purtroppo adesso non è più possibile né andare a messa, e né incontrarsi nella piccola bottega con le compaesane. La messa in chiesa è stata sostituita dalla diretta del sacerdote attraverso social network, in cui l’unico modo per partecipare direttamente alla liturgia è quello di lasciare un “like” al post. Quest’anno non si son potuti tenere nemmeno i diversi riti che venivano fatti durante la Settimana Santa, come: la benedizione delle palme, o dei rami d’ulivo, la domenica prima di Pasqua; la lavanda dei piedi che si teneva il giovedì (in cui il sacerdote lavava i piedi a dei nostri compaesani, così come Cristo lo aveva fatto nell’ultima cena con gli apostoli); la via crucis era il venerdì, e si svolgeva nelle diverse vie del paese fermandoci ad ogni stazione (che si trovava in tanti punti sparpagliati delle strade); il sabato, invece, veniva celebrata la veglia pasquale; e la domenica c’era la vera e propria messa di Pasqua. Io ed i miei compaesani, quest’anno, abbiamo seguito tutto in tv in diretta streaming, non potendo partecipare attivamente ai vari cerimoniali.

E per quanto riguarda la vendita nelle botteghe, possono entrare solo due persone alla volta (rispettando sempre le norme attive, quindi: mantenere un metro -o due- di distanza; utilizzare mascherine e guanti). Nessuna chiacchiera o pettegolezzo tra donne, nessun contatto, solo tanta paura per ciò che sta succedendo.

Adesso tutti questi momenti sembrano così lontani. L’arrivo del Coronavirus ha portato numerosi cambiamenti nella quotidianità di ognuno di noi. Stare a casa, per me, non è di certo un problema. Ho i miei genitori qui con me, due persone meravigliose e amorevoli; le mie sorelle, che aiutano ad alleggerire il clima pesante; e mia nonna, che vive insieme a noi. Il mio tempo lo passo studiando, guardando qualche film, dedicandomi a vari hobby (come la lettura e la pittura, sto cercando anche d’imparare una nuova lingua da autodidatta), ma soprattutto conversando insieme alla famiglia. Nel corso della giornata discutiamo varie volte su vasti argomenti, quali la cucina, la politica, la musica, i film da vedere che possano piacere a tutti… Molte volte sentiamo la mancanza di vederci e passare del tempo insieme agli altri parenti, e così non perdiamo tempo e ricorriamo all’unico modo disponibile per vederci: le videochiamate.

Così ci ritroviamo con un computer davanti, che trasmette sei riquadri. Impazienti ed euforici di vedere i nostri parenti, attendiamo che accettino la chiamata. Ovviamente c’è sempre qualcuno che sbaglia ed invece di accettare la chiamata, finisce per annullare, ma subito viene aggiunto nuovamente. Quando tutti accettano, inizia il bello. Nei sei riquadri, uno è occupato da noi, mentre gli altri cinque mostrano i volti di zii e cugini, anche loro felici di vederci. Iniziamo a parlare, e tra un racconto che fa ridere fino alle lacrime e una connessione interrotta, riusciamo a passare due ore buone insieme alla loro compagnia.

In questi momenti è come se mi liberassi da un peso che mi opprime. Non penso a nulla in questi momenti, solo a ridere delle vicende raccontate e far ridere gli altri componenti della videochiamata. È un modo per combattere le distanze poste, e per mantenerci sempre connessi al resto della famiglia. È bello poter raccontare, e farsi raccontare, la quotidianità. Sono momenti che, almeno per quanto mi riguarda, ti lasciano alle spalle preoccupazioni o sofferenze. Le videochiamate insieme alla famiglia sono piacevoli e belle, ma quelle insieme agli amici sono vero e puro divertimento. Io ed il mio gruppo di amici (composto da 8 persone sparse tra frazioni di Bagnara e Brescia) abbiamo stabilito un giorno fisso per fare le nostre videochiamate: il sabato. Abbiamo scelto il sabato perché è l’unico giorno in cui non abbiamo lezione, e disponiamo di molto più tempo. La nostra videochiamata inizia alle cinque di pomeriggio e finisce all’ora di cena, per poi riprendere dalle dieci fino a quando il sonno ha il sopravvento su di noi. La settimana scorsa, io e gli altri due superstiti, siamo andati a dormire alle sei del mattino. Stanchi e assonnati, ma felici. Queste videochiamate sono spontanee, spassose e appassionanti. Iniziamo la videochiamata raccontando, uno per volta, come ha vissuto quella settimana, e poi inizia il vero e proprio delirio. Scherziamo, cantiamo, balliamo con cuscini o con quello che troviamo in camera nostra, ridiamo fino a piangere. Niente e nessuno (nemmeno una pandemia, che vuole portare solo tanta paura e sofferenza) potrà mai spezzare il legame che ci unisce. Questa battaglia sarà vinta da noi. Questi sono i momenti che preferisco in assoluto.

Nonostante, a casa si parli di qualsiasi cosa, tutto si ricollega alla causa della nostra clausura, ovvero, questo virus. Anche se ci teniamo tutto il tempo impegnati, oppure parliamo di altro, è inevitabile non pensare a cosa succederà domani. Viviamo costantemente con il timore che il numero dei contagiati aumenti, e che magari tra questi ci sia un nostro parente o amico. Sono giovane, non dovrei preoccuparmi di questo virus, almeno è quello che tutti dicono.

“Muoiono solo gli anziani, di cosa ti preoccupi tu”, ecco ciò che mi viene detto (anche da alcuni miei stessi coetanei). In questo caso non so se avere paura del virus, oppure, paura dell’ignoranza e della strafottenza di questi individui. Prenderla molto alla leggera significa non capire la pericolosità di questo virus. Fregarsene delle ordinanze non significa essere ribelli e “liberi”, ma significa mettere in pericolo la propria vita e quella dei nostri cari. La libertà non è far quello che si vuole, come si vuole. La libertà è essere liberi dalla paura. In questi momenti tutti abbiamo paura, cosa molto comprensibile, ma ovviamente la paura non deve diventare panico e influenzare la nostra vita. Dobbiamo sfruttare la paura per mantenerci vivi e lucidi, non per lasciarci annegare nella disperazione e nella tristezza. Quello che faccio io e che consiglio di fare, per non farsi sopraffare dal panico, è quello di usare i social con cautela. Bisogna informarsi correttamente, evitando quindi quelle notizie che creano solo panico e ansia.

Io cerco sempre di vedere il lato buono delle cose, anche in momenti difficili come questo. Credo che questo momento sia un’ottima occasione per riscoprire il valore della gratitudine, dello stare insieme, del condividere. La velocità con cui si viveva prima, ad un tratto si è fermata. Adesso abbiamo molto più tempo da passare insieme alla famiglia, dialogando e riscoprendosi. Oggi, per salvaguardare noi stessi ma anche per salvare gli altri, basta stare a casa. È una guerra che può essere combattuta dal divano di casa nostra. Uno dei tanti slogan del periodo, per invogliare la gente a stare a casa, è quello detto dal nostro Presidente del Consiglio, Giuseppe Conte: “Rimaniamo distanti oggi per abbracciarci domani. Fermiamoci oggi per correre più veloci domani”.

Oggi restiamo a casa, per lottare in un domani ricco di sorprese e novità. Un domani che ci sorprenderà con le piccole cose della vita, come può essere riabbracciarsi o stringere la mano a qualcuno senza aver timore. Mi piace pensare a tutto ciò che potrò fare quando tutto questo sarà finito. Pensiamo a quando potremo tornare per le strade spensierati e felici; pensiamo quando potremo stare vicini senza il terrore che la persona accanto sia positiva ad un qualche terribile virus; pensiamo a quanti viaggi, alla scoperta del nostro meraviglioso mondo, potremo fare; pensiamo a quando potremo fare tutto quello che ci è stato vietato adesso di fare. Pensiamo che tutto questo finirà solo grazie al nostro senso civico e al nostro essere “italiani”»

— Beatrice, Solano (RC), studentessa di Lettere e Beni Culturali

 


«Il primo caso accertato di infezione da Coronavirus avviene a Wuhan, in provincia di Hubei.

Osservavamo dal nostro Paese in modo distaccato il propagarsi di questo contagio. La situazione peggiorava e noi senza alcuna preoccupazione continuavamo a spingere… ad andare avanti… credendo che non potesse mai interessarci direttamente ed arrivare ad una catastrofica “pandemia”.

Analizzavamo lo sviluppo di questa tragedia con distanza.

Era una realtà che non ci riguardava, ci sentivamo “sicuri”, quasi prigionieri delle nostre vite frenetiche.

I casi aumentavano in maniera smisurata e noi, sempre più ignari di ciò che stesse accadendo, banalizzavamo l’andamento del virus, considerandolo alla pari di una semplice influenza.

È il 23 Febbraio 2020, nel nostro Paese, un italiano, non uno “straniero”, non un anziano, bensì un UOMO trentottenne risultava positivo al coronavirus.

Se ritorno con la mente a pochi mesi fa, la preoccupazione iniziava a farsi intravedere. Un po’ tutti ci interrogavamo: “Adesso cosa succederà?” – “Si tratta solo di un caso isolato?”

La mia vita, come quella di molti altri, procedeva regolarmente ma con una sensazione diversa, nuova. Provavo una sorta di “diffidenza” e “sospetto” ogni volta che incontravo un volto estraneo. La paura verso l’altro, che prima non avevo mai provato, iniziava ad annidarsi dentro me.

Ancor prima che venisse emanato il primo decreto di una lunga serie, il mio comportamento e quello della mia comunità rimaneva, d’altro canto, irresponsabile ma la realtà è che nessuno immaginava di ritrovarsi nella catastrofica situazione che stiamo vivendo adesso.

E cosi il rito del Carnevale, che in molti altri paesi della Calabria era stato sospeso, nella mia cittadina, Amantea, riceveva il via libera, dopo anni di assenza.

L’allegria dei carri allegorici che sfilavano per le strade, accompagnati dalla spensieratezza dei ragazzi, era quasi una sorta di stacco dalla tragica realtà. Indubbiamente si percepiva già un’atmosfera anomala, rientrando a casa il mio primo pensiero era aggiornarmi sull’andamento del contagio.

Arriviamo alla fatidica data dell’8 Marzo. In serata, il nostro Presidente del Consiglio Giuseppe Conte appariva nei televisori delle nostre case e annunciava delle disposizioni a cui tutti dovevano attenersi: ci chiedeva di sospendere per un periodo provvisorio tutto ciò che faceva parte delle nostre instancabili vite, eliminando qualsiasi tipo di contatto sociale. Ed è cosi che tutti noi ci siamo ritrovati a convivere in una realtà estremamente diversa, dove l’unico spazio “sicuro” erano e sono ancor oggi le mura delle nostre case, che ci dividono fisicamente da amici, colleghi di università, professori, persino dai nostri affetti più intimi.

L’11 Marzo dello stesso anno, l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) dichiara la pandemia da “Covid-19”; ormai termini come “contagio” ed “epidemia”, che avevo letto e appreso solo leggendo i libri di storia diventano parte integrante del mio lessico quotidiano.

È vero, non è la prima volta che l’essere umano si ritrova a combattere contro un’epidemia. Ad esempio, “l’influenza spagnola” del 1918 contagiò mezzo miliardo di individui; la “peste nera” condizionò la cultura: Giovanni Boccaccio utilizzò come narratori del “Decameron”, dei giovani ragazzi che erano fuggiti da Firenze travolta dalla peste e che utilizzarono come “farmaco” contro la tristezza di quei giorni il racconto di dieci novelle per ogni giornata, tranne per il venerdì e il sabato.

Oggi, la nostra situazione può considerarsi per alcuni aspetti differente, per molti il “farmaco” consiste nella rete, nell’utilizzo dei social media che ci permettono di continuare a vivere virtualmente i momenti speciali e quotidiani della nostra vita: dalle lezioni online ai riti spirituali.

Moltissimi sono i preti che non avevano mai avuto a che fare con la tecnologia, prima di questo drammatico evento e per adeguarsi alle norme di distanziamento sociale hanno sperimentato l’utilizzo di social quali Facebook, dove trasmettere in diretta le celebrazioni e le funzioni pasquali.

Purtroppo quest’anno molti riti che precedono la Pasqua non si sono potuti svolgere. Fin da piccola ho assistito e vissuto la “Lavanda dei piedi” e i “Sepolcri” svolti durante il Giovedì Santo o ancora la processione del “Venerdì Santo” con le “varette” che raffigurano le diverse stazioni fino ad arrivare alla morte di Cristo e al pianto della Madonna, processione che si celebra ad Amantea, secondo molti studiosi dal 1571 e che si è dovuta sospendere per la prima volta a causa della pandemia.

Anche se non c’è stata alcuna processione, il suono delle musiche provenienti dalla Chiesa Madre hanno oltrepassato le mura della mia casa e mi hanno destato la mattina presto, proprio come accadeva ogni anno.

In quell’istante ho provato delle sensazioni di nostalgia verso quei determinati riti che celano oltre a momenti di tipo religioso, aspetti della mia adolescenza.

Decido di colmare questo senso di vuoto aprendo la finestra e lasciando attraversare ancor di più questa melodia, riaffiorano nella mia mente le donne che piangevano dietro la “Madonna Addolorata”, sento i miei coetanei cantare con passione: “Sono stati i miei peccati, Gesù mio perdon pietà” ma riaprendo gli occhi non appare nessuno nella mia camera, sono sola in compagnia dei miei pensieri.

L’opera “Viaggio intorno alla mia camera” di Joseph, Xavier de Maistre coincide esattamente con la situazione che stiamo vivendo. Tale scrittore per un duello non autorizzato fu obbligato agli arresti domiciliari e utilizzò il suo isolamento per dedicarsi alla scrittura.    I capitoli sono 42 come i giorni trascorsi in isolamento. Nei momenti di forzata reclusione l’autore riscopre una serie di oggetti che aveva lasciato da parte durante i momenti di quotidianità e nella conclusione del libro scrive: “Devo lasciarti, incantato paese della fantasia, la mia camera: proprio oggi, certe persone da cui dipendo pretendono di restituirmi la libertà come se mi fosse stata tolta. Essi mi hanno vietato di percorrere una città ma mi hanno lasciato il mondo intero”.

Sono consueti i momenti di riflessione in questo periodo; osservando ciò che viene trasmesso dai notiziari provo empatia per tutti quei giovani che vivono l’avanzare della malattia di un genitore, un nonno, una persona vicina.

La solitudine di coloro che travolti dalla malattia sono costretti ad allontanarsi dalle persone che amano. Privati a causa della forte diffusione del virus di salutare i loro cari, un’ultima volta.  

Senza poter essere assistiti, ricevere l’amore e il conforto dai loro affetti mentre combattono per rimanere in vita.

Non è possibile guardare gli occhi di chi ci sta lasciando, stringergli le mani o nascondere le loro paure in un profondo abbraccio, ai tempi del coronavirus la morte diventa sinonimo di solitudine assoluta.

 Il virus sconvolge, in questo modo, degli aspetti fondamentali del nostro essere “umani”.

È straziante sentire ogni giorno un numero così elevato di morti, ognuno di loro è una parte fondamentale della nostra storia.

Dietro quei numeri vi sono partigiani che hanno liberato il nostro paese, donne che hanno lottato per ottenere la parità dei sessi, insegnanti, medici, infermieri, madri e padri di famiglia.

Uomini e donne che ci hanno concesso di vivere ciò che desideravano per il futuro.  Sono sicura che noi sapremo rivendicare la loro morte contribuendo a rendere questo un mondo migliore, a far valere i nostri diritti. Certamente, commetteremo anche noi degli errori ma sapremo da dove RIPARTIRE!»

— Erika, 19 anni, Amantea (CS)

 


«Alla scoperta di noi stessi | Spesso non ci si rende conto delle cose che ci circondano fin quando non le perdiamo.

Abituati a vivere in mondo in cui le cose si danno un po’ troppo spesso per scontate, affrontare questa situazione nella quale siamo privati della nostra libertà, non è facile.

Si inizia per forza a dare importanza e attenzione a ogni minimo particolare che costituisce quel luogo in cui hai sempre vissuto e nel quale sei cresciuto: la propria casa; luogo che fino a poco tempo fa aveva la funzione di “rifugio”.

Mentre la nostra vita scorreva al di fuori delle mura domestiche, ora siamo costretti a vederla scorrere all’interno. Molte abitudini sono cambiate, ciò che prima si definiva “routine giornaliera”, ora non esiste più…

Andare all’università tutti i giorni, stare con i propri colleghi…

Uscire con le amicizie di sempre… tutto svanito in un nano secondo, facendo così perdere anche il significato all’unico giorno in cui tutti i ragazzi potevano riunirsi in modo spensierato: il sabato, giorno in cui pensare a studiare non era necessario, poiché il giorno dopo, la domenica, avremmo avuto la giornata libera.

Uno schiocco di dita, tutti rinchiusi nelle proprie case.

Chi solo con sé stesso, chi invece con la propria famiglia.

Automaticamente ci si ritrova a conoscere meglio quelli che sono i propri “coinquilini” di sempre, a conoscere e a convivere anche insieme ai loro difetti.

Si prova a costruire una nuova routine e si cerca di evadere, anche con la forza dell’immaginazione, da quelle mura domestiche.

C’è chi si rifugia nella musica, chi nell’allenare il proprio corpo e chi nella lettura di un buon libro.

Non bisogna farsi sopraffare dalla pigrizia, anzi bisogna continuamente trovare le motivazioni per organizzare la giornata, mantenendo degli orari, in modo da non sprecare tempo e rendere quest’ultima produttiva, cercando di migliorare sé stessi e apprendere nuove cose.

Io ho vissuto e vivo tutt’ora questa quarantena come una possibilità.

Una possibilità di fare tutto quello che, per “mancanza di tempo”, non ho mai potuto fare.

Una routine giornaliera molto semplice che parte con la sveglia presto.

La mattinata è dedicata ad allenare il mio corpo e a prendermi cura di esso, il pomeriggio è dedicato allo studio e la sera alle mie passioni, quali la scrittura.

Indubbiamente all’inizio non è stato facile adattarsi, mi mancava la mia vita… mi mancava la mia solita routine…

Non avevo voglia di fare niente, la pigrizia stava vincendo…

Fin quando mi sono chiesta: “perché sprecare questo tempo in questo modo?”

E da lì ho iniziato un percorso di maturazione, affrontando anche quella che è un’analisi personale dei miei difetti e dei comportamenti errati che ho avuto nel corso degli anni…

Nessuno è perfetto, tutti sbagliamo. Basta solo rendersene conto in modo tale da non rifare lo stesso sbaglio e migliorare quel lato come è meglio possibile.

Ho un posto dentro casa che mi permette di evadere nei miei pensieri, la finestra dello studio.

Mi siedo sul davanzale osservando la vita che scorre al di fuori di essa.

La natura sembra non essersi fermata, continua imperterrita a vivere… cambia il tempo, passando dalla pioggia, alla neve (la nevicata di marzo), al sole… e così via.

La vegetazione cresce e le rondini continuano a volare, seguendo traiettorie che provo ad immaginare con la mia mente.

Mi perdo ad osservare anche quello che è il moto delle nuvole, mi trasmette un senso di calma e anche in un certo senso di speranza.

Il mondo non sta finendo, continua tranquillamente a mantenere la sua di routine, variandola ogni tanto.

Il tempo ha continuato a scorrere tranquillamente, portando via con sé quelle feste tipiche primaverili, quali la fiera di San Giuseppe (per noi cosentini) e la Pasqua.

Ricorrenze che purtroppo ho potuto vivere solo tramite i ricordi.

Abituata sin da piccola ad andare alla tradizionale fiera, quest’anno ho potuto solo immaginare di ritrovarmi a girare tra le bancarelle, accompagnata dall’odore del cibo che si spargeva nell’aria e dalla musica ad alto volume.

Abbiamo festeggiato la festa del papà senza i tipici mostaccioli calabresi, le noccioline caramellate e il torrone… accontentandoci di una semplice, ma buona, crostata fatta da mia madre.

Anche la tradizionale Pasqua ha subito modifiche nell’arco del tempo… mi perdo in quelli che sono i racconti dei miei genitori…

Mio padre è nato in un paese di origine albanese e, tramite i suoi vaghi ricordi, racconta come viveva la festività pasquale. Ciò che gli è rimasto più impresso nella mente è il fatto che addobbava un lungo ramo di ulivo con dei dolci tradizionali, ossia i mostaccioli, i taralli e le ginette (ciambelline ricoperte con glassa di zucchero). A quei tempi l’uovo di Pasqua, nel paese, non era conosciuto ed esisteva solo una marca della colomba classica.

Non provenendo da una famiglia molto religiosa, seguiva quella che era la tradizione “arbereshe”, ossia visitarsi tra paesani, casa per casa, e darsi gli auguri lasciando dei ramoscelli di ulivo.

Inoltre c’era il pranzo pasquale nel quale si mangiava la classica pasta al forno cucinata con la brace di sotto e di sopra. Poi per secondo il capretto e in seguito la frutta di stagione.

A differenza mia madre, che è nata qua a Cosenza, seguiva quella che era la tradizionale Pasqua religiosa. All’inizio della settimana santa si incominciavano a preparare i cuculi, sia di pasta di pane che dolci, e venivano infornati nei panifici della zona.

Giovedì santo assisteva alla messa nella quale c’era il lavaggio dei piedi e l’allestimento del sepolcro, portando in chiesa dei vasi con dentro germogli di lenticchie o grano, tenuti allo scuro per farli diventare bianchi e in seguito addobbati con le violette del pensiero o altri fiori profumati.

Il venerdì santo era dedicato alla visita dei sepolcri e si dovevano visitare, a numeri dispari, le chiese che erano in lutto. Il sabato, a mezzanotte, assisteva alla messa in cui c’era la benedizione del fuoco e dell’acqua.

La domenica mattina era dedicata alla cucina della pasta al forno e all’agnello. Nemmeno mia madre si ricorda dell’uovo di Pasqua.

Il lunedì di pasquetta, se il tempo era buono, visto che lei viveva in campagna, cercava insieme ai suoi amici un posto bello dove poter fare delle scampagnate.

L’importante era che ci fosse un albero dove poter costruire un’altalena con una corda, così da potersi divertire durante la giornata.

Il pranzo sull’erba consisteva nel mangiare la soppressata, la frittata con dentro pancetta e formaggio e i cuculi che avevano preparato. Il tutto accompagnato da del buon vino che facevano loro.

Come detto prima, la tradizionale Pasqua si è evoluta, soprattutto per quanto riguarda la mia famiglia che ha raggiunto un connubio tra le due tradizioni e tra le due mentalità differenti.

Mio padre non festeggia più di tanto, ma rispetta tutto ciò che vuole fare mia madre secondo la sua tradizione.

Infatti lei continua ad andare tranquillamente alla messa di Pasqua, mentre noi rimaniamo a casa a mangiare l’uovo di cioccolato. Sia io che mio fratello abbiamo avuto modo di poter scegliere tra le due mentalità differenti, seguendo quello che è il nostro libero arbitrio e confrontandoci continuamente su due punti di vista totalmente opposti.

Io la Pasqua l’ho sempre e solo vista come un’occasione per ritrovarmi con tutti i parenti, per poter mangiare, scherzare, ridere e aggiornarci su tutte le cose che stiamo facendo nella vita.

Il pranzo è rimasto sempre quello… l’unica cosa che nell’arco del tempo è migliorata, sono i dolci. Oggi c’è molta più scelta tra colombe, uova, cuculi e l’innovazione della pastiera napoletana.

Sicuramente ora sono cambiate molte cose… quest’anno abbiamo festeggiato la Pasqua da soli, cosa che nemmeno avevamo voglia di fare poiché reduci da un lutto avvenuto nel cosiddetto venerdì santo: è venuto a mancare, non a causa dell’epidemia, mio zio, fratello di mia madre… e non abbiamo potuto dargli neppure un ultimo saluto, se non tramite videochiamata, assurdo anche a pensarlo, com’è successo a tutte quelle povere famiglie che hanno perso in questi mesi i loro cari e li hanno visti portare via su di un mezzo militare… credo che queste immagini rimarranno per sempre nel nostro cuore e nella nostra mente, niente e nessuno potrà mai cancellarle.

Computer e cellulare sono i protagonisti di questo momento… certo non possono sostituire il calore umano, ma è l’unico modo per mantenere un contatto con l’esterno, anche se a me, paradossalmente, dà l’impressione di un distanziamento ancora più profondo.

Ho riflettuto molto riguardo ciò e mi sono resa conto che l’uomo è un animale “sociale”. Ognuno di noi, chiuso o estroverso che sia, prima o poi si sente perso nella solitudine nel momento in cui viene a mancare un contatto con gli altri.

La solitudine fa brutti scherzi, sei da solo con la tua mente, i tuoi pensieri, senza nessuno con cui poter parlare e poterti sfogare, senza nessuno che ti può confortare con il calore di un abbraccio; ed è proprio in questo momento che si sente di più la necessità di un rapporto fisico, di un qualcosa che abbiamo sempre dato per scontato perché liberi di poter uscire, ridere e scherzare con i propri amici giornalmente. Tutti abbiamo dovuto reinventarci una nuova forma di comunicazione: mi sono dovuta, in breve tempo, adattare a questo nuovo metodo di contatto, sia per parlare con le mie amiche che con i parenti per sentirmi meno sola e sia per poter seguire le lezioni universitarie.

Per quanto riguarda quest’ultimo punto, mi è dispiaciuto molto non poter continuare la mia esperienza universitaria iniziata a ottobre, privandomi così di fare nuove amicizie e di conoscere personalmente i nuovi professori che avrei incontrato in questa sessione.

Vorrei anche aggiungere che il 3 maggio, mio fratello ha compiuto 18 anni… in quarantena.

Lui a mezzanotte ha aperto lo spumante in videochiamata con i suoi amici e ci siamo ritrovati costretti a festeggiarlo solo noi della famiglia.

Quando si pensa ai 18 anni, si immagina un grande festa, magari in un bel ristorante con parenti e amici tutti vestiti eleganti.

Nessuno immaginava invece che lo avremmo festeggiato in pigiama.

Tutto ciò può risultare alquanto frustrante, poiché è come se ci avessero privati di una parte della nostra vita.

Molte cose non torneranno più, che sia un ultimo saluto a un caro, una Pasqua passata con parenti e amici, un diciott’anni… un pranzo dei 100 giorni o un esame di maturità… tutti avvenimenti che ci sono stati negati.

In due mesi abbiamo perso tanto, non c’è stata più distinzione tra un giorno di lutto e un giorno di festa, tra il dolore e la gioia.

Speriamo che tutto ciò possa finire presto e che si possa tornare a un minimo di normalità, anche se c’è in me la consapevolezza che difficilmente si potrà tornare a vivere la nostra quotidianità come prima…

Chissà, forse potrebbe nascere un mondo migliore!»

— Sara, 19 anni, Cosenza

 


«10 maggio 2020, aspettando la vera libertà… | “Oramai non li conto più…” Questa la frase, riferita ai giorni trascorsi, che mi ha caratterizzato per tutto il periodo di “quarantena”. È strano pensare come questo vocabolo sia diventato parte integrante del nostro lessico quotidiano, questo come tante altre parole tutte permeate da un velo di negatività.

 I giorni sono stati altalenanti e a volte trascorsi troppo velocemente, che a tratti sembra impossibile che tutto questo “calvario” sia iniziato da mesi, eppure quel giorno di marzo, momento in cui gran parte delle nostre vite iniziavano a cambiare così drasticamente, mi sembra lontanissimo.

Indubbiamente ci sono stati molti alti e bassi, nuove consapevolezze, nuove scoperte, un cambiamento anche nel modo di approcciare alla realtà. In questo periodo ho imparato ad apprezzare alcune cose che a parer mio ci stavano un po’ sfuggendo di mano, iniziando proprio dai rapporti familiari. Studiando da fuori sede, non ero più abituata, con mio grande dispiacere, a passare così tanto tempo con la mia famiglia, quindi è come se per un attimo si fosse azzerato tutto quanto e avessimo ricominciato da capo. Questo, tra le cose che il nostro caro “nemico invisibile” ci ha restituito.

Adesso che siamo nella fase della tanto attesa libertà, mi sento comunque piena di emozioni contrastanti.

Dopo aver passato tutti questi giorni dentro casa, oggi come oggi mi viene molto difficile pensare ad un ritorno alla vita “normale”. Quella normalità che era fatta di chiacchiere e caffè con degli amici, lezioni all’università e pomeriggi trascorsi a studiare in biblioteca con i colleghi, una passeggiata sul corso senza ansie e preoccupazioni, un pomeriggio spensierato passato a casa dei nonni.

Abbiamo tanto atteso questo momento, ma ora che è arrivato da qualche giorno, a mio parere è servito soltanto a far notare ancora di più la differenza tra ieri e oggi. Sì, perché abbiamo imparato ad adattarci, abbiamo acquisito nuove abitudini e modi di affrontare il quotidiano. Da poco, infatti, è passata la Pasqua, quest’anno un evento insolito, silenzioso, senza celebrazioni; sembra surreale.

A questo proposito, mi viene da pensare ad un momento che ricorre in questi giorni e ha caratterizzato dalla mia infanzia, tutta la mia vita: la festa patronale di San Pietro a Maida (CZ), paese natale di mia madre, che quest’anno non ci sarà. Mi si stringe il cuore al solo pensiero ed è difficile accettare che quest’anno tutto ciò non sarà possibile.

La fiera di San Francesco, suonare e perdere la voce per cantare, i pomeriggi alle giostre passati con quei cugini che aspetti tutto l’anno per rivederli, la banda che passa la mattina presto sotto il balcone di mio nonno, i fuochi pirotecnici visti da San Pietro, accendere il fuoco e mangiare tutti insieme, parenti e amici.

San Pietro a Maida in occasione della festa patronale diventa una famiglia allargata, accogliendo tutti e festeggiando come se il mondo circostante non esistesse, restando fermi a quelle giornate piene di felicità.

Questo è ciò che ho sempre amato di questo paese, luogo pieno di ricordi che sono impressi nell’anima. Mi conforta pensare che torneremo più forti di prima, l’anno che verrà. Non ci siamo persi, ci siamo solo presi una pausa. E ritornerà tutto a splendere, meglio di prima»

— Sara, 25 anni, Catanzaro 

 


«Diario di bordo: Assolutezza del vuoto | Che cos’è il vuoto? Cosa significa percepire il vuoto? Immaginiamo di possedere un luogo al nostro interno in cui sono custoditi i nostri sogni e desideri, un’energia vitale ricca di stimoli, affetti e scopi; paragoniamolo ad una “scatola dei desideri”, lì custodiamo la parte più vera e passionale di noi. Il luogo in cui risiedono le nostre sicurezze, dove richiamare all’attenzione la nostra tranquillità, investire lì il nostro tempo interiore. Ma se ad un certo punto della nostra vita questa scatola rimanesse completamente vuota, a quel punto cosa bisognerebbe fare? Sentimenti contrastanti si fanno spazio nelle nostre vite, terrore, ansia, angoscia, tristezza, la ‘domina’ indiscussa sembra esser la paura. La paura è un’emozione primaria, comune al genere umano e al genere animale, si insinua nella mente, nelle ossa, intacca ogni vena del corpo e lascia senza respiro. Senza respiro proprio come il nostro nemico invisibile, che credevamo lontano, ma è più vicino di quanto potessimo immaginare. Negli ultimi giorni, ha deciso di far visita al mio piccolo paesino, martoriato già dallo spopolamento, come un fulmine a ciel sereno si è abbattuto sulle nostre casa, sulla nostra quotidianità e lo sta facendo in modo silenzioso, subdolo, speranzoso di trovarci impreparati. È presente, ma non si vede, si sente, ma non puoi toccarlo, e lui a dettare le regole del gioco. L’intero paese sembra essere affetto da una grave patologia: la nostalgia. Nostalgia di quello che avevamo, di quello che eravamo; spesso abbiamo sentito l’esigenza di andare, fuggire, evadere da questa ‘patria’ soffocante. E poi all’improvviso tutto cambia, tu cambi, chi e cosa ti sta intorno cambia, e allora solo a quel punto capisci che il viaggio più bello che tu possa fare è quello di rimanere. Stiamo assistendo impotenti allo sgretolamento della nostra realtà, iniziano a vacillare le nostre sicurezze e i posti che da sempre hanno rappresentato il centro del nostro mondo. Il mio è un paese di pochi abitanti, e ci sono luoghi che con il tempo si sono trasformati in vere e proprie istituzioni; che stabiliscono, fondano e regolano un ordine. Tra questi c’è sicuramente uno storico bar, che ha visto già la gestione di due diverse generazioni. Definito il “bar degli amici”, o anche del ‘tressette’, da ben quaranta anni regala buon caffè, giornale fresco di stampa e un grande e gentile sorriso. Luogo di ritrovo, rete di relazione, completamente spento, vuoto e senza più quei caldi sorrisi. Per non parlare della stazione ferroviaria, vuota, da essa proviene, solo, l’assordante rumore del silenzio. Nell’uso comune da sempre, nella norma, probabilmente da mai, sentiamo la frase: “l’importante è la salute”, e sto avendo modo di comprendere, che non è importante, è una delle poche cose che contano. Ma come quasi solitamente accade, proprio nel momento in cui qualcosa che abbiamo avuto sempre tra le mani, sotto gli occhi viene a mancare, iniziamo, improvvisamente, a mitizzarla, edulcolarla, rimpiangerla.  Il rimpianto, nasce da ciò che è andato perduto: occasioni, opportunità, frangenti e congiunture, persone. Qualcosa che non abbiamo colto e che ci è sfuggito irreparabilmente, qualcosa che è scivolato via nel tempo, ma anche qualcuno che non abbiamo tenuto stretto, o che si è inevitabilmente allontanato. Vale lo stesso per la morte, l’uomo inizia a temerla realmente solo quando bussa alla porta della sua casa, fino a quel momento si credeva al mito dell’invincibilità, uomini immortali, relegati nell’idea di vivere un eterno presente, mai dubbiosi del passato o incerti del futuro. Fiduciosi che il tempo potesse mutare la natura, le case, le strade, l’aria, l’acqua, il fuoco, la terra, però mai l’uomo. Le parole, in alcune circostanze riescono ad andare oltre la realtà immaginabile, a volte, invece, bisognerebbe inventarne di altre, anche se non basterebbero. Ci sono momenti, sensazioni, emozioni, sentimenti, che non si possono spiegare, non si riescono a descrivere. Mi è capitato, in non poche circostanze, di soffermarmi su cosa volesse realmente dire dolore. Da bambina avevo l’ingenua convinzione che il dolore non sarebbe per nessuna ragione entrato a casa mia, nel mio mondo, identificato da me medesima in uno strano essere deforme senza colore. Tutti i colori hanno un significato, richiamano agli occhi della mente situazioni, persone, oggetti; io immaginavo il dolore privo di colore, perché desideravo solo la sua inesistenza. Poi, crescendo ti ritrovi a confrontarti con la realtà, non sempre all’altezza delle tue aspettative e dei tuoi desideri. E capisci che la sofferenza è una componente del dolore, che può riguardare il corpo, o il vissuto emotivo di un soggetto. Arriva inaspettato, a volte devastante quanto improvviso. Arriva lentamente, fino a sommergere, provocando l’incapacità di reagire, di immaginare una via d’uscita. Spesso scatenato da un evento che non eravamo stati in grado di prevedere, ma la prevedibilità dell’evento, in ogni caso, non è sufficiente a metterci al riparo dall’insostenibile sensazione di totale perdita di senso che invade la nostra anima quando siamo colpiti da un evento doloroso o traumatico. Una separazione, un lutto, un cambiamento, il dolore, allora, lo inquadri in un filtro grigio, che scolorisce ogni nostro sentire e ci separa dal resto del mondo e dalla vita. Il lutto, in qualche modo, restituisce un legame tra la morte e la vita, e l’impossibilità di liberare il dolore, ci intrappola in una claustrofobica e buia pagina della nostra storia, che sarà difficile da eliminare. Il gioco della vita, a differenza degli scacchi, inizia dopo lo scacco matto; né vincitori, né vinti, ma partecipanti coscienti e incoscienti. Da protagonisti, siamo diventati spettatori delle nostre stesse vite, e mai come adesso vorrei leggere gli ultimi atti di quella che mi auguro sia solo una commedia e non una triste tragedia»

— Mariella, 21 anni, Torano Scalo.

 


TERRA DI MARE

Terra di mare,

terra di sole,

terra di gente che trasmette calore.

 

Terra di famiglie, grandi famiglie:

del profumo che senti salendo le scale,

del sorriso di mamma quando ti vede arrivare,

della stanchezza di papà dopo il lavoro abituale,

dei passi del nonno lenti nel camminare,

delle urla di una crisi adolescenziale

e di un bacio la sera prima di riposare.

 

Terra di giovani col cuore che batte a suon di sogni

più belli dell’amore,

veri e propri bisogni,

degni di essere realizzati senza timore.

 

Perché è anche terra di mafia,

terra di ingiustizia,

terra di omertà

e di furbizia.

Terra di una politica corrotta

seduta in poltrona

che ha perso la rotta

della giusta persona.

 

E quei bei sogni rimangono intrappolati

come scrigni sotterrati.

 

Ma tu che sei cresciuto nell’onestà

e conosci anche le belle realtà

che questa terra ti dà,

non fuggire,

non scappare,

sii convinto che un cambiamento possa avvenire

e potrai i tuoi sogni realizzare.

 

Terra di mare,

terra di sole,

terra di gente che continua a sognare

nonostante il male.

 

Terra libera

non è più un ideale

ma è la coscienza di un popolo che resta per cambiare.

 

— Anna, Villa San Giovanni, Corso di laurea in Matematica

 


«“Un nemico invisibile” | Il nuovo anno è iniziato purtroppo, in un modo che nessuno avrebbe mai immaginato, ovvero con lo scoppio e la diffusione di un nuovo virus, chiamato “Coronavirus”, scoppiato in Cina, in particolare nella città di Wuhan nel dicembre 2019.

Ad oggi non sono ancora ben chiare le cause che hanno portato al suo insorgere. Alcune teorie sostengono abbia avuto origine animale, altre teorizzano un esperimento in laboratorio.

Nel nostro Paese inizialmente, la situazione è stata sottovalutata da molte persone: “Cosa sarà mai se non una semplice influenza?” oppure ancora “La Cina è così lontana, non arriverà fin qui”.

Invece il 21 febbraio 2020 viene evidenziato il primo caso di Coronavirus in Italia, per poi diventare pandemia.

E allora la Cina proprio così lontana non lo era…

Il virus si è esteso a macchia d’olio, partendo dal nord fino ad arrivare al sud. Il primo focolaio si è registrato a Codogno, provincia di Lodi, Lombardia.

Contagi e vittime contano fino ad oggi numeri molto elevati. Data appunto la sua alta contagiosità, le autorità italiane e quelle di altri paesi europei hanno deciso di attuare misure restrittive al fine di limitare la circolazione delle persone e, dunque, del virus.

I media hanno lanciato la campagna “Io resto a casa” per portare le persone alla consapevolezza di quanto sia importante limitare i propri spostamenti, se non per necessità primarie (fare la spesa, recarsi in farmacia…).

Ognuno sta vivendo questa situazione di alta emergenza sanitaria a modo proprio. Alcuni risultano visibilmente preoccupati e turbati, hanno pensieri negativi, hanno paura che non si uscirà più da questo tunnel, altri invece vivono con la speranza che tutto questo passerà e che si potrà ritornare alla vita di prima.

Molti ancora, invece, si sono aggrappati alla fede e hanno seguito le preghiere, le parole, i consigli di Papa Francesco e di tutta la comunità religiosa.

A mio parere, uno dei messaggi più significativi lanciati dal Papa è stato: “Ci siamo resi conto di trovarci sulla stessa barca, tutti fragili e disorientati, ma nello stesso tempo importanti e necessari, tutti chiamati a remare insieme, tutti bisognosi di confortarci a vicenda. Su questa barca ci siamo tutti…”.

Una preghiera va a tutte le vittime del Coronavirus. Una parola di conforto alle famiglie colpite da questa tragedia. La quotidianità di tutti è stata scombussolata, soprattutto per noi giovani, che da una vita frenetica, viva, movimentata, ci siamo ritrovati a dover restare in casa.

All’inizio quasi non accettavamo l’idea di non poter uscire, di non poter trascorrere il tempo con le persone a noi care, però poi ci siamo dovuti fermare a riflettere e a prendere coscienza della gravità di questa situazione.

Restare in casa non è una “prigione”, ma un luogo sicuro che ci salva dal mondo esterno. Quel mondo che ormai ci sembra così diverso, cambiato, che ci fa paura. Quasi non lo riconosciamo…

Sembra un incubo, è terribile sapere che tante persone stanno soffrendo e, purtroppo, tante altre ancora stanno perdendo la vita. Le giornate sembrano così vuote, così uguali. Dalla mattina alla sera cerchiamo di tenerci impegnati. C’è chi si dedica allo studio, chi alla cucina, chi alle faccende domestiche, chi a leggere, chi a scrivere, anche per distrarci da questa situazione.

La notte però arriva il momento in cui i pensieri tornano alla mente. Non riusciamo più a dormire sereni come prima. Anche i nostri sogni sono cambiati, in quanto dominati da paure e tristezza. È tutto così strano, surreale…

Dalla finestra di casa mia vedo la strada deserta, c’è silenzio, è come se la vita si fosse fermata.

Tante sono le mancanze… Mi mancano i miei nonni, i miei amici, sorridere con loro, fare lunghe passeggiate, vedere il mare, l’alba, il tramonto.

Mi mancano le giornate trascorse all’Università, tra lezioni e pause-caffè con i colleghi.

In questa quarantena, fortunatamente abbiamo mantenuto i contatti con amici e familiari, grazie al cellulare, ai social.

Oggi pensare al futuro è un grande punto interrogativo. In molti ci chiediamo “Quando passerà tutto questo? Cosa succederà? Quando torneremo alla normalità?”.

Purtroppo, ancora ad oggi non esiste un vaccino, una cura specifica a questo virus.

Per ora non ci resta che vivere nella speranza che questa situazione paurosa e angosciosa possa passare al più presto.

Affinché ciò possa realizzarsi, tutti dobbiamo essere forti, dobbiamo rispettare le regole stabilite dal Governo, dobbiamo tutelare noi stessi e gli altri. Ci deve essere rispetto reciproco.

Tutto questo lascerà un segno indelebile nei nostri cuori, rimarrà impresso nella nostra mente e anche nella storia.

Veri eroi in questa “guerra” sono i medici, infermieri e tutto il personale sanitario, che hanno lavorato e continuano a lavorare costantemente, per salvare la vita del prossimo, rischiando la loro.

Indispensabile anche l’aiuto delle forze dell’ordine, carabinieri, vigili del fuoco, militari, protezione civile e tutti gli altri enti. Lavoro impeccabile da parte del Presidente del Consiglio dei Ministri, Giuseppe Conte, che sta garantendo la massima sicurezza al fine di tutelare tutto il Paese. Durante la Conferenza stampa tenutasi il 28 marzo 2020 ha dichiarato “Io non passerò alla storia come colui che non si è reso responsabile di quello che andava fatto per i cittadini europei. Mi batterò fino all’ultima goccia di sudore e fino all’ultimo grammo di energia, per ottenere una risposta europea forte, vigorosa, coesa”.

Il Presidente, inoltre, ha incitato tutti ad avere forza, speranza e a non mollare:” Rimaniamo distanti oggi per abbracciarci con più calore domani. Tutti insieme ce la faremo”.

Mi auguro vivamente che l’Italia e tutto il Mondo possano vincere questa “battaglia”»

— Giusy, 20 anni, Luzzi (CS) – Corso di laurea in Scienze dell’educazione

 


«The Unexpected – L’inaspettato Coronavirus | Gennaio 2020. Non ricordo bene il giorno preciso.

Quando un passante in bar, discusse animatamente con un suo amico. l’argomento trattato era un virus, diffusosi in Cina con una velocità tanto immediata da sembrare irreale. I giorni successivi all’episodio passarono normalmente; telegiornali e social media iniziarono a diffondere notizie, alcune vere, altre false; si diceva che fosse un virus scoppiato in laboratorio, altri sostenevano che fosse procurato dall’ ingestione di un pipistrello.

Abbiamo continuato a vivere la nostra vita come sempre, minimizzando l’accaduto. Sembrava così lontano da noi! I nostri pensieri più frequenti erano caratterizzati da frasi del tipo “Tanto da noi non arriva”! “Stanno morendo un sacco di persone, ma sono anziane!” o ancora “Io sono giovane, non lo prendo di certo”! Sembrava facile a dirsi, fino a quando il 21 febbraio 2020 si verificò il primo caso di Coronavirus in Italia. Iniziarono a manifestarsi dentro di noi una serie di sentimenti contrastanti, verso un qualcosa di cui non si conosce la causa, la natura, né l’antidoto. Forse la questione iniziava a riguardarci e mentre i giorni passavano, ci comunicarono che le scuole sarebbero state chiuse per due settimane, provocando una reazione entusiastica, specialmente negli studenti e nei bambini. Ma cosa abbiamo fatto in un primo momento? Abbiamo bevuto dalla stessa bottiglia di birra, ci siamo dati la mano, scambiati bacetti come sempre, abbiamo addirittura guardato con un sentimento di derisione coloro che iniziavano ad indossare la mascherina. Il successivo annuncio dell’obbligo di rimanere in casa ci ha presi alla sprovvista e resi prigionieri di quest’ultima. Le nostre giornate frenetiche, ricche di divertimenti e di tempo, che sembrava non bastarci mai, iniziavano a diventare tutte uguali. Appariva come una sorta di labirinto senza via d’uscita, in cui ogni giorno aveva la stessa modalità di quello precedente e di quello successivo. A noi giovani, insaziabili di divertimento, di vita sociale,l uoghi chiusi affollati, di negozi, sembrava di essere stati scaraventati in un’altra realtà, priva di libertà! La casa, da cui prima cercavamo di evadere, era diventata una prigione. Questa era un luogo di sicurezza in cui passavamo momenti belli come pranzi e riunioni familiari, ma anche fonte di riposo quando si rientrava tardi, dopo aver fatto festa tutta la notte. Alcuni di noi l’hanno lasciata precocemente per intraprendere altre esperienze come ad esempio viaggiare o studiare fuori. E Adesso… cos’è diventata veramente? Certamente una sicurezza, perché ci protegge dalla realtà ostile che si cela è al di fuori di essa, ma anche una stanza chiusa, quasi asfissiante e soffocante, dalla quale ti viene voglia scappare per poter tornare alla vita di prima. Di certo non è così per gli studenti che si trovano fuori! Il loro desiderio più profondo è quello di ritornare nel proprio habitat per rivedere il proprio paesino; Quello in cui si diffondevano pettegolezzi, voci di corridoio, e si esasperavano tutte le notizie scioccanti su ogni cittadino, e che per questo ci appariva alquanto disgustoso. C’è la voglia di ritornare indietro, in un passato che pur non essendo perfetto o idilliaco, era parte di noi e della nostra felicità. Ci manca tutto! Le passeggiate all’aria aperta in paese, i volti antipatici dei cittadini dispotici, vestirci bene, andare all’università, tornare tardi la sera, truccarci senza sembrare degli astronauti della NASA, persino l’ansia degli esami che è sicuramente migliore di quella provocata dalla crescita di contagi e casi positivi. Quando sembra lontana la via d’uscita! E Nonostante ciò proseguiamo il nostro cammino, tentando di considerare tutto questo come una prova divina, una parentesi che rimarrà impressa nella nostra memoria, come nella storia, dalla quale usciremo diversi. Ancora non so se in meglio o in peggio. Lo scopriremo vivendo»

— Erika, 21 anni, Settimo di Montalto Uffugo, Corso di laurea in Scienze dell’Educazione

 


«Giornate di maggio che vengono scaldate da un sole luminoso, inizio a prendere un po’ di colore, ma mentre l’esterno è colorato,  l’interno dice tutt’altro, scuro come una notte senza luna.

Non riesco a capire come in soli tre mesi sia riuscita a cambiare così in fretta, i miei occhi verdi che prima erano luminosi ora sono di un verde opaco, non riescono a mostrare la falsità, che poi quando piango diventano gialli, un giallo che mi angoscia ancor di più. 

Passo le mie giornate sul balcone su un tavolo e un libro e la musica in sottofondo, ogni tanto guardo l’orizzonte e mi perdo un po’ come il vecchio Leopardi.

Siamo avvolti  da un “atomo opaco del male”, contro il quale non si hanno le armi per sconfiggerlo e nemmeno la bomba atomica  ha poteri su di esso, ho paura di accendere il telefono; temo le brutte notizie, forse per paura di deludermi più di quanto lo  sono già; infatti preferisco continuare un racconto d’amore, forse la voglia d’amare non mi ha mai abbandonato.  Mentre guardo le montagne è fantastico trovare magari un amore come Tristano e Isotta, ma poi mi sveglio da questo sogno come Jacopo Ortis e torno alla realtà e tutto ciò che fantastico può essere solo frutto di un’immaginazione di una mente di una ragazza di vent’anni che nel suo piccolo vorrebbe salvare il mondo, ma non ha i mezzi per farlo.

Penso ai miei predecessori che mi hanno affidato un mondo ricco di meraviglie. Io cosa lascerò ai miei posteri? Forse nulla.

Penso, e anche molto sono questi che mi fanno male, mi trucidano lo stomaco e non mi permettono di affrontare la vita con serenità.

Quando tutto questo finirà non si tornerà alla vera normalità, la nostra psicosi resterà sempre martoriata da un passato che le ha fatto solo male.

Dante Alighieri alla fine del suo cammino, tornò a riveder le stelle, io le vedo ogni sera non brillano come un tempo; dunque, spero che quando tutto ciò finirà vorrei riuscir a riveder le stelle più luminose da accecarmi e illuminare il mio animo martoriato»

—  Maria Antonietta, 20 anni, Pagliarelle di Petilia Policastro (KR), studentessa di Lettere e Beni culturali

 


“Il cammino è sempre da ricominciare”

“E senti allora,
se pure ti ripetono che puoi
fermarti a mezza via o in alto mare,
che non c’è sosta per noi,
ma strada, ancora strada,
e che il cammino è sempre da ricominciare”
(Eugenio Montale, “A galla”)

«Oggi strada, ancora strada; è tempo di ripartire, come ricordano le parole di Montale. Cammino per le strade del paese in cui abito, per le stesse vie, gli stessi vicoli che accompagnano i miei ricordi e la mia infanzia. Strade che, a due mesi di distanza dall’inizio della catastrofe che ci ha colpito, riscopro nuove, diverse. Nulla sembra essere cambiato, anche se tutto in realtà è differente.
Comincia la mia salita verso la piazza, fino a qualche mese fa luogo di ritrovo per i pochi abitanti di questo borgo su colline dolci di ulivi. Qui non incontro nessuno, eppure non mi sento sola: dalle finestre, dalle poche porte rimaste ancora aperte, quasi per dimostrare un riscoperto senso di fiducia verso un mondo che non vuole arrestare la sua corsa, sento il suono delle chiacchiere e delle risate di qualcuno che mi tiene compagnia.
Cammino senza fermarmi, con lo stesso stupore di un bambino che scopre il mondo per la prima volta e con la gioia immensa di chi, separato all’improvviso e bruscamente dal suo familiare universo di abitudini, si riappropria piano piano e a poco a poco dei suoi spazi, della sua libertà. Cammino come se dovessi dare inizio a un lungo viaggio, senza voler tornare indietro.
In queste piccole strade, spesso strette, che mi hanno vista crescere, dove ho trascorso indimenticabili giornate all’insegna della spensieratezza, e delle quali ho imparato a conoscere nel corso del tempo i segreti, le storie, i racconti, le tradizioni- a volte le superstizioni- di chi le ha vissute ancora prima di me, ritorno ad avvertire quel senso
di “normalità” e di appartenenza che avevo dimenticato. È qui, tra i rintocchi delle campane della Chiesa Madre e le familiari case dei miei amici più cari- loro, seppur così vicini a me, ma che non posso ancora abbracciare- che ritorno a respirare e finalmente a immaginare, con speranza, il futuro che ci aspetta adesso.
Su un balcone sventola il nostro Tricolore, segno di un’Italia che sa e non smette di resistere, e mi fermo a fotografarlo. Incontro qualcuno che non conosco, accenna un saluto educato anche se riservato, forse spaventato, so che mi sta sorridendo: riesco a leggerlo dai suoi occhi, la cui espressione, per fortuna, non è nascosta dalla mascherina che indossa. Mi chiedo come sarà, quando potremo riabbracciarci e dirci quanto ci vogliamo bene senza la paura del contagio, quando vinceremo questa diffidenza.

Il Covid-19 resta ancora il “tiranno dei miei pensieri” (così definito da Claudio Magris in un articolo apparso su “La Repubblica” che ho letto pochi giorni fa), non mi abbandona mentre cammino proprio nella speranza di dimenticare per qualche ora la battaglia che anche adesso non si arresta. Poi, però, capisco che ricordare, soprattutto nei momenti più difficili, è importante: è il primo passo per la ripartenza, per la costruzione di un ponte più solido verso il futuro.
Mi fermo ad ammirare il panorama, che sembra essere illuminato da una luce diversa dal solito e piena di speranza, e così osservo il ritmo della vita che non si arresta nel delicato sbocciare dei fiori. Tra i campi, il giallo intenso delle ginestre, simbolo di un’umanità che si stringe in “social catena” e che resiste alla sofferenza, e poi il rosso dei papaveri, insieme al candido bianco dei gelsomini. Senza distogliere lo sguardo dalla meraviglia del quadro primaverile che mi circonda, rifletto sul momento di crisi che, tutti insieme, abbiamo vissuto negli ultimi mesi e che
continuiamo a vivere. Da una quotidianità caratterizzata dall’ “eccesso di presenza”, penso, siamo stati catapultati nella dimensione sconcertante dell’“assenza”, dell’attesa e del silenzio, schiacciati dal peso di una nuova forma di nostalgia, di rimpianto malinconico del distante e dell’altrove. Ci siamo sentiti spaesati, distanti dal nostro “Campanile di Marcellinara”, privati delle nostre consuetudini, delle nostre tradizioni, vittime di un despota violento e senza scrupoli. Ora, però, è arrivato il momento di ripartire a piccoli passi, di riappropriarci con responsabilità del
presente che ci è stato sottratto nell’attesa di costruire e riabitare un domani, spero, diverso.
Nel corso delle interminabili giornate passate in casa, tra le mura che mi hanno protetto, ho sperimentato per la prima volta il disagio (sacrificio, in questo caso, necessario) del vivere i limiti di una libertà che ho sempre creduto assoluta e incondizionata. Ho cercato di trasformare il tempo dell’assenza in momento di pausa per riflettere sulla nuova realtà. Ho riscoperto il privilegio e l’importanza della semplicità in tradizioni, riti e soprattutto abitudini che pensavo di aver dimenticato, come la gioia del pasto condiviso a tavola, senza fretta, insieme ai miei cari, lontano
dai ritmi frenetici della solita routine.
Proseguo la mia passeggiata, che quasi volge al termine.
Prima di ritornare a casa, però, mi perdo nelle ultime riflessioni all’aria aperta e immagino un domani che ci vedrà protagonisti di un cambiamento all’insegna del valore della filantropia, del rispetto profondo verso il prossimo e verso la natura, verso i riti e le tradizioni, di cui siamo fedeli custodi, che preservano le nostre radici e la nostra memoria collettiva. Un domani che, voglio credere, riabiteremo così, come scriveva Nazim Hikmet:

“Non vivere su questa terra
come un inquilino
oppure in villeggiatura
nella natura
vivi in questo mondo
come se fosse la casa di tuo padre
credi al grano al mare alla terra
ma soprattutto all’uomo” »

— Benedetta, 19 anni, Rende, studentessa del corso di laurea in Lettere e Beni Culturali

 


«Se fino a qualche tempo fa qualcuno mi avesse detto che da lì a poco ci saremmo trovati a vivere in questo modo, avrei messo una mano sul fuoco che non sarebbe stato possibile… e invece eccoci qua. 

Dall’8 marzo, giorno in cui è iniziata la quarantena, le nostre vite sono cambiate totalmente. Tutto quello che prima era la normalità, ora ci fa paura. Prima si usciva, ci si abbracciava, ora questo è impossibile farlo, anzi è pericoloso. Ci siamo trovati a vivere in casa per il nostro bene e per quello degli altri e abbiamo rinunciato alle nostre abitudini, a tutto ciò che ormai facevamo ogni giorno.

“Restiamo distanti oggi per abbracciarci più forte domani” – è questa la speranza che ha accompagnato ognuno di noi in questi giorni. 

Ci sono stati giorni in cui una fine a tutto questo sembrava non esistere, giorni bui in cui i telegiornali non facevano altro che dire che i contagi aumentavano e i morti erano sempre di più; questa, secondo me, è stata la cosa più brutta, più dolorosa: tutte le famiglie distrutte a causa del virus che non hanno potuto dare nemmeno un ultimo saluto ai loro cari, persone che sono morte da sole in un letto di ospedale… per questo io dico che nella sfortuna sono stata fortunata perché i miei cari stanno tutti bene. Ho capito i valori fondamentali come quello della famiglia, come stare in famiglia; ho capito che le cose che prima davo per scontate, che prima per me erano banali, invece sono tutt’altro che scontate, sono cose fondamentali come una semplice colazione al bar. Per questo, in questi giorni, sto cercando di dare spazio a tutto quello che prima, magari, mi sembrava banale. 

Fuori c’è un grandissimo silenzio che sembra non finire mai. “Siamo in guerra. Una guerra con un nemico invisibile. Un nemico che non ha punti deboli, che non guarda in faccia nessuno”. Sono questi i discorsi che ormai facciamo. 

Da poco è passato il periodo di Pasqua. Quest’anno, una Pasqua silenziosa, una Pasqua stranissima. Io vivo in un paesino della Calabria dove una delle ricchezze del nostro paese sono le tradizioni religiose: la Settimana Santa, la Via Crucis, “La Confronta” (come la chiamiamo noi nel mio paese) cioè L’annuncio della Resurrezione di Gesù, ma quest’anno è passata in modo silenzioso. Io ho la fortuna di avere una famiglia abbastanza numerosa, di averi dei nipoti straordinari, ma quest’anno siamo stati da soli – io e i miei genitori – senza le mie sorelle e i miei nipoti. Questo mi fa riflettere tantissimo sulla vita di qualche mese fa, la vita di adesso e la vita di domani, mi fa pensare e capire meglio i valori che magari prima non consideravo abbastanza. 

Lo strumento che in questo periodo ci lega è il web: i social, le videochiamate che ci fanno sentire più vicini e con le quali in questo periodo possiamo vederci, sentirci.

In questi 2 mesi ho visto un’Italia unita, un’Italia che saprà rialzarsi e risplendere più di prima.

Penso che la nostra vita dopo questa quarantena non sarà più la stessa, ma un giorno tutto questo sarà storia e la cosa più bella che noi ci ricorderemo sarà l’unione del nostro Paese, l’essere insieme anche solo con i flashmob che si fanno dai balconi e ricorderemo tutti quei medici e infermieri che hanno lottato per noi anche a costo della loro vita, non si sono risparmiati. Hanno dato se stessi ed anche di più»

— Noemi, Stignano (RC), Studentessa di Scienze dell’educazione

 


«È iniziato tutto per caso, all’improvviso. Era fine dicembre quando le prime notizie apparirono sui telegiornali italiani narrando di un grave male che aveva messo in ginocchio la Cina intera, ma sembrava così lontano da noi. Veniva descritto come un qualcosa di simile all’influenza, forse un po’ più grave ma niente che non potesse essere risolto in breve tempo. I giorni passano e questo virus, definito comunemente come COVID-19, si avvicina sempre di più. Era ormai febbraio, la situazione iniziava a precipitare di giorno in giorno; la gente continuava ancora a svolgere normalmente la propria vita, ignara che sarebbe stato così ancora per pochi giornim poi tutto sarebbe cambiato, tremendamente. A Marzo la situazione più che precipitata è degenerata, il numero dei contagi giornalieri saliva ogni giorno e parallelamente saliva il numero delle vittime. Il 9 Marzo, infatti, l’Italia viene ufficialmente blindata e tutti noi ci ritroviamo a dover vivere una vita diversa, che non è proprio come quella che siamo abituati a vivere. Ci sono un sacco di regole nuove da dover rispettare e un sacco di novità a cui far fronte: niente più università, niente più palestra, o uscite con gli amici per bere un caffè o fare cose simili; ci si può muovere solo per ciò che viene definito come “comprovate esigenze” che siano di natura lavorativa o di salute. Anche fare la spesa è diventato un incubo, si entra poche persone per volta e una soltanto per ogni nucleo familiare, negli occhi della gente vige il terrore, mentre prima ci si salutava con abbracci e baci ora ci si limita a fare un timido gesto con la mano a distanza, sembra tutto così strano. Ecco, forse questo è proprio l’aspetto peggiore di tutta questa storia. L’uomo, che è sempre stato considerato come un animale sociale si ritrova a doversi isolare dai suoi simili per salvaguardare sé stesso e tutte le persone a cui vuole bene. Diventa sempre più difficile stare distanti da chi si vuole bene, in questo periodo anche i nonni stanno cercando di rendersi il più “tecnologici” possibile per poter mantenere un contatto con il resto della propria famiglia. Per noi ragazzi è un po’ più semplice, la tecnologia aiuta moltissimo. Intenet ci sta aiutando a non sentirci soli, proponendo un sacco di attività da poter svolgere: ormai ci si è organizzati benissimo, si trascorrono le giornate tra lezioni universitarie online, videochiamate alle persone a cui vogliamo più bene e ricette super gustose che in qualche modo tengono alto il morale della famiglia. Già, perché è inutile negare che si sta soffrendo molto a causa di questa situazione, i telegiornali, programmi televisivi e articoli di giornale parlano sempre e solo di questo, elencando quotidianamente il bollettino della Protezione Civile che finora non ha mai portato buone notizie. Ci si riempie il cuore di tristezza nel vedere file di bare raccolte in enormi stanze o trasportate in altre città in attesa di cremazione, è triste pensare che una persona che ha vissuto e ha dato tanto nella vita, si ritrova nel suo momento più difficile da solo o, in casi fortunati, a vedere i suoi cari in videochiamata nelle sue ultime giornate in questa vita. È tutto così doloroso, sentire frequentemente il motto “andrà tutto bene” ma vedere che ancora moltissima gente soffre a causa di un qualcosa di cui al momento si sa ancora poco, quasi niente; mentre continua imperterrito a portare con sé vite, storie di persone e di quelle dei suoi cari che si ritrovano a vivere come in un film, in una realtà sopraffatta e poco reale. Dopo più di 50 giorni di restrizioni, stento a ricordare come si svolgeva una mia giornata tipo – eppure ricordo che era piena di cose da fare, sempre in giro e indaffarata e mi auguro con tutto il cuore che presto si possa tornare a fare tutto ciò che rende noi umani liberi, liberi di combattere le nostre battaglie, prenderci le nostre soddisfazioni, commettere sbagli, quindi cadere ma trovare la forza di rialzarsi sempre; abbracciare e baciare tutti i nostri affetti più cari senza paura di contagiare o essere contagiati, ma con la naturalezza di sempre. Concludo citando L. da Vinci che dice: “una volta aver provato l’ebrezza del volo, quando sarai di nuovo coi piedi per terra, continuerai a guardare il cielo”, aggiungendo che la vita si compone di più tempi; c’è il tempo per amare, gioire, soffrire e sperare, ora è quello di pregare che tutto si sistemi al più presto, rimanendo a casa fiduciosi che il domani che ci attende sarà sicuramente meraviglioso»

—  Carmen, 20 anni, San Giovanni in Fiore (CS)

 


«”La casa e il mondo: come erano e come saranno”  | Luogo di appartenenza, porto sicuro: così si avverte la casa al rientro da un’intensa giornata di lavoro. Varcata la soglia, tutto ciò che è stato vissuto fino a quel momento resta fuori, estraneo, quasi non ci appartenesse più. E così si esprime la propria libertà. Tra quelle mura si ritorna ad essere se stessi, senza filtri, senza forzature.

Negli ultimi tempi, a causa dell’emergenza che stiamo vivendo, il rapporto con la casa è mutato radicalmente. Non è più un porto sicuro, ma diventa spazio “chiuso” in cui avviene tutto in maniera ciclica. È una routine che si ripete e sembra non avere mai fine. Si dimenticano i giorni, si controlla l’orologio nella speranza che un altro tramonto giunga e l’indomani sarà migliore. Si aspetta ogni giorno il bollettino delle 18 che ci comunica il numero dei morti, sempre tanti, sempre troppi. E avanti così per due mesi.

Arriva poi il giorno in cui ci comunicano che abbiamo la possibilità di riprendere la nostra vita un passo alla volta, sempre muniti delle protezioni necessarie per limitare i contagi. Ed ecco che si ricomincia ad uscire, ma ciò che troviamo di fronte a noi è uno scenario del tutto diverso: siamo costretti a parlare mantenendo le distanze, abbiamo mascherine e guanti per proteggerci, dobbiamo dimenticare cosa sia un abbraccio, una pacca sulla spalla, un bacio dell’amato, dobbiamo accantonare tutte le cose che abbiamo sempre dato per scontate a cui adesso ripensiamo forse con un po’ di nostalgia. Si verifica il ritorno nella propria dimora di chi, per motivi lavorativi o legati allo studio, si era allontanato dalla propria terra d’origine. Ed ecco che la casa, in questo contesto, nella cosiddetta fase 2, riassume i connotati del luogo sicuro. Si torna a casa perché l’instabilità economica del momento non consente di affrontare spese per mantenersi fuori.

Tutto ciò ha prodotto ripercussioni significative anche dal punto di vista psicologico. Dalle giornate spensierate in compagnia delle persone a noi care e degli amici, si siamo ritrovati racchiusi nella nostra solitudine, con diffuse psicosi che ci hanno portato a guardare l’altro con particolare diffidenza. Mutano le relazioni anche tra i più piccoli, costretti a seguire le lezioni da casa, senza poter vedere i compagni di classe, senza condividere la merenda e diventa difficoltoso riuscire a gestirli chiusi tra le mura domestiche ed essere costretti a rifiutare una visita da nonni, una passeggiata al parco, un giro in bicicletta. “Non si può, c’è quel brutto mostro fuori” diciamo loro, cercando di confortarli e convincendoli che arriveranno tempi migliori.

Tuttavia, il virus non ci ha mai tolto una possibilità che, in circostanze come queste, diventa l’unico, fondamentale e forse spesso sottovalutato, mezzo per interloquire: possiamo parlare attraverso gli occhi, possiamo guardare le persone che abbiamo di fronte e capire attraverso questi le loro emozioni, le loro paure, tutte le sensazioni condivisibili e non. Possiamo, dunque, sfruttare questa nuova possibilità, provare a comprendere ciò che gli altri ci trasmettono con i loro sguardi. Insieme a questa, abbiamo l’occasione di reinventare il tempo a nostra disposizione, possiamo cogliere l’opportunità di rispettare il mondo che ci circonda, la natura che si è intanto riappropriata dei suoi spazi. Possiamo tornare a guardare l’orologio con un senso profondamente diverso. Senza più frenesie, senza corse contro il tempo. Dobbiamo semplicemente vivere.

Facendo mie le parole di Rita Levi Montalcini: dovremo aggiungere vita ai giorni, non giorni alla vita.

Saremo in grado di apprezzare il mondo da questa prospettiva?»

Anna, 26 anni, Cosenza, studentessa di  Scienze dell’Educazione

 


«2020, si è aperto un nuovo anno; nuovi propositi, obiettivi, progetti da raggiungere, ma dopo due mesi, da un giorno all’altro, tutto si è bloccato, ci siamo ritrovati chiusi in casa, separati da amici e parenti, abbiamo interrotto la nostra quotidianità per far fronte ad un improvviso cambiamento di rotta nelle nostre vite, qualcosa che nessuno si sarebbe mai immaginato di dover affrontare. Ci siamo ritrovati tutti nella medesima situazione, un momento di stand-by… uno stop alle nostre vite. Nessuno è riuscito a sfuggire a tutto questo, nessuna differenza di cultura, religione, stato sociale, razza, tutti accomunati dalle stesse paure, angosce, timori. Chi lo avrebbe mai pensato che nel 2020, in un mondo in continua evoluzione, segnato dal progresso, dalla tecnologia ci dovessimo nascondere e difendere da un nemico comune, un nemico invisibile, il Coronavirus?. Io – ragazza di 21 anni -, non potevo immaginare lontanamente che nel mondo in cui oggi viviamo potesse accadere tutto questo. Le pandemie, le malattie, la peste caratterizzavano i tempi di una volta, erano diffusi e comuni, ma non mi sarei mai aspettata che potesse capitare nel mondo progressista di oggi. E, quindi, ora penso, credevamo di avere il controllo di tutto, pensavamo di andare nella giusta direzione, ma oggi tutto è cambiato, qual è la giusta direzione da raggiungere? Il progresso, la tecnologia, internet, l’economia, il volere sempre di più, ora a cosa ci serve se davanti ad un virus ciò che più temiamo è la paura della morte? Ci siamo resi conto che l’uomo di fronte a tutto questo non può avere il controllo come pensava, ed è questa la dura realtà.
Vedere il numero dei contagi crescere, così come il numero dei morti, le città tutte vuote, non sentire le macchine e le persone in strada, non poter stare con la famiglia, gli amici, il proprio fidanzato, ha suscitato in noi emozioni contrastanti. Io personalmente mi ritengo fortunata, facendo un resoconto di questi mesi, lo sforzo di stare a casa non è niente in confronto alle persone che hanno combattuto e stanno ancora combattendo per vivere. Inoltre, ci sono tutti i medici, gli infermieri che mettono a rischio la loro vita per salvarne altre, tutte quelle persone che hanno dovuto lasciare i loro parenti in ospedale, senza poterli vedere, salutare e stargli vicino nella sofferenza e neanche poterli accompagnare nell’ultimo passo della loro vita e dargli degna sepoltura, penso a queste persone e a tutto quello che hanno vissuto e credo che non si può nemmeno descrivere e paragonare a ciò che ho vissuto io. Tutto questo ha cambiato e modificato non solo le nostre abitudini, ma anche la nostra cultura e i nostri rituali. Personalmente, ho percepito questo periodo con alti e bassi, è stato difficile inizialmente prendere a mano a mano la consapevolezza di ciò che stava accadendo, non poter uscire, non poter andare all’università, non poter stare a contatto con le persone. Ma con lo scorrere del tempo ci siamo “abituati”, ho cominciato a vedere ciò che prima davo per scontato, a capire l’importanza dei veri valori della vita, tra cui soprattutto quello della famiglia. Poter trascorrere giornate con i propri genitori, sedersi il pomeriggio o la sera tutti insieme a guardare un film, cucinare, aspettare il sabato sera o la domenica a pranzo per impastare cose fatte direttamente in casa, così come si faceva una volta. Sentire la mancanza per una persona che non puoi vedere e capire quanto tieni a lei. Passare quest’anno la Pasqua in casa, senza riunirsi con i propri parenti, è stata forse una delle cose che mi ha fatto capire veramente quanto possa essere importante per noi una festività, il “condividere” tutti insieme quel giorno. C’è stato un momento di pausa, del tempo per pensare a noi stessi, alle persone che amiamo, tempo per capire ciò che è veramente importante nella vita. Abbiamo visto la natura riprendere vita, riappropriarsi dei propri spazi; troppo spesso ci dimentichiamo di condividere il mondo con essa, e che siamo stati noi a trasformarla per adattarla alle nostre esigenze. La terra ha cominciato a respirare come da tempo non faceva. Queste sono le cose positive che dobbiamo ricordare di questo momento. La realtà a distanza di due mesi sembra essere migliorata, oggi possiamo respirare una semi-libertà e credo che apprezzeremo di più le cose che prima ci sembravano banali; fino a qualche giorno fa vivevamo una vita in continua corsa, non avevamo il tempo di ammirare e apprezzare quello che ci circondava. Non sarà semplice tornare alla piena normalità, mi auguro che di tutto ciò l’uomo possa trarne un insegnamento prezioso e che presto ognuno di noi possa ripartire lì dove la vita si è interrotta, così da cercare anche di migliorare tutti quegli aspetti che prima ci potevano far vivere male»

—  Martina, 21 anni, Lamezia Terme, studentessa di Scienze dell’Educazione.

 


«CASA COME RIFUGIO, CASA COME PRIGIONE | Casa è un termine che accomuna tutti, ma che allo stesso tempo divide, poiché ognuno di noi vive questo luogo in maniera diversa.

Sembrerebbe addirittura ironico fare quest’affermazione oggigiorno, in piena emergenza sanitaria da Covid-19, un momento senza dubbio singolare per la nostra storia che ci costringe a percepire la casa in maniera unanime come una “prigione”.

Eppure un tempo questo luogo era il nostro rifugio. Il luogo in cui tornare dopo una dura giornata di lavoro, il luogo in cui riunirsi con la famiglia nel week-end dopo settimane all’Università da studente fuori sede, il luogo d’incontro di parenti e amici,

il luogo sicuro in cui proteggersi da tutti i mali e trovare riparo dalla freneticità del mondo che c’è lì fuori.

Ormai la casa è diventata il luogo della quotidianità. L’unico in cui passare le nostre monotone giornate. Nelle quali siamo capaci di distinguere tre momenti: mattina, pomeriggio e sera, non più consapevoli del giorno della settimana, del mese in cui ci troviamo. Ieri era marzo, oggi siamo già a maggio. Sì, è proprio così sono passati due mesi da quando il Covid-19 ha preso il sopravvento sulle nostre vite. Sconvolgendo in primis il sistema sanitario, i medici, i ricercatori, i virologi che fin dall’inizio si sono adoperati, seppur impauriti, per darci delle risposte alcune delle quali ancora oggi discordanti poiché questo nemico comune ci ha colti di sorpresa, ci ha trovati impreparati. L’unica cosa, però, sulla quale non vi è stata esitazione e che all’unanimità ha riunito tecnici competenti e vertici del governo, è stata l’evitare i luoghi affollati, i luoghi d’incontro di massa, gli spostamenti non necessari. È questo ovviamente ci ha portati ad ancorarci nelle nostre case e ha cambiato le nostre abitudini, rendendoci sempre più dipendenti da una rete wi-fi, da un cellulare, da un pc, da un tablet. In modo da continuare tutto ciò che facevamo prima, o almeno le cose più necessarie, togliendoci ogni tipo di contatto con l’altro a livello umano.

È questo che forse fa più male, privarci di quella parte della nostra esistenza che ci permetteva di sentirci liberi, di svagarci, di sognare, di mettere un freno a tutto il nostro correre di qua e di là con le uscite di gruppo, con la visita in posti nuovi, o ancora di rendere questo correre più piacevole con la chiacchierata al bar tra amici o con una semplice passeggiata per raggiungere il posto di lavoro, l’Università, la scuola.

Adesso ci siamo solo noi, i nostri genitori, i nostri fratelli, le nostre sorelle e quell’orologio che segna il tempo che inesorabilmente passa secondo per secondo, minuto per minuto, ora per ora.

Non possiamo, dunque, affermare di avere al momento una percezione ognuno diversa di casa. Un tempo sicuramente era così. Ma oggi tutti insieme possiamo dire che la casa non è più quel luogo fisico, quell’edificio, quelle quattro mura della nostra abitazione. La nostra prospettiva è cambiata: la nostra casa sono diventate le persone che ci abitano dentro, e sono queste che sono il nostro rifugio, il nostro posto sicuro nel mondo, la nostra “casa”. Perché è vero che questo virus ci ha piegati tutti, ci ha portato a non avere contatti umani con l’altro, ma è anche vero che ci ha fatto riscoprire il valore autentico delle persone che ci stanno vicino, dei veri amici, di quelle persone che ci sono state sempre nella nostra vita e che sempre ci saranno, di quei momenti passati con l’altro che ci sembrano cose banali e, anzi, molte volte abbiamo rifiutato. Ci ha fatto riscoprire la fede che, molte volte, abbiamo messo da parte. Ci ha fatto riassaporare la cucina genuina, riscoprire le antiche ricette delle nonne, l’odore del pane fatto in casa. Ci ha insegnato a godere di tutto il tempo a nostra disposizione impiegandolo con le cose che più amiamo fare: leggere, scrivere, viaggiare con la mente, disegnare, fare sport o semplicemente litigare con i nostri fratelli per poi fare subito pace. Quindi, rivalutiamo questo tempo e guardiamo con occhi nuovi la nostra “casa” in modo tale che quando saremo usciti da quella che ci è sembrata per mesi una prigione, avremo capito il valore autentico delle cose che ci stanno intorno, delle bellezze del nostro Paese, di quelle cose che contano davvero e solo allora potremo dire di essere usciti con una nuova consapevolezza, con uno spirito nuovo, più forti di prima»

— Miriam, 22 anni, Delianuova (RC) | Studentessa di Lettere e Beni Culturali – UNICAL

 


«Torneremo ad essere liberi | Ero convinta che parlare e riflettere su ciò che sta accadendo nella nostra vita sarebbe stato più semplice, ma non è così. È ormai trascorso più di un mese da quando siamo stati costretti, per il bene della nostra salute, a rimanere chiusi in casa. Chi avrebbe mai detto che proprio quel luogo chiamato casa, da cui tante volte abbiamo pensato di fuggire, sarebbe divenuto per tutto questo tempo il nostro miglior rifugio? Del resto è lo stesso Marc Augé a definire i non luoghi in contrapposizione ai luoghi antropologi, cioè tutti quegli spazi in cui resistono valori identitari autentici: la famiglia, l’individuo, i luoghi della memoria… questa terribile pandemia tra i tanti disastri, non solo a livello sanitario ma coinvolgendo molti aspetti della vita personale e sociale, può diventare occasione per riflettere, e apprezzare tutto quello che prima davamo per scontato. Per questo motivo, nonostante tutto, dobbiamo essere riconoscenti: siamo a casa nostra, perché ne abbiamo una, e le cose che abbiamo da fare, quelle che per quanto possano essere limitate, come dedicare tempo alla ricerca di un nuovo libro da leggere, o la possibilità di mettere nel carrello gli ingredienti per una nuova ricetta con cui misurarci, hanno un nuovo valore e vanno tutte rispettate. Gustiamo un cibo pensando molto più del solito a quanto sia buono e a come non sprecarlo e cuciniamo, non più in tutta fretta o solo per sopravvivere, ma con una certa voglia di dargli un senso perché realizzato con le nostre mani. Ci voleva forse il virus per farci capire quanto è bello anche prendersi cura di noi stessi e dei propri valori o per scoprire che avere una famiglia con cui condividere tutto è fondamentale. Solo adesso mi rendo conto di quanto la finestra della mia stanza sia importante e speciale; è da essa che ogni giorno posso scorgere la luce del sole e osservare il tramonto che spesso mi soffermo a fotografare. È attraverso la finestra che posso ascoltare il canto degli uccellini, apprezzare i fiori che sbocciano o semplicemente sentire il suono e il rumore di qualche macchina passare. Forse il virus è venuto ad insegnarci tutto questo, tutti i valori che man mano abbiamo offuscato, le relazioni che abbiamo azzerato in favore della distanza digitale. Forse il virus ci vuole riportare alla vera realtà, ai sapori veri, agli odori. Così, anzitutto, si può dire che recupereremo l’autenticità delle relazioni. L’unico nostro contatto con l’esterno, con amici e parenti lontani, sono stati i social. Questo ci ha permesso di non sentirci ancora meno soli di quanto già lo fossimo, ma allo stesso modo di capire quanto sia fondamentale essere guardati realmente in faccia da qualcuno.  Oggi ci manca un abbraccio, un bacio, una stretta di mano, un caffè con gli amici, le passeggiate al mare la domenica pomeriggio. Di una cosa sono però certa, quando tutto questo sarà finito apprezzeremo un po’ di più tutte quelle piccole cose che prima ci sembravano noiose o pesanti, e sarà ancora più bello andare a prendere un caffè, guardare il tramonto o mangiare un gelato, e seguiremo le lezioni universitarie con un’altra ottica, un’ottica più leggera. E allora saremo cambiati dentro, saremo più maturi perché avremo capito che la vita non è eterna, che tutto ha un tempo e che non dobbiamo sprecarlo a lamentarci, ma ad occuparlo anche con tutto ciò che abbiamo sempre rimandato, perché il domani non è mai certo, ma io voglio imparare ad esserlo, perché voglio amare, sorridere ed apprezzare ogni piccolo attimo che la vita mi riserva oggi e anche domani. Andrà tutto bene, torneremo ad essere liberi, forse non domani, ma più avanti, però accadrà. Andrà tutto bene, recupereremo, senz’altro, il valore e la preziosità del lutto, la sacralità dei riti e torneranno le celebrazioni della messa il giorno di Pasqua e le lunghe tavolate in famiglia, a cui purtroppo quest’anno abbiamo dovuto rinunciare. Andrà tutto bene, perché anche un cuore che soffre che si svuota e pensa di non servire più a niente prima o rinasce»

—  Alessandra, 20 anni, Lamezia Terme (CZ)

 


«Gentile Professore Teti, la ringrazio per averci spinto a scrivere questa sorta di diario su come stiamo vivendo questo periodo difficile, in cui siamo stati privati di tutte le nostre abitudini, della nostra libertà. Io vivo in un piccolo paese in provincia di Cosenza di 14000 abitanti che si chiama Amantea. Amantea, pur essendo un piccolo paese, è ricco di tradizioni e riti, soprattutto nel periodo pasquale; quest’anno, a causa del virus, per evitare assembramenti, molti di questi riti sono stati annullati. I riti pasquali nel mio paese iniziano con la Domenica delle Palme in cui tutti noi ci rechiamo in Chiesa, con un ramoscello d’ulivo, per farlo benedire e proseguono, poi, con la Messa del Giovedì Santo in cui viene celebrata la cosiddetta ‘lavanda dei piedi’; questa cerimonia religiosa termina per ora di cena, dopo la quale si conclude la giornata religiosa con l’altrettanto tradizionale impegno del “Camminare i Sepolcri”. In tutte le chiese e nei calvari cittadini vengono allestiti i Sepolcri. Il rito dei sepolcri coinvolge sia grandi che piccini che, in gruppo, si organizzano e girano fino a tarda serata le 7 chiese principali in cui vengono deposti i sepolcri. Il mattino dopo ci si alza molto presto per la processione ‘delle Varette’ che parte puntualmente alle ore nove dal Duomo, dove le statue più importanti, per tutto l’anno, sono esposte al culto dei fedeli e si snoda per le strade principali, raccogliendo moltissime persone. I partecipanti sono amanteani che sospendono ogni attività lavorativa per partecipare a questa manifestazione di fede e che si conclude, dopo quasi quattro ore, con il rientro delle “Varette” in chiesa. I ‘Santarialli’, ovvero le statue, sono 9 ed iniziano con la statua di Gesù confortato da un angelo nell’orto degli ulivi e si concludono con il Gesù in croce, Gesù morto e la Vergine Addolorata; vengono portate a spalla dai fedeli e sono precedute dalla confraternita e seguiti dalle bande musicali del paese, precisamente tre. La Settimana Santa si conclude con la Messa di Pasqua la domenica mattina; io ho sempre partecipato ai riti della settimana Santa fin da bambina; per noi queste sono delle tradizioni che non si possono trascurare e quest’anno è stato molto angosciante non poter partecipare a quei riti che da generazioni venivano tramandati e tenuti in vita. Quest’anno è trascorso ripensando a tutto ciò come un ricordo; tutti questi riti ci facevano sentire vicini l’uno con l’altro: giovani, anziani, amanteani e non amanteani e quest’anno questa vicinanza, questa gioia che i riti della Settimana Santa portavano sono venuti a mancare. Mai come ora ci accorgiamo di quanto ci mancano queste cose che prima noi davamo per scontate, quanto ci manca l’affetto di quelle persone che prima potevamo vedere tutti i giorni, quanto ci mancano le nostre ‘abitudini’, le poche, ma bellissime tradizioni, i luoghi che eravamo abituati a frequentare, gli amici, i nonni. Questo virus sembrava qualcosa di molto lontano, invece ha raggiunto e colpito anche il nostro paese e in così poco tempo ci ha privato di tutto. Non avremmo mai immaginato di dover stare tutto questo tempo in casa per proteggere noi stessi e gli altri. Stare a casa mi porta sicuramente angoscia, è una sensazione che non si può descrivere; l’unica cosa che riesco a pensare è che lì fuori ci sono medici e infermieri che lottano giorno e notte per proteggerci, per cercare di salvare vite umane. Vite umane che ogni giorno vengono stroncate da questo virus e che non possono avere nemmeno un ultimo saluto, una degna sepoltura da parte dei propri familiari. È tutto cosi triste, le mie giornate oscillano tra videolezioni, chiamate con gli amici, musica e film che mi aiutano a scappare, anche se per poco, da questa triste realtà. La mia vita in questi 45 giorni è cambiata, mi manca il semplice fatto di fare due passi, mi manca prendere il pullman per recarmi all’università, mi manca andare a trovare i miei nonni, mi manca uscire con i miei amici. L’unica cosa positiva è che, stando più tempo a casa, ho più tempo da trascorrere insieme alla mia famiglia; penso sia molto importante restare a casa in questo momento, per quanto sia difficile, cercando di preservare la mia salute e anche quella di chi mi sta attorno; soltanto restando uniti e a casa ora, potremo di nuovo uscire e riprendere tutto ciò di cui siamo stati privati. Quando finalmente potremo tornare ad abbracciarci, i nostri abbracci saranno veri e autentici e noi saremo più responsabili. Il futuro adesso appare molto incerto, quando tutto questo finirà l’economia del nostro Paese sarà completamente stravolta, sarà molto difficile ripartire, molte persone saranno costrette a chiudere le proprie attività e molte altre, quindi, perderanno il lavoro. Spero che tutto questo non accada, che riusciremo tutti ad uscire da questa difficile situazione adottando le giuste norme comportamentali; per fare ciò c’è bisogno sia della nostra volontà, ma anche dell’aiuto dello Stato. Forse alla fine di questa triste storia daremo valore ad ogni singolo secondo, ad ogni singolo gesto. Inizieremo a valorizzare non solo il presente, ma tutto ciò che la vita ci pone davanti, e forse riusciremo a capire che le cose vanno apprezzate quando si hanno e non quando ci vengono a mancare»

—  Anna, Amantea

 


«Verso la rinascita. L’arcobaleno torna finalmente a splendere. | È il terzo giorno di via libera, di riapertura, di ripresa.
Tutti facciamo fatica a credere in una rinascita, in una nuova era, dopo aver vissuto questa catastrofe.
Tutto inizia allo sbocciare del nuovo anno, tanto atteso quanto disastroso. Ognuno spera di realizzare tutti quei “buoni propositi” che si è prefissato, ma lo scoppio della pandemia riesce a bloccare tutti.  Bambini, giovani, adulti e anziani si trovano catapultati in un nuovo mondo che li soffoca, senza lasciare scampo e senza fare alcuna distinzione.
È stato difficile dire STOP alla nostra vita, alla nostra routine quotidiana, ai nostri progetti e ai nostri viaggi.

È stato difficile restare bloccati nelle nostre case senza sentire il rumore del traffico,  le urla della gente, vedere i turisti scendere al mare durante la festa del 4 Maggio, la festa di San Francesco di Paola e festeggiare come ogni anno.

È stato difficile non poter sentire l’odore del mare e la salsedine che ti bagna la faccia durante i pomeriggi passati a guardare il tramonto ed è stato altrettanto difficile abituarsi allo scorrere del tempo lento e ai mille pensieri che si facevano spazio nelle nostre menti. 

Nessuno aveva più fiducia nella ripartenza. È stato tutto difficile e surreale, ma è stato anche molto facile capire quanto è importante la famiglia, l’affetto di chi ti vuole bene, quanto è bello sedersi a tavola e mangiare insieme senza preoccuparsi dello scorrere veloce del tempo per riprendere la nostra vita frenetica.

È stato facile comprendere quanto un abbraccio, un sorriso, un saluto, non son così scontati come crediamo,  che il lavoro non è l’unica via verso la felicità e che un gesto di aiuto verso gli altri migliora anche noi stessi. Che un “GRAZIE”, a volte, è capace di scaldare anche i cuori più freddi. .

Ancora, è stato facile capire quanto siamo fortunati ad avere una casa, un computer, uno smartphone e un terrazzo per guardare il tramonto.

Nell’ultimo periodo siamo stati inondati da telegiornali, articoli, notizie radio e post pubblicati sui social network.  Ricorrenti erano le parole “pandemia”, “contagi”, “morti” che, fortunatamente, si stanno trasformando in “ripresa”, “guariti”, “luce”.

Oggi quel famoso arcobaleno sta ritornando a splendere in cielo, più bello di prima.

Molti sono stati i pensieri che ho fatto in questi giorni, uno in particolare durante il periodo della Quaresima, che penso sia condiviso da molti: mai come ora abbiamo vissuto la Quaresima di Cristo, anche noi, seppur in modo diverso, ma con dolore, paura e penitenza.  In questo mondo martoriato molti hanno riscoperto il valore della preghiera, dei riti e delle cerimonie a cui erano talmente abituati da non farci più tanto caso. E cosi come Gesù, noi tutti abbiamo lottato contro questo nostro nemico invisibile, rendendoci conto che ogni evento negativo, ogni catastrofe, ne porta con sé uno positivo, di rinascita.

In un mondo dove tutti corrono, dove i rapporti si sono limitati ad una semplice amicizia virtuale, troppo spesso si è perso di vista l’essenziale. Ora è arrivato il momento di fermarsi, di guardare la vita, il futuro con occhi diversi, nuovi, di capire chi davvero vogliamo essere. Guardare la nostra fragilità e la nostra impotenza di fronte alla superbia del nostro crederci onnipotenti. Capire che nessuno si salva da solo e che la mano di ognuno è fondamentale per ripartire.  Ad una nuova vita fatta di sorrisi e meno rumore!

Torneranno il sole, il mare, i caffè in compagnia, le canzoni e le feste nelle piazze, gli amici. Torneremo a vivere e sarà più bello di prima»

—  Francesca, 19 anni, Paola (CS)

 


«“Quando tutto si ferma … e i pensieri corrono” | Oggi, possiamo affermare di stare vivendo una situazione surreale, un “incubo” dal quale ancora non riusciamo a risvegliarci. Spesso, sbagliando, ci sentiamo invincibili, ed oggi più che mai tutti ci sentiamo così tanto piccoli e fragili di fronte a qualcosa di tanto grande e spaventoso. Il Coronavirus è spesso definito come un “mostro invisibile”, e proprio come tale è piombato nelle nostre vite improvvisamente, quasi senza che ce ne accorgessimo. Non conosciamo il suo aspetto, non sappiamo come difenderci. Ci senza quasi di dover combattere una guerra senza armi.

Il virus non si mostra, noi non lo vediamo, ma vediamo tutto ciò che provoca, il dolore, le sofferenze, le perdite, le lacrime, la paura … Ed ecco che tutto oggi assume un valore ed un significato diverso. Niente potrà tornare mai più come prima. Da due mesi le nostre vite sono profondamente cambiate, e con esse, anche noi stessi quasi non ci sentiamo più gli stessi, stentiamo a riconoscerci, travolti dallo stop improvviso di un mondo che è sempre stato in continuo movimento. Abituati a vedere la nostra vita come una “eterna corsa” ci siamo trovati improvvisamente a doverci fermare, a dover mettere tutto in pausa e a doverci preparare a ricominciare tutto da capo.

Ho scelto di sviluppare la mia riflessione attorno a tre tematiche: lo spazio, il luogo, e il tempo. Questi tre concetti sono quelli a cui ruota attorno, potremmo dire, tutta la nostra esistenza.

Cosa sono lo spazio e il luogo? Essi sono le componenti base del mondo vissuto. Yi Fu Tuan definisce lo spazio come “libertà”, il luogo come “sicurezza”. Lo spazio è qualcosa di esterno, di immenso, che non sempre siamo capaci di conoscere. Qualcosa caratterizzato dal dinamismo, dal continuo cambiamento e dall’imprevedibilità. In questo momento per noi lo spazio è il mondo esterno, è tutto ciò da cui oggi ci sentiamo lontani. Al contrario, il luogo è un’entità unica, che ha una storia e un significato: è una realtà che va compresa attraverso la visione che le persone gli hanno attribuito, e gli attribuiscono, un valore. Il luogo racchiude un po’ la nostra essenza. Se parliamo di luoghi, oggi, in questa situazione che stiamo vivendo, il nostro primo pensiero è la nostra casa. La casa rappresenta per me, per noi, il centro del mondo. Nessun posto è come casa. È li che nasciamo, è lì che cresciamo, è lì che sogniamo ed è lì che viviamo probabilmente i momenti più significativi della nostra vita. Il filosofo francese Gaston Bachelard paragona la struttura della casa alla struttura della nostra anima. Ed è vero. Essa è il nostro angolo di mondo, il nostro primo universo. Bachelard la definisce “un corpus di immagini che forniscono all’uomo ragioni o illusioni di stabilità”.

Oggi, possiamo dire che i concetti di spazio e luogo hanno assunto un aspetto totalmente diverso. Essi si sono intrecciati e facciamo quasi difficoltà a distinguere l’uno dall’altro. Lo spazio che fino a due mesi fa veniva percepito come “libertà”, come movimento, come azione, è adesso visto come pericolo, come fonte di timore per il futuro. Oggi è percepito come un qualcosa da cui dover stare alla larga, ma come qualcosa che allo stesso tempo ci appare meraviglioso e magico, e a cui speriamo presto di poterci riavvicinare. Dall’altro lato, la nostra casa, da sempre per noi il punto di riferimento, di ritorno, ha assunto oggi l’aspetto di prigionia, di gabbia. La casa è diventata il luogo in cui trascorrere le nostre intere giornate. È il luogo che ci isola da tutto ciò che succede fuori. Un luogo che stiamo imparando a conoscere anche sotto vari aspetti che non avevamo mai probabilmente preso in considerazione.

La casa è per me oggi il mio piccolo “microcosmo”, la mia piccola realtà in cui iniziare a progettare il mio futuro, un futuro di cui ancora non si riescono a delineare i tratti. È un futuro che per adesso vedo come un grande punto interrogativo. E nel mentre lo sogniamo questo futuro, le giornate, le ore passano. È strano vedere il nostro rifugio trasformarsi in una prigione. È quasi come se la nostra stanza ci apparisse sempre più piccola di quello che era prima, un luogo che si racchiude sempre più verso se stesso e che ci fa sentire la mancanza della nostra libertà, la mancanza della vita fuori.

Oggi il mio quotidiano è totalmente diverso. Costretta a progettare le mie giornate in casa, passo molto tempo davanti allo schermo del mio computer, dedicandomi allo studio e cercando di approfondire tanti aspetti e riflessioni lasciate in sospeso per la solita “mancanza di tempo”. Spesso, cerco rifugio nei libri, nella letteratura, nella musica.

Ora potremmo dire che abbiamo tutto il tempo del mondo per riprendere in mano quelli che sono i nostri pensieri, le nostre riflessioni, fare i conti con le nostre incertezze e con i nostri dubbi. Questo periodo rappresenta per me, d’altronde, anche una preziosa occasione per passare del tempo con la mia famiglia. Troppo spesso non capiamo l’importanza della famiglia, di tutto ciò che normalmente ci appare come scontato o come dovuto. Ebbene non è così. Non dobbiamo mai dar nulla per scontato, ma godere a pieno di ogni istante della nostra vita. Chi ci manca oggi davvero? Le prime persone che ci vengono in mente a questa domanda sono quelle che correremo ad abbracciare alla fine di questo terribile incubo. Adesso, più che mai, comprendiamo il valore di un semplice abbraccio.

Oggi mi mancano tanto le mie amiche, i miei nonni, i miei zii, i miei cugini, le mie passeggiate, le semplici uscite del fine settimana, mi manca il mare che ho vicino casa e che i palazzi davanti mi impediscono di vedere. Mi manca l’università, le lunghe ore di lezione, le risate con i colleghi, le feste, i pranzi, le colazioni, lo studio collettivo, i progetti, le aspirazioni, i sogni. Mi mancano i viaggi, mi manca sfare e rifare la mia valigia. Mi mancano i sorrisi, che oggi sono coperti da migliaia di mascherine. Mi manca tutto quello che prima vedevo come “normalità” è che oggi mi appare come la felicità più grande. Spesso pensiamo alla felicità come una grande aspirazione, qualcosa a cui speriamo di arrivare e che vediamo quasi come intoccabile, per poi capire che in realtà la abbiamo davanti ai nostri occhi. La felicità sta nelle piccole cose.

E invece, a proposito del concetto di tempo. Che cos’è davvero il tempo? Esso è una delle cose più preziose che possediamo. Da un lato c’è il tempo che scorre senza poter essere bloccato o controllato, quello caratterizzato dalle ore, dai secondi e dai minuti. Dall’altro lato esiste un tempo personale, soggettivo, che ognuno di noi possiede. Se per il primo noi non abbiamo nessuna voce in capitolo, per quanto riguarda la seconda accezione di “tempo” a cui mi riferisco, ognuno di noi è padrone del proprio tempo. Ognuno di noi è padrone dei propri pensieri, delle proprie riflessioni, dei propri sogni. Ognuno di noi è cosciente di chi è davvero: un soggetto pensante e agente nel mondo. Il Coronavirus, oggi ci ha portato a fare i conti con il nostro “io”, spesso anche arrivando a farci entrare in contrasto con esso. Ci sentiamo bloccati, ci sentiamo immobili, eppure la nostra mente non è mai ferma. I nostri pensieri fanno un grande rumore all’interno di questa grande confusione che abbiamo attorno.

E poi ci sentiamo tristi ad affacciarci dalla finestra e a vedere che fuori è tutto fermo. Ma sappiamo che il mare c’è, anche se è nascosto da tutte quelle case che lo coprono e noi non riusciamo a vederlo. La primavera è passata, i fiori sugli alberi sono sbocciati anche se noi non abbiamo potuto vederli. Ci sentiamo vuoti a vedere le piazze silenziose, i parchi deserti, le spiagge isolate. Assorbiamo quel senso di vuoto, che avvertiamo nel profondo delle nostre anime.

Oggi, tutto è fermo, eppure, tutto racchiude una potentissima forza di vita, e dobbiamo far di tutto per riportarla alla luce. Oggi il nostro paese, che siamo abituati a vedere esplodere di energia, resta in silenzio. Se da un lato la voglia di ripartire è tanta, dall’altro c’è anche tanta paura. Paura di affrontare una realtà diversa da quella che conosciamo.

Credo che inizieremo a vedere il mondo sotto una luce diversa, e sta a noi preoccuparci di proteggerlo, di proteggerci e far sì che da tanto smarrimento e sofferenza venga fuori un futuro felice.

Questa foto, che ho scattato qualche mese fa raffigura uno dei tramonti che ero solita a guardare durante le mie solite passeggiate.

Victor Hugo affermava: “È una consolazione dell’uomo il fatto che il futuro sia un’alba invece che un tramonto”.

Il sole dunque, solo in apparenza viene inghiottito dalla notte, ma in realtà è sempre lì, pronto a risorgere in una nuova alba. Il nostro futuro oggi, mi piace immaginarlo un po’ così»

—  Daniela Trifilio, 21 anni, Scalea (CS)

 


«“L’invisibile che ci mette in ginocchio”Prima di chiudere le frontiere e isolare i cittadini e, quindi, applicare la quarantena a livello nazionale, tutti i paesi del mondo hanno sminuito la minaccia del virus denominato Coronavirus, (Covid-19), chiamato così proprio in relazione alle pandemie passate che hanno anch’esse causato milioni di morti come la SARS e la MERS. Presidenti di molti paesi hanno pensato di continuare liberamente le attività di ogni tipo, hanno sottovalutato e sminuito la minaccia di questo virus, addirittura alcuni l’hanno definito una “fantasia”. Nessuno immaginava una pandemia del genere. La si può definire forse una “guerra “senza armi? Io credo di sì in quanto così letale e di rapida diffusione in grado di non risparmiare nessuno.

Successivamente all’aumento giornaliero di morti e contagiati l’OMS dichiara “pandemia globale”.

Dopo questa dichiarazione tutti siamo caduti nel panico e nel buio più totale, siamo impauriti e ci chiediamo ogni giorno cosa ci aspetterà, ma soprattutto cerchiamo di capire da cosa è scaturita questa pandemia.

Oramai siamo tutti costretti a stare chiusi nelle nostre case da mesi, tutto il mondo si trova in ginocchio dinnanzi a questo nemico invisibile.

Da quando questo virus si è diffuso, a partire dalla Cina, precisamente a Wuhan, all’Italia, agli Stati Uniti fino a colpire i paesi più poveri e, quindi, con più rischio di mortalità in Tv, sui giornali, sui media, tra amici, in famiglia non si parla d’altro.

Non so se quest’evento globale sia stato causato dai pipistrelli che trasmettono questo virus agli umani o sia stato creato in laboratorio per devastare alcune situazioni politiche ed economiche, come molti suppongono, ma so certamente che ha avuto un grande impatto sulle nostre vite e sulla nostra quotidianità. Ha scombussolato le nostre abitudini, i nostri rapporti con gli altri sono cambiati radicalmente in quanto si ha paura del contatto, del semplice parlare o incontrare una persona, ha causato una grande crisi economica ma soprattutto una crisi sanitaria.

Non si può passeggiare liberamente, non si possono abbracciare i propri cari, gli amici. Ciò è permesso solo virtualmente, ma ovviamente non è lo stesso, perché non si sente il calore, il profumo e non si vedono più sorrisi se non con gli occhi a causa di queste maledette e fastidiose mascherine che siamo costretti ad indossare. Non è possibile uscire a mangiare una pizza e ridere e scherzare in compagnia, non si può viaggiare per altre città, non si può prendere un caffè al bar seduti ad osservare il tramonto, non è permesso andare in discoteca o andare semplicemente in montagna per fare un pic-nic e respirare un po’ di aria pura. Ecco questo è tutto quello che mi manca di più, ed è ciò che mi provoca una grande nostalgia perché mi rendo conto che, al momento, tutte queste cose belle siano solo un desiderio difficile da poter realizzare. Infatti, come diceva Marcel Proust “la nostalgia è legata anche al cibo”, che, però, non riguarda il cibo in sé, ma le affettività legate ad esso, le emozioni, le persone e il contesto in cui il cibo viene consumato.

Per quanto riguarda le scuole e le università posso dire che si sono mosse in tempo con la didattica a distanza per garantire il diritto allo studio a piccoli e grandi. Riguardo ciò, però, si può constatare che purtroppo non tutti hanno la possibilità di acquistare apparecchiature che lo permettono, però tutti i cittadini italiani si sono mostrati solidali con chi ha più difficoltà, fornendo gli aiuti necessari soprattutto verso coloro a cui mancano queste attrezzature elettroniche, ma soprattutto verso chi purtroppo sta soffrendo anche la fame.

Devo ammettere che anche la mia vita è cambiata molto. Ci sono giorni in cui parlo ore e ore al telefono, sperimento nuove ricette, scrivo, studio, ascolto musica, guardo serie tv, però ci sono anche giorni in cui mi sento davvero sola, mi sento quasi oppressa e mi fermo a pensare, rendendomi conto della gravità della situazione.

Penso a tutti quei medici e infermieri che lottano tutti i giorni contro questo nemico invisibile per salvare la vita degli altri, mettendo in gioco per primo la loro di vita. Penso a quei poveri anziani che sono deceduti a causa del Coronavirus, e che non hanno potuto dire un’ultima parola ai propri cari, vedere i nipoti, i figli. Mi crolla il mondo addosso! Ma è davvero questo il futuro che tanto desideravamo?

A volte mi pongo delle domande a cui cerco di rispondermi. Mi chiedo se questa catastrofe, questa pandemia che ci sta distruggendo in tutti i sensi fosse stata imprevedibile. É vero che è arrivata in maniera imprevista, però io credo che si sarebbe potuta “prevedere” in un certo senso, magari basandosi sulle pandemie e le catastrofi passate come la peste, la spagnola, l’inquinamento della natura, la produzione esagerata di carni e molte altre. La società e il governo, purtroppo, hanno pensato a ben altro rispetto al bene comune, preoccupandosi più per situazioni fiscali e corruzione ad esempio, che per la tutela e la salute dei cittadini.

Secondo il mio punto di vista, sembra che la natura si stia ribellando, a causa dei comportamenti malevoli di tutti noi essere umani-animali, perché noi non siamo i padroni del mondo, ma siamo ospiti di passaggio che devono rispettare il luogo in cui viviamo.

In questi mesi le città non sono più dei luoghi con un’anima, ma sono diventate dei non luoghi che ci mettono paura nel ritorno che potrebbe risultare molto amaro e pauroso.

Si percepisce un silenzio che fa quasi paura, sembra però respirare aria più pulita, sembra esserci meno inquinamento, si sentono le campane della chiesa, i cinguettii degli uccelli, i ronzii delle api che si poggiano sui fiori degli aranci. Addirittura sui notiziari si vedono animali di ogni tipo lungo le strade.

Sarà difficile ripartire, uscire dalle nostre case senza paura, sarà difficile ritornare al mare, andare al ristorante. C’è troppa paura, la nostra psicologia è cambiata, il modo di pensare, di parlare, di dialogare, di salutarci. Il solo pensiero di ritornare a condurre la vita di prima fa paura; questo virus potrebbe fare altre vittime e tra queste potremmo esserci anche noi; molte persone dicono questo. Io credo che, però, gradualmente si dovrà ripartire, magari indossando sempre quelle fastidiose mascherine e guanti, mantenendo le distanze, però ripartiremo. Io credo anche che questa pandemia abbia anche degli aspetti positivi e che ci sia servita da lezione, perché ci ha fatto apprezzare molto più la vita, ci ha fatto capire che sono i piccoli gesti quelli che contano davvero, che bisogna rispettarsi a vicenda e rispettare il mondo in cui viviamo e, soprattutto, che la vita che noi tutti conducevamo prima della diffusione di questo maledetto virus non andava per niente bene. Le troppe tecnologie e le troppe artificialità dell’uomo facevano male e portavano alcune anche alla distruzione.

Quindi, spero, soprattutto, che questo COVID-19 dia la speranza e la possibilità di cambiare molte cose e che serva per poter prevedere altre “imprevedibili” catastrofi e pandemie, non dico per poterle evitarle, ma quanto meno per limitarne la diffusione perché ancora oggi le vittime, i morti e i contagiati sono davvero troppi.

Ora vorrei parlare un po’ della situazione del mio paese, Praia a Mare in provincia di Cosenza, Calabria. Questa che potete osservare qui in basso è l’isola di Dino, ovvero la regina di Praia a Mare, ciò per cui è conosciuto il paese e meta di molti turisti. Come potete immaginare, è una meta turistica stagionale, ricca di meraviglie naturali. Ho voluto inserire queste due immagini (sezione Media – ndr) proprio per renderci conto di quanto sia triste, amara e critica questa situazione e soprattutto la crisi che apporterà a tutti i poveri commercianti e vari imprenditori in loco.

È piena di turisti, i lidi svolgono le attività regolarmente, ci sono molte persone che fanno i tuffi e si divertono tra loro e le barche sono pronte per partire. Insomma, sembra tutto così bello, calmo, rilassante, caloroso, pieno di persone, c’è tanta felicità, spensieratezza e voglia di vivere a pieno le giornate di sole.

Praia a Mare e la sua Isola Dino, durante il coronavirus. Questa seconda immagine è identica alla prima, con qualche differenza che lascia perplessi. Qui qualcosa è andato storto, il virus ci ha messo davvero in ginocchio! Non c’è felicità, non ci sono più i turisti, i lidi non possono più esercitare la loro attività. È diventato un luogo senza un’anima, si percepisce silenzio, senso di vuoto, tristezza. Resta solo la bellezza della natura»

—  Nicole, 20 anni Praia a Mare (CS), studentessa di Lingue e Culture Moderne

 


«Giorno 57 |  Voglio esporvi il mio pensiero su questa situazione ad oggi a noi sconosciuta. Da circa due mesi a questa parte la nostra vita è cambiata totalmente. Se prima eravamo liberi di girare, di vivere la nostra quotidianità con la massima calma e con tranquillità, oggi, invece, siamo costretti a rispettare delle regole, ci troviamo tutti quanti a riguardare le priorità di ognuno di noi e della nostra vita. Spesso in questi giorni bui rimpiangiamo cose che prima davamo per scontato, ad esempio: uscire con gli amici, fare una semplice passeggiata all’aperto, mostrarsi gentile con una persona quando si doveva chiedere qualcosa, oppure dare un semplice abbraccio all’amica di sempre o addirittura uno scambio di sguardi, ad oggi tutte queste cose ci mancano. Quante volte è capitato di usare l’arroganza, di essere superficiali su un qualcosa magari anche involontariamente, colpa della vita frenetica; invece adesso ci stiamo accorgendo che ogni cosa fatta con amore, garbo, con dolcezza assume tutt’altro valore. Prendiamo l’esempio di un semplice studente, che ad oggi soffre di non poter essere seduto su quei tanto amati quanto odiati banchi di scuola, mentre la mattina era noioso svegliarsi presto e stare cinque ore seduto in un aula ad ascoltare la prof.; ora, invece, risulta opprimente farlo da casa, perché non si ha la pacca sulle spalle del tuo compagno di banco che ti incoraggia, ti dà un in bocca al lupo prima di una semplice interrogazione. Cerchiamo, però, di vedere anche il lato positivo in tutto questo trambusto; ad esempio si è riscoperto lo stare insieme in famiglia; magri prima i genitori passavano pochissimo tempo con i loro figli per via del lavoro, adesso, invece, non passando più tempo a casa si sono dedicati a loro, nello specifico a giocare insieme, a farli studiare, a preparare una pizza, un dolce o semplicemente i piatti tipici. Da questa pandemia ne usciremo tutti diversi, soprattutto caratterialmente, perché questo periodo deve farci capire tante cose e, soprattutto, non ci deve far dimenticare tutto quello che siamo riusciti a scoprire in questi mesi»

Francesca, 23 anni, Lattarico, studentessa di Scienze dell’Educazione

 


«10 Aprile 2020, Roccella Jonica (RC) | Aprendo gli occhi la mattina del Venerdì Santo, per una frazione di secondo, permetto a me stessa di pensare che essa sarà diversa da tutte le altre, semplicemente perché è la mattina del mio compleanno. Ma in un attimo mi piombano addosso tutte le giornate precedenti a questa, contraddistinte da una ripetizione quasi meccanica di azioni ed eventi, una disarmante monotonia. L’unica cosa che varia è il numero dei decessi annunciati in TV.

È passato poco più di un mese dall’ultima volta che ho messo piede fuori casa, dall’ultima volta che ho abbracciato i miei amici o baciato mia madre.

La mia stanza, un tempo un rifugio, un approdo sicuro, mi appare sempre più opprimente, come se all’improvviso queste quattro pareti potessero avvicinarsi l’una all’altra e chiudersi intorno a me, intrappolandomi nel loro abbraccio asfissiante. Cerco di non pensare a cosa stia succedendo fuori dalla mia stanza, fuori dalla mia casa. Ma non ci riesco, in un momento del genere è impossibile non pensare al resto dell’umanità. Allora penso, rifletto, medito, sogno…

Affido le mie riflessioni alla pagina bianca, è un atto liberatorio che mi salva poco a poco da quell’abbraccio che minacciava di stritolarmi.

Questo stato di quasi totale isolamento mi ha messo a stretto contatto con i miei reali bisogni. Questa sorta di “sospensione” mi ha costretto a rivalutare e modificare la mia prospettiva sulla vita.  

Prima del Coronavirus consideravo come sicure, quasi ovvie, molte cose, dandole inconsciamente per scontate. Il terreno sotto i miei piedi, l’amore della mia famiglia, la vicinanza e il contatto con gli altri, un pomeriggio trascorso tra le vie del mio paese. Mi chiedo quanti, come me, abbiano dato per certa la propria quotidianità, vivendo nella presunzione che tutto ciò da loro posseduto sarebbe rimasto esattamente com’era. In questo frangente appaiono enormemente attuali le parole del poeta portoghese Fernando Pessoa in “Libro dell’inquietudine”: «Benedetti siano gli istanti e i millimetri e le ombre delle piccole cose».

Oppressi dal distanziamento sociale rimpiangiamo i millimetri, divenuti oramai metri, che prima ci separavano. Allontanati dagli affetti più cari ci aggrappiamo agli istanti vissuti prima della pandemia, agli attimi insignificanti, banali, alle ombre delle piccole cose.

In questa situazione emergenziale, costretti per necessità a vivere una vita che non abbiamo scelto, appare particolarmente difficile non riflettere sul proprio vissuto e sui possibili scenari futuri, dominati dall’incertezza. Ciò che appare ovvio agli occhi di chiunque è che la vita dopo il Coronavirus non sarà quella di prima. Una prospettiva che si è già presentata in fasi storiche recenti, basti pensare al dopoguerra o al post-11 Settembre. Sarà necessario adattarsi a un nuovo modo di vivere, relazionarsi e di affrontare la quotidianità. Ogni aspetto della nostra vita subirà un rimodellamento: dal fare la spesa alla partecipazione alle funzioni liturgiche, dai viaggi ai momenti di convivialità. Dovranno essere rielaborate le regole di convivenza e condivisione degli spazi. Ci sarà un prima e un dopo. Le nostre vite cambieranno, saranno diverse in modi che al momento non riusciamo a comprendere fino in fondo. Saremo noi ad essere diversi. Mi auguro che questa nuova realtà ci porti ad essere individui più consapevoli e lungimiranti, capaci di dar valore alle ombre delle piccole cose»

—  Giorgia Lia, 19 anni, Roccella Jonica (RC)

 


«Il cambiamento imposto dal coronavirus sembra una sofferenza difficile da sopportare. L’individuo non è nato per vivere da solo, ma per stare insieme agli altri. Per il filosofo greco Aristotele, l’uomo è un “animale sociale”, assolutamente incapace di vivere isolato dagli altri. Dunque, è chiaro che il periodo che stiamo vivendo ora è del tutto innaturale. Siamo in formazione per un periodo futuro diverso da quello vissuto fino a poco tempo fa. Difficilmente ci libereremo di questo ricordo e ognuno lo racconterà a modo suo, in base a come l’ha vissuto, affrontato e superato. La Santa Pasqua che, oltre ad essere importante dal punto di vista religioso, è sempre stata anche un’occasione per stare con la propria famiglia, svagare e alleggerire le menti dai pensieri quotidiani, quest’anno è stata del tutto diversa: sembrava quasi essere un giorno come un altro. Per me è stato anche un po’ triste, dato che mio padre lavora all’estero e non è potuto tornare a casa, a causa delle misure restrittive adottate per via del coronavirus.

Tuttavia, da quando il Coronavirus è arrivato, ogni punto di riferimento ed ogni certezza sembrano aver lasciato spazio ad un domani sempre più difficile. Tutte le certezze stanno crollando.

Persino la casa, che è sempre stata per moltissimi di noi un punto di riferimento, oggi è vista come una specie di prigione. Potremmo, però, continuare a vederla come un rifugio: se pensiamo alle numerose persone che, là fuori, stanno combattendo tra la vita e la morte, potremmo sentirci protetti tra le nostre quattro mura.

Si tratta, dunque, di un fenomeno che ci sta cambiando, e sta cambiando anche le nostre idee, pensieri e stati d’animo.  Le cose che prima davamo per scontate, ora ci mancano e ne abbiamo la nostalgia. Anzi, forse sono soprattutto quelle a mancare, perché facevano parte della nostra quotidianità e, all’improvviso, ci sono state strappate via.

Io penso che questo lockdown ci abbia trovati impreparati: nella nostra vita tanto frenetica, ora che ci siamo dovuti fermare, non sappiamo più cosa fare. Non sappiamo più chi siamo. Dunque, a parer mio, dovremmo, in questa spiacevole situazione, cogliere l’opportunità di poterci mettere davvero in ascolto con noi stessi una volta per tutte, perché siamo troppo abituati persino a sfuggire ai nostri pensieri, alle nostre sensazioni ed emozioni»

Adele, 21 anni, Spezzano della Sila

 


«Qualcosa cambiera? | La quarantena non è uguale per tutti. Dipende se si è soli o con qualche componente familiare, dipende dai metri quadrati della casa, dal fatto di avere o meno un balcone, un terrazzo, un giardino e dalla capacità di tenere il frigo pieno anche non lavorando.

La pandemia è un portale, non si tornerà più alla ‘normalità’. Chi può pensare di salire sull’autobus o mandare i propri figli a scuola senza avvertire la sensazione di viva paura? Chi può pensare ai piaceri quotidiani senza valutarne il rischio? Chi fra gli scienziati e fra i medici non sta pregando per un miracolo? Quale prete non si sta sottomettendo alla scienza? E anche mentre il virus si sta espandendo, chi non può emozionarsi per il risveglio della natura, al suo rimpossessarsi di ciò che era suo?

Il numero dei contagi nel mondo ha superato il milione. Il virus si è spostato liberamente lungo le tratte commerciali e ci ha rinchiuso in casa. Ha colpito in maniera drastica le più ricche e potenti nazioni del mondo, portando il motore del capitalismo a bloccarsi, come un forte scossone. Seguiamo le statistiche e ascoltiamo storie degli ospedali, di infermieri sopraffatti; di medici che devono prendere la scelta di chi salvare e chi lasciar morire. Sta morendo la migliore delle generazioni: quella che senza studi ha educato i suoi figli. Stanno morendo quelli che hanno sofferto di più, quelli che hanno lavorato come bestie, quelli che hanno lottato per assicurarci un futuro migliore. Quelli che ora desideravano godersi i propri nipoti. Muoiono soli e spaventati, se ne vanno senza disturbare, senza un addio.

Forse non sapremo mai il vero profilo della crisi, anche se ci toccherà di persona. Tutto quello che sappiamo è che l’assalto agli ospedali nei Paesi poveri non è ancora iniziato o meglio non fa notizia (i Paesi poveri non contano, fermiamo gli sbarchi, non cessiamo le guerre, facciamo morire la povera gente in mare, tanto che importanza hanno? Non sono anch’essi esseri umani che vanno rispettati e hanno diritto ad avere una vita dignitosa? invece no, loro saranno sempre considerati ‘razza inferiore’. Che poi chi è che ha stabilito in passato e ancora oggi quale sia la razza superiore e quella inferiore? Non siamo emancipati culturalmente, abbiamo la presunzione di crederlo, ma questi atteggiamenti e pensieri ci confermano il contrario). Gli ospedali e le cliniche pubbliche delle parti povere del mondo, che sono incapaci di farcela con una vasta popolazione malnutrita, vulnerabile a qualsiasi malattia meno grave che diventa fatale per loro, non saranno in grado di occuparsi di una crisi pari a quella che stanno affrontando America e Europa oggi. Potremmo mai non conoscere le loro storie, forse non diventeranno nemmeno statistiche.

 Che cosa ci è successo? È un virus, sì. Ma è decisamente qualcosa di più di un virus. Alcuni credono che sia la volontà di Dio per riportarci sul nostro sentiero. Altri pensano che sia una cospirazione cinese per conquistare il mondo. Qualsiasi cosa sia il Covid-19 ha messo i potenti in ginocchio e ha fermato il mondo. Le nostre menti desiderano un ritorno alla normalità, cercando di ricucire il futuro al passato e rifiutando di accogliere la rottura. Ma la rottura esiste e nel mezzo di questa terribile disperazione ci offre la possibilità di ripensare alla macchina del destino che abbiamo costruito per noi stessi. Storicamente le pandemie hanno forzato l’umanità a rompere col passato e a immaginare il suo mondo nuovo. Questa non è diversa. Possiamo decidere se passarci attraverso, portando con noi la carcassa dei nostri pregiudizi e del nostro odio o possiamo attraversarlo, con un piccolo bagaglio, pronti ad immaginare un nuovo mondo e pronti a lottare per questo. È un momento triste e difficile. Proprio perché è un momento così difficile abbiamo bisogno di stare uniti e condividere emozioni e sentimenti. Abbiamo bisogno di sorridere e condividere sorrisi. Non che questo cambi o allevii la realtà, ma la affianca aiutandola e aiutandoci. Qualsiasi gesto positivo diventa un alleato, soprattutto per il nostro spirito confuso, spaesato e un po’ spaventato. Ecco perché tutti abbiamo bisogno di sentimenti veri, semplici, diretti profondi, che riscaldino come un abbraccio in silenzio. Siamo tutti uniti in questo momento: come tante voci, in mezzo al buio, che si cercano, si uniscono, dandosi forza e rischiarano l’oscurità con il calore»

—  Noemi, 29 anni, Altilia (CS)

 


«Non cambierà nienteGiorno 56 | Sembra una domenica primaverile come tante, una di quelle domeniche in cui avremmo voluto fare una gita fuoriporta come negli anni passati. Per il momento possiamo solo affacciarci dalla finestra e vedere gli alberi in fiore, le rose che sbocciano, gli uccellini che cinguettano; il colore giallo cromo delle ginestre inizia a spiccare timidamente tra il verde, il tutto accompagnato da uno splendido cielo terso. In questo periodo insolito, in cui pare che il tempo si sia fermato, ma che in realtà scorre veloce come ha sempre fatto, è necessario trovare la felicità nelle piccole cose.

In passato si sono verificate diverse catastrofi e quella che stiamo vivendo adesso servirà a limitare i danni delle calamità che verranno. La storia si ripete ed è inevitabile che ciò accada, ma è doveroso imparare dai propri errori per poter crescere. L’uomo di errori ne ha commessi tanti e continuerà a commetterne di nuovi.

L’essere umano, per sua natura, è egoista, rifiuta di accettare le sue responsabilità civili e morali.

“L’uomo, che ad un certo tempo si sente forte, con la coscienza della propria responsabilità e del proprio valore, non vuole che alcun altro gli imponga la sua volontà e pretenda di controllare le sue azioni e il suo pensiero”. Ciò che esprime questa citazione di Antonio Gramsci, lo si vede chiaramente anche in questo periodo di lockdown. Troppe persone colme di superbia e incuranti della propria vita e di quella altrui, hanno ignorato la principale regola imposta dal governo: rimanere a casa.

In questi giorni, come prima, facciamo finta di essere tutti uniti, recitando slogan ormai esasperanti, improvvisando concerti assordanti sui balconi, incuranti del rispetto della quiete pubblica e delle numerose vittime che si stanno registrando.

Dovremmo evitare le lamentele superficiali sulla solitudine, tipiche di questo periodo, in rispetto a chi in solitudine vive da anni.

Credo che chi non sta vivendo in prima persona la parte più tragica di questo periodo, non può immaginare cosa si prova, commettendo l’errore di sottovalutare il nemico.

La solitudine che stiamo vivendo dovrebbe farci riflettere, farci capire che non tutto c’è dovuto, che dovremmo apprezzare di più le cose, soprattutto quando torneremo alla normalità. Tutto questo tempo che ci è stato donato dovremmo impegnarlo per fare tutte quelle cose che avremmo voluto fare solo se avessimo avuto il tempo per farle, distraendoci per un po’ dalla triste realtà in cui non si parla altro che di Covid-19, dimenticando tutto ciò che stava accadendo nel mondo e che continua a verificarsi.

Il Coronavirus ci ha impedito di festeggiare con amici e parenti diverse ricorrenze importanti, rinunciando ad alcune tradizioni o festeggiandole nel nostro piccolo. Questo ha impedito di godercele pienamente ma ci ha insegnato ad apprezzarle di più, purtroppo sono volate senza che ce ne accorgessimo, perché, tutto sommato le giornate sembrano tutte uguali.

Questo periodo di lockdown ha permesso alla natura di riappropriarsi di tutto ciò che l’uomo, nel corso degli anni, le ha rubato. “Non sei necessario. L’aria, la terra, l’acqua, e il cielo senza di te stanno bene. Quando tornerete ricordate che siete miei ospiti. Non miei padroni”. Credo che finita questa “pausa” riprenderemo le nostre sporche abitudini, inquinando peggio di prima, ma del resto come dice Claude Lévi-Strauss: “Il mondo è iniziato senza l’uomo e troverà il suo compimento senza di lui”.

Non sarà facile e immediato tornare alla normalità, ma anche questa pandemia passerà. Torneremo a commettere gli stessi errori di sempre, dimenticandoci a tratti di tutto ciò che abbiamo vissuto.

C’è chi un giorno racconterà di persona ciò che ricorda della propria esperienza e chi la racconterà al posto di chi l’avrebbe voluta raccontare»

Alessia, 19 anni, Cosenza

 


« “Alla riscoperta del viaggio” | L’ archè kakòn è un’espressione che, nel corso della mia carriera universitaria, ho riscontrato molte volte. Significa letteralmente “l’inizio delle cose brutte” e quasi sempre, questo inizio, rappresenta lo scoppio di una guerra.

Ad oggi, il nostro “archè kakòn” è il COVID19, un virus ignoto, invisibile, ma distruttivo che minaccia ormai da mesi il nostro Paese, in cui tutto è fermo, immobile, cristallizzato; ogni cosa, oggetto, persona, sembra aver occupato il proprio posto e inerme aspetta la “teleutè kakòn”- la fine delle cose brutte.

Ma mentre tutto quello che è fuori di me si è arrestato, quello che invece è dentro di me continua ad agitarsi, i pensieri si annidano e ha inizio un viaggio alla riscoperta di me stessa.

“Viaggio”- quante volte abbiamo parlato di viaggi riferendoci allo spostamento fisico verso luoghi lontani e a noi sconosciuti, spinti dal desiderio di abbandono di luoghi conosciuti, quali potrebbero essere le nostre case, con la forte curiosità di scoprire ciò che è diverso da noi.

Da qualche mese, invece, la scoperta di terre lontane sembra quasi un sogno e l’unico viaggio che possiamo compiere è quello in un mondo piccolo, chiuso, limitato, forse quello che credevamo il più conosciuto, quello che avremmo percorso ad occhi chiusi, senza la paura di incorrere in previsti, ostacoli o peripezie.

Mi torna in mente una lettura portata a termine poco tempo fa: “Viaggio intorno alla mia camera” di Xavier De Maistre, il racconto del viaggio che l’autore ha compiuto all’interno della propria casa, dove era stato condannato a quarantadue giorni di reclusione domiciliare, a seguito di un duello.

L’impossibilità di uscire lo aveva riportato alla scoperta del suo io e del suo mondo, dei valori autentici, l’importanza dei riti e degli affetti che lo circondano.

In questo periodo così difficile credo che ognuna delle persone più sensibili abbia compiuto un viaggio intorno alla propria camera fino a capire che il piacere del viaggio dipende, forse, più dall’atteggiamento mentale con cui partiamo che non dalla destinazione scelta. Solo se riuscissimo a vivere il nostro ambiente quotidiano con lo spirito del viaggiatore»

Giorgia, 21 anni, Roccella Ionica

 


«Il mio “esercizio di libertà” | Sento i miei nonni attraverso uno schermo, mi mostrano una mano sul cuore e mi dicono che manco loro tantissimo, che fanno un fatidico conto alla rovescia giorno dopo giorno, mentre in TV si rincorrono e si accavallano l’una sull’altra notizie di decessi, di nuovi contagi e di salme cremate per necessità. Regole stringenti hanno cambiato la quotidianità degli italiani: il caffè si prende a casa, gli abbracci e le strette di mano sono assolutamente vietati, si esce di casa solo per andare ad acquistare il pane. Questa ė la realtà in cui, nell’aprile 2020, si vive. Una realtà per la prima volta sotto gli occhi di tutti, per la prima volta oggettiva, dalla Lombardia alla Sicilia, da Milano a Palermo. Una realtà crudele che vieta le manifestazioni d’affetto, impedisce gli incontri fisici e che, addirittura, ci nega di “vivere in società”. “Resta a casa” è la frase più frequente, quella più diffusa su giornali, telegiornali, mass media. È la frase che accomuna chiunque, dal mondo del calcio a quello dei piccoli negozi di alimentari; la sua eco risuona fortissima per tutto lo stivale che dai primi giorni di marzo è detto ‘zona rossa’: bello, il colore rosso, mi è sempre piaciuto, ma non in questo caso, ora detesto il colore rosso come ne detesto l’attribuzione al mio Paese. Il rosso, nel 2020, non simboleggia più l’amore, ma la catastrofe. Agli italiani viene chiesto di essere bianchi, come un foglio nuovo, vuoti, e un po’ lo sono: privati della loro normalità e, soprattutto, costretti a cambiare usando un nuovo inchiostro poiché se siamo qui, ora, è a causa del vecchio inchiostro con il quale tutti eravamo abituati a scrivere giorno dopo giorno.

“Il cielo sopra Wuhan”: è questa la descrizione di un’immagine che qualche giorno fa ha lasciato senza fiato l’intero popolo di Facebook e non solo. Un infermiere conduce un malato su una barella davanti al travolgente sole del tramonto. L’intera umanità, da un estremo all’altro del globo si tinge di questi colori: il giallo, l’arancione, simbolo di una battaglia contro un nemico invisibile e senza remore che annienta tutto ciò che incontra sul proprio cammino e contro il quale l’unica arma possibile è quella di far fronte comune, ma questa volta in maniera diversa: attraverso la cosiddetta “distanza sociale”.

Ci chiedono di essere come i bambini quando giocano a nascondino, ma qui non ci piace chi conta e soprattutto non ci piace l’idea che, come in un bel gioco infantile, non ci sia colui che “libera tutti”.

L’uomo è tale grazie alle relazioni che intraprende con gli altri, ė un animale che non può e non riesce a vivere da solo, è così da sempre. Nel momento in cui, però, questo viene a mancare in maniera così drastica che cosa succede? Succede che l’uomo si sente avvolto completamente in uno stato d’incertezza che si mescola talvolta ad una strana apatia ma, principalmente, l’uomo si sente solo. Strana cosa da dire, scrivere nel 2020, in un’epoca di nativi digitali capaci di mettersi in comunicazione con l’altro capo del mondo in men che non si dica. Eppure è così. A poco servono internet, Facebook e ogni altro tipo di social quando non ci si può incontrare, abbracciare, fare quattro chiacchiere, quando viene a mancare la vista del sorriso di una persona amica, la lasagna della domenica cucinata con immenso amore dalla nonna. Ai miei nonni va il mio pensiero costante. Mi mancano i caffè del nonno, più buoni di quelli del bar, e le carezze della nonna che mi vizia da quando ero una bimba e che appena mi vede arrivare spalanca le braccia chiamandomi, ormai da anni, “regina”. Mi manca ascoltare col nonno in macchina vecchi dischi di Celentano, Mina, Cocciante e tutti i cantanti “della sua epoca” che lui fa diventare un po’ anche la mia. Mi manca prendere in giro con lui i suoi coetanei alla guida: “ma guarda a chissu, a na certa età a patente l’avissin’e ritirare”, ripete sempre lui (classe ’41).

Cerco di fissare, attraverso gli occhi, nella mente i momenti in cui sono stata più felice. Faccio avanti e indietro nella mia camera, tappezzata di foto in ogni angolo: vedo me e la mamma al mare quando ero bambina, il papà vestito da Babbo Natale poco prima del mio primo compleanno e poi vedo la mia vecchia classe del liceo, ci sono foto con loro ovunque. Non ci siamo mai persi, siamo uniti come prima. Ogni occasione era buona per ridere, per combinarne di nuove e soprattutto per volersi bene ogni giorno di più. Ad oggi mi mancano le loro battute, i nostri litigi e soprattutto mi manca ridere e sorridere insieme a loro, insieme ai miei amici.

È un grande esercizio di libertà, intesa come libertà di immaginare un viaggio, un posto del cuore, un incontro con quelle persone che ci fanno star bene. Impegno le mie giornate dandomi da fare in ogni minuto per cercare di sfruttarle al meglio. Il mio spazio è la mia camera, la mia casa, talvolta odiata in tempi “normali” ed oggi rivalutata e apprezzata come “nido”, porto sicuro.

“Speriamo che tutto torni presto alla normalità” si dice. Ma la normalità alla quale vorremmo presto tornare è stessa che passo dopo passo ci ha condotto fin qui? La sfida maggiore sarà quella di modificare l’indole dell’uomo che da sempre pone gli interessi individuali davanti a quelli della comunità; sarà quella di mostrare un volto nuovo, l’altra faccia della medaglia, capace di fare del bene e di tingersi dei colori sgargianti della primavera per celebrare, oggi più che mai, la meraviglia e la grande ricchezza del Paese che ci ha fatto da culla e al quale ognuno di noi dedicherà un piccolo spazio, per sempre, nel cassetto della memoria, come un ricordo che non sbiadisce»

Gaia, 19 anni, Casali del Manco (CS)

 


«La maledizione dell’anno bisestile | Era il 31 dicembre 2019, eravamo emozionati, eccitati… in tutto il mondo si brindava con calici di vino e spumante per l’inizio di un nuovo anno, di nuovi sogni, ma poi magicamente come nell’incubo più brutto, il nuovo anno ci ha portato una catastrofe, una pandemia, il COVID-19. La tradizione romana ci ricorda: anno bisestile, anno dissesto, ecco il 2020 …forse era da aspettarselo … ma la catastrofe ha fermato il mondo. Niente sarà più come prima, il nostro modo di comunicare si sta modificando; come sostiene l’antropologo Ernesto De Martino nei momenti di catastrofe, la presenza viene meno, è quasi minacciata; come dargli torto? la pandemia sta annullando i rapporti sociali, nasconde attraverso le mascherine le nostre sensazioni e tutto avviene attraverso computer e cellulare; mediante questi due strumenti si mantengono le amicizie, gli affetti, l’amore. Il virus è invisibile, è un mostro, può entrare in silenzio nelle nostre case, distruggere tutto, uccide i più fragili: i nonni (già se ne ha portati via molti), sono stati anche lasciati soli perché nessun familiare ha potuto stare accanto a loro per via di regole restrittive, ma fondamentali: i loro cari non hanno potuto salutarli per l’ultima volta; questo è straziante, conosco questo dolore perché l’ho vissuto proprio sulla mia pelle, i riti che accompagnano la morte caratterizzano l’umanità da sempre, ma eccoli  interrompersi. Come la PESTE NERA, che sterminò metà della popolazione Europea, anche in quelle circostanze i funerali furono banditi, ma questo è un rito di passaggio, tanto più rilevante perché è irreversibile e allo stesso tempo è anche importante per la ricostruzione, per metabolizzare il lutto. Mancano le certezze, le carezze, gli sguardi, le parole di conforto, anche questi piccoli gesti sono in standby, ma le pandemie furono tutte così disastrose, la storia è un ciclo che spesso si ripresenta come ci raccontano alcuni romanzi letterari, Il Decameron di Giovanni Boccaccio, oppure i Promessi Sposi di Alessandro Manzoni. Le ripercussioni sono devastanti dal punto di vista psicologico, quasi  imponenti, per via anche della convivenza forzata in casa; essa è diventata quasi una gabbia stretta, ma in contrapposizione anche a un nido sicuro, in queste giornate del tutto insolite  il tempo per riflettere è immenso; spesso sì incrociano nelle nostre menti paure, ansie, domande e  grande tristezza nel vedere la mia città deserta; poi mi interrogo sul domani, Quando finirà tutto? come ritorneremo a vivere? successivamente mi  tranquillizzo imponendomi di rimanere calma e serena. In tutto ciò manca LA PRESENZA. Ernesto de Martino dice che essa è sempre centrale; essere presenti significa essere partecipi di un dialogo; la presenza è qualcosa che noi cerchiamo continuamente, proprio per questo mi fa sorridere la chiacchiera pomeridiana con il vicino di casa rigorosamente dal balcone, oppure ascoltare le donne del mio vicinato fare il rosario, perché in fondo in   tutto questo male  ho riscoperto anche la bellezza nel comunicare, nello stare vicino anche se lontani; sono attimi di libertà, di normalità; ho riscoperto  i valori veri, lo stare in famiglia e credo che sia  il momento di riscoprire le vere tradizioni e abbandonare le cose materiali che in questi anni hanno distrutto il mondo. Il covid-19 quest’anno ha interrotto anche i riti della Santa Pasqua: nessuna Messa, nessuna processione, sembrava quasi un giorno normale, ma grazie al Santo Padre Francesco ho potuto conservare il nitido sentimento di un giorno molto speciale; allo stesso modo il 25 aprile, che è stato più che altro un giorno di ricordo, di nostalgia, nella mia città, Rossano Calabro, ogni 25 aprile, in memoria del terremoto del 1836 (avvenuto di notte, durante cui le persone uscirono dalle abitazioni in maceria  e, per via del freddo, accesero nel paese vari fuochi per riscaldarsi), si festeggia e si rende grazie a San Marco e Santa Achiropita per aver risparmiato la città dalla potenza devastatrice del sisma. Mi è dispiaciuto non poter partecipare all’accensione dei fuochi in paese; tuttavia, le tradizioni sono parte di noi, della nostra cultura, della nostra storia e non poter partecipare a questi riti è molto doloroso. In alcuni giorni, però, il sole risplende, una luce si accende anche nel  mio cuore quando leggo alcune notizie: “GLI ANIMALI SI IMPOSSESSANO DELLE CITTA”: è successo un po’ in tutta Italia dalla famiglia delle anatre, ai cervi, cinghiali, orsi e delfini, il mondo animale guadagna la libertà durante il COVID-19; questo ci dovrebbe far riflettere sulla bellezza della natura, della diversità, sulla  libertà che spesso abbiamo tolto agli animali, perché il mondo non è nostro e dovremmo dobbiamo averne più rispetto. “Ogni cosa che puoi immaginare, la natura l’ha già creata” (Albert Einstein).
Spero presto di vedere il mondo tornare alla normalità, con saggezza e rispetto della vita e di ciò che ci circonda, perché solo ora capisco l’importanza della libertà, la libertà di tutti gli esseri viventi del mondo»

Annalisa, 19 anni, Corigliano-Rossano

 


«Coronavirus: alla ricerca di se stessi. | Mai come in questo momento ci siamo ritrovati così vicini con noi stessi, lontani dal frastuono quotidiano a cui eravamo abituati. Questo periodo, nonostante i mille disagi di vivere isolati dal mondo, ci sta dando un’occasione unica per riflettere sulla nostra vita, e cercare il senso profondo delle cose. Personalmente, la chiusura forzata in casa mi ha messo davanti a mostri del passato che speravo di aver seppellito nel profondo della mia anima. Mi ha messo a nudo, mi ha costretta a guardare in faccia la realtà dei fatti. Così ho finalmente realizzato la mancanza di persone che prima erano al centro della mia vita. Per un anno intero sono scappata, non affrontando il dolore della mia perdita. Quando, però, sono tornata a casa dei miei, in seguito alla diffusione del virus, la realtà mi si è rivolta contro. Dopo un anno sono riuscita a piangere la morte di una persona a me cara e ad accettarla. Paradossalmente, la reclusione mi ha aiutato a liberarmi. La mia routine giornaliera non sembra essere cambiata molto. Da persona introversa e solitaria quale sono, ho continuato a passare le mie giornate leggendo, studiando e ascoltando musica. Nonostante ciò devo ammettere che, anche per me, è stato difficile abbandonare la vita di un tempo. Sento la mancanza della città che mi ha accolto negli ultimi mesi, Cosenza, e delle persone che qui ho incontrato. Persone belle, con cui finalmente cominciavo a godere della mia giovane età. La quarantena, quindi, mi ha privato della gioia e della spensieratezza da poco ritrovata. Tuttavia, gli spazi aperti che circondano la casa dei miei genitori mi danno sollievo e mi rendono cosciente di quanto io sia fortunata. Spesso, quindi, passo i miei pomeriggi nelle campagne. Nelle mie passeggiate penso, e altrettanto spesso piango, cercando di non lasciarmi avvolgere troppo da pensieri negativi e opponendo una ferrea volontà di sopravvivere. Piangere, infatti, è sempre stata una valvola di sfogo per me. Dopo un bel pianto, che come diceva mia mamma “mi lava gli occhi”, tutto sembra essere più chiaro e meno incerto. Allo svago devo, però, anche accompagnare lo studio. Nonostante io abbia sempre amato studiare, in un momento del genere, farlo è diventato per me uno sforzo immane. Guardo, infatti, con timore ai mesi che verranno: dalla quarantena dovrò passare alla sessione estiva, un altro bel periodo in cui probabilmente non uscirò di casa. Ormai diventa difficile anche guardare il telegiornale. Alle continue notizie che vengono emesse ogni giorno dai media, si aggiunge il bollettino dei morti, che, ogni sera a cena, ammutolisce la famiglia. Tristi, ascoltiamo il numero delle vittime. Una sera in particolare, in questa quarantena, la notizia dell’esercito che è dovuto intervenire per portare le salme dei deceduti in una città vicino Bergamo, dove i morti avevano raggiunto un numero tale da non poter più essere cremati, ci ha sconvolto. Quella sera, quando vedemmo le immagini, nessuno di noi fu in grado di proferire parola. Nemmeno mio padre, sempre pronto a scherzare, fu in grado di alzare il proprio sguardo dal piatto. Perché è così: durante il giorno ognuno di noi in casa sta cercando di essere positivo e produttivo. Ma alla sera tutta la preoccupazione e la paura sembra tornare in superficie. E ci si chiede “finirà tutto ciò?”, anche se in fondo si sa che le nostre preoccupazioni non finiranno una volta che la quarantena sarà dichiarata finita. Tutto questo avrà, infatti, le sue conseguenze. Tanta gente perderà il proprio lavoro. Inevitabilmente, molte fabbriche falliranno e le attrazioni turistiche, almeno per quest’estate, non avranno guadagno. Anche l’estate infatti, la stagione italiana per eccellenza, non sarà più la stessa. Probabilmente non si potrà andare al mare, e questo mi spezza il cuore. Sin da piccola, quando passavo un intero mese a mare con i miei nonni, quello sembrava il mio posto. Il mare per me rappresenta libertà e pace: due cose che al giorno d’oggi ci vengono a mancare. La mia tristezza, però, è in qualche modo alleviata dal fatto che, mentre noi limitiamo i nostri spostamenti, il mondo respira nuovamente. Vedere i delfini tornare a Venezia, vedere lo smog di Milano scomparire, mi ha reso conscia del male che noi uomini abbiamo provocato al mondo in tutti questi anni. Mi chiedo, quindi, se la quarantena abbia risvegliato il cuore di qualcuno. Sfido chiunque a non emozionarsi vedendo gli animali correre tra le vie delle città, ora deserte, o vedendo nuovamente i porti puliti. Abbiamo sempre imposto un confinamento alle altre specie e, ora che siamo noi ad essere confinati, la natura è come se si fosse ribellata. Siamo diventati così una società confinata nella propria casa. Un restringimento dello spazio a cui corrisponde però, a livello umano, un allargamento dell’anima. Quando a marzo in Italia sono arrivate le mascherine dalla Cina, è stata da loro utilizzata una frase di Seneca “siamo onde dello stesso oceano, foglie dello stesso albero, fiori dello stesso giardino”. Se pensiamo a questa frase possiamo comprendere tutto ciò che stiamo vivendo. Tuttavia, sono consapevole del fatto che l’uomo è un animale imperfetto e che gli errori fatti in passato molto probabilmente torneranno anche in futuro. La mia è, quindi, una speranza, che continuerò di certo a coltivare nella mia anima, e che trasmetterò ai miei figli, per insegnare loro il rispetto e l’amore verso la natura. E mi viene da sorridere pensando che un giorno, proprio con i miei figli, parlerò di questo periodo, proprio come mio nonno mi parlava della guerra. E chissà se sarò in grado di farlo tanto bene quanto faceva lui, chissà se riuscirò a raccontare tutto questo senza scoppiare a piangere o se lo farò con le lacrime agli occhi, ma sempre con un sorriso pieno di speranza. Perché senza di essa questo mondo è fin troppo duro da affrontare»

Chiara, 19 anni, Soveria Mannelli (CZ)

 


«Ero molto incuriosita dall’idea di tenere un “diario di bordo”, cosa che avevo pensato di fare all’inizio di questa quarantena, certa che si sarebbe prolungata oltre il 3 aprile. Ciò che mi spingeva a intraprendere questo “progetto” erano principalmente due pensieri: il fatto che fosse un avvenimento che accade (fortunatamente) poche volte nella vita e che, quindi, fosse quasi necessario ricordare in qualche modo, e il fatto che potesse essere un’attività diversa da fare per ingannare lo scorrere (che immaginavo lento) del tempo da trascorrere a casa.
Con mia sorpresa, le prime due settimane sono passate velocemente: le ho percepite come un periodo di riposo, come quando arrivano le tanto attese “vacanze” di Natale. Seguendo le lezioni, riordinando casa, cucinando un dolce, leggendo un libro e guardando qualche film la giornata terminava rapidamente. “Passerà subito, vedrete!” ripetevo entusiasta alla mia famiglia.
L’unica cosa che un po’ mi dispiaceva (e continua tuttora) era dover guardare da lontano il piccolo scorcio di mare che si vede dal balcone di casa. Sono molto legata al mare, che per fortuna posso raggiungere tranquillamente in dieci minuti a piedi, e dove andavo (prima di questa situazione) almeno due o tre volte a settimana per passeggiare e respirare quell’aria che mi fa sentire “a casa”. In una lezione di antropologia, quando è stato letto l’episodio del campanile di Marcellinara (di De Martino), mi sono un po’ immedesimata nel pastore che, vedendo sparire il suo “punto di riferimento” dalla visuale, si sentì spaesato. Solo che il mare, il mio “campanile”, posso vederlo, ma non raggiungerlo. Tutto ciò che posso fare al momento, è ammirare lo splendido gioco di luci che si crea sull’acqua al tramonto in queste giornate soleggiate. Sarà il primo posto in cui andrò quando si potrà uscire di nuovo. Inutile dire che queste due settimane successive sono passate tutt’altro che in fretta. Il mio entusiasmo è scomparso da un giorno all’altro. Non ero molto positiva sulla fine di questa quarantena il 13 aprile, infatti è stata prolungata. 
In televisione non si parla che del virus, e questo ovviamente è giusto, per restare sempre informati, ma credo che renda ancora più cupa la situazione; invece di spronare a resistere crea solo maggior tensione. Si dovrebbe cercare di risollevare gli animi, in qualche modo. Per questo sono felice quando a un certo punto in casa decidono di spegnere per un po’ i notiziari e concentrarsi su altro, cercando di divertirci insieme e ridere per rendere il tutto più sopportabile. Nonostante non si possa uscire, con la moderna tecnologia si possono mandare messaggi, chiamare e videochiamare i parenti o gli amici, mantenendo i legami forti (solitamente se ne abusa, ma in certi casi sono molto utili), oltre a poter lavorare da casa (purtroppo questo non vale per tutti). Un lato positivo si può certamente notare sull’ambiente, e questo dovrebbe essere d’insegnamento, anche se con molta probabilità, alla fine di questa quarantena, si tornerà pian piano “alle origini” (delle alte quantità di consumo e inquinamento), ma si dice che la speranza è l’ultima a morire, perciò si vedrà. Prevedo che la settimana prossima mi sembrerà non finire mai, ma cerco di restare positiva, ricordando le parole di François De La Rochefoucauld: “L’attesa attenua le passioni mediocri e aumenta quelle più grandi”. 
In questi momenti più che mai, dobbiamo restare uniti, positivi, cercando di ridimensionare tutto, non solo la visione della nostra casa, della nostra camera, ma in particolare la nostra mente; espandiamoci oltre l’immaginabile, rischiamo, e abbracciamo quegli aspetti di noi stessi che avevamo timore di rivelare, dimostrandoci vulnerabili se serve, e scopriremo che la pandemia non è così spaventosa, soprattutto se affrontata con chi ci ama davvero»

— Carolina, 19 anni, Fuscaldo (CS), studentessa di Lettere e Beni Culturali

 


«”Nemmeno è tutto nero”. I pensieri mi affollano la mente, riesco a sentire solo il presente. Provo a ricordare com’era quando i giorni non erano tutti uguali, quando riempivo le mie giornate con un sorriso fatto in compagnia, quando non pensavo che uscire di casa mi avrebbe portato timore, quando tutto sembrava così banale, ma in realtà avevo tutto, avevamo tutto. Così mi assale la malinconia. Ci sentiamo soli con noi stessi, con i nostri pensieri, con le nostre paure e con il nostro cuore. In un mondo che vive di tecnologia non dovremmo mai sentirci soli, esistono i social, esistono tutti i mezzi per mantenerci in contatto con la persona che desideriamo. Secondo voi è la stessa cosa? Ci sentiamo meno soli quando in realtà è uno schermo a dividerci, ci sentiamo meno soli quando in realtà ridiamo dietro ad un telefono. Tutto ciò ci sta portando veramente a dimenticare cosa sia la vita reale, di quant’è bello poter parlare guardando una persona negli occhi, di quant’è bello ridere e scherzare dietro ad un buon caffè o una buona pizza e non dietro ad un telefono. Questa situazione ci farà capire l’importanza di ciò che avevamo prima, l’importanza di quel banale, l’importanza di svegliarsi e andare a lavoro o andare all’università, l’importanza di vedere i nostri nonni, i nostri zii, i nostri cugini, l’importanza di vedere le piccole cose con occhi diversi, questa situazione ci farà capire che in fondo avevamo tutto e non lo apprezzavamo. Ad essere sincera di tutto ciò ne sento la mancanza, ma fino ad un certo punto, perché questi giorni, queste settimane, mi hanno aiutata molto a pensare e a riflettere e a migliorare me stessa. Ho iniziato a fare cose che prima non avevo neanche il tempo di pensare. Il tempo, è ciò che ci manca, ciò che dovremmo imparare ad equilibrare nella vita di tutti i giorni e, in questi giorni ho imparato a bilanciare tempo e vita privata ed anche ad apprezzare quel poco tempo che tutti noi abbiamo a disposizione. Bisogna approfittare sempre del tempo che abbiamo, per fare tutto ciò che ci rende felici, tutto ciò di cui abbiamo bisogno. La cosa che mi preoccupa di più è ciò che ho lasciato fuori, non immagino come potrebbe essere l’impatto con una realtà diversa da come ero abituata a vederla e a sentirla. In queste settimane, mi affaccio dal balcone, esco in giardino, respiro un’aria diversa, un’aria che non mi ricorda per niente quella precedente. La realtà è che ora tutto è vuoto, silenzioso, non sento più il caos e questo aspetto è un po’ triste e ammetto che fa paura. Purtroppo, la paura è un’emozione che in questo periodo coinvolge un po’ tutti, ma anche la speranza, la speranza di un futuro migliore e di una ripresa della situazione, la speranza di poter rivedere i nostri cari e tutte le persone importanti della nostra vita. La speranza resta l’unico appiglio in questi giorni e anche se alcune volte siamo presi dalla tristezza e dalla paura che tutto ciò non potrà mai finire, dobbiamo vedere in fondo al tunnel quel piccolo spiraglio di luce. Bisogna emanare energia positiva alle persone che abbiamo intorno e ricordarci che se saremo tutti uniti e se rispettiamo le giuste regole, tutto tornerà come prima! In questi giorni, inoltre, ho capito che esiste un altro sentimento che lega tutta la nostra nazione: la solidarietà. Un’emozione che forse avevamo scordato, un sentimento che era stato sotterrato dall’indifferenza, dalla divisione tra nord e sud, sotterrato dall’inferiorità del sud e dalla superiorità del nord. Ecco, in questi giorni ho capito che in realtà questi aspetti sono ciò che vogliamo sentire dire, ma non ciò che pensiamo realmente; ci siamo aiutati, ci siamo dati sostegno a vicenda, siamo stati uniti e abbiamo lottato tutti insieme, indipendentemente dalle differenze di colore, di razza, di sesso, di religione e di nord o sud. Questa è l’Italia che mi piace, questa è l’Italia che dovrebbe dare esempio ai cittadini, rimanere uguali dinanzi ad una difficoltà e lottare insieme per superarla. Spero vivamente che questo ostacolo sia servito da lezione a tutti, per capire che fondamentalmente la solidarietà, la speranza e l’amore sono i principali aspetti di una nazione unita»

— Mara, 20 anni, Lamezia Terme

 


«“Rimaniamo distanti oggi per abbracciarci domani” | È questa la speranza che accompagna le giornate di ognuno di noi dal lontano 8 marzo; giornate lente ma mai statiche, in cui guardarsi dentro, osservare ciò che ci circonda e comprendere il reale valore di ogni singola cosa, forse per la prima volta.
Ho tutto ciò di cui ho bisogno per non
buttare via questo tempo che, essendo l’unico ad esserci concesso, considero raro.
Nessuno avrebbe mai potuto immaginare che, in un’era di continuo progresso scientifico e tecnologico, un minuscolo ed invisibile virus avrebbe paralizzato il mondo, mettendolo in ginocchio.
È una situazione difficile stare isolati da amici, parenti, dagli affetti più cari, ma credo sia importante, ora più che mai che scaturisca da parte di tutti noi un grande senso di responsabilità e pensare che, essere obbligati a stare tra le mura di casa non sia poi una grande tragedia, come descritta da molti, se poi ci si sofferma a pensare che fuori c’è chi mette a repentaglio la propria vita per proteggere tutti noi.
È un periodo in cui ciascuno si sente privato di qualcosa, chi di un abbraccio, chi di una carezza, chi di un semplice contatto fisico con la gente. Ognuno cerca di colmare questa mancanza come meglio crede, con una videochiamata alla persona amata o cantando a squarciagola dal balcone.
Ritengo che in questa situazione si sia diffuso un utilizzo più sano di ricorrere ai media.
Ho sperimentato in prima persona quanto una semplice videochiamata possa rasserenare mia nonna sola in casa da giorni e da ciò comprendo il valore straordinario della comunicazione e il suo grande contributo in questa condizione.
Come afferma Papa Francesco infatti, i media tecnologici possono facilitare la vera comunicazione se aiutano a restare in contatto con i lontani, a ringraziare e chiedere perdono, a rendere sempre di nuovo possibile l’incontro.
Questa emergenza ha completamente ribaltato il nostro quotidiano. Trovo terribile avere timore delle persone che si incontrano per strada, dover guardare con sospetto coloro che si avvicinano più del dovuto o chi non è munito di guanti e mascherina, mi manca il caos della città, il traffico inarrestabile ad ogni ora, vedere la gente per strada, perché la città così vuota e priva di vita trasmette tristezza e angoscia.
D’altro canto, la nota positiva, a mio avviso, è che la natura si stia riprendendo un po’ dei propri spazi e sono felice di avere tempo da dedicare a me stessa e alla mia famiglia, scoprendo nuove passioni e approfondendo quelle precedenti.
È, infatti, paradossale pensare che in 21 anni non mi sia mai soffermata attentamente ad osservare il panorama esterno alla finestra della mia stanza. Prima di questa condizione tutto era scontato, aprire la finestra al mattino e chiuderla la sera, senza mai accorgersi di quanta bellezza ci fosse al di là di quel vetro. Se da un lato osservo con tristezza le strade deserte, buie e prive di vita, dall’altro sento nell’aria l’arrivo della primavera, il fiorire degli alberi, la limpidezza del cielo e il cinguettio degli uccelli, come a farci sperare che, come le stagioni, come gli alberi, rifioriremo anche noi dopo questo intenso periodo di buio.
Osservare l’orizzonte mi porta a riflettere sul fatto che, nonostante la distanza fisica, siamo tutti sotto lo stesso cielo, non siamo soli. Tutto ciò fa scaturire in me sensazioni diverse: a volte allegria, a volte malinconia, a volte un senso di pace e serenità.
Ricorderò questa quarantena anche per l’insolita Pasqua trascorsa, le celebrazioni si sono smaterializzate: la Via Crucis, le processioni e tutte quelle tradizioni che caratterizzano la Settimana Santa come anche la Veglia Pasquale e la Santa Messa nel giorno di Resurrezione.
Questo è un periodo particolarmente sentito al Sud dal punto di vista religioso e simbolico, per chi è credente.
Nonostante le condizioni però, è stata forse la Pasqua vissuta con più sentimento e intensità, spogliati da ogni cosa, privi da ogni distrazione, poiché tutti siamo stati coinvolti concretamente nel passaggio dalla morte alla vita, dall’isolamento alla libertà, dalla paura alla fiducia.
Un argomento che ha toccato particolarmente la mia sensibilità è quello relativo ai lutti. Usi e tradizioni sono ormai abbandonati, specialmente l’elaborazione del lutto per ciascuna famiglia: ricevere visite di amici, colleghi e affetti aiuta a superare la perdita e a non sentirsi soli, ma oggi è impossibile.
Il virus sta cambiando molti aspetti della vita, ma anche della morte, da come vengono trattati i corpi a come vengono gestiti i bisogni emotivi di chi gli sopravvive.
Una vita lunga conclusa in pochi minuti e in solitudine.
Da quando il Coronavirus è arrivato a sconvolgere l’umanità, ogni certezza, ogni punto di riferimento sembra aver lasciato il passo ad un futuro sempre più incerto e difficile. È come una disastrosa tempesta che fa sgretolare la terra sotto i piedi, che ci toglie ogni sicurezza.
Tuttavia, porterò per sempre dentro di me un pezzo di questa assurda situazione che mi ha condotto a possedere nuove convinzioni. Il Coronavirus mi ha infatti insegnato che tutti siamo uguali, non esiste religione, sesso, rango sociale o situazione finanziaria che tenga.
Ho capito quanto sia imprevedibile la vita, che bisogna vivere il più a lungo possibile senza alcun rimpianto, perché tutto può cambiare negativamente da un momento all’altro. Ho imparato ad essere altruista, a dare senza aspettare nulla in cambio.
Ho, inoltre, compreso l’importanza di avere una famiglia e una casa, un luogo in cui poter stare bene e al riparo da tutto.
Non penso che questo sia stato tempo perso; nonostante le privazioni di questi giorni, sono convinta che quando tutto tornerà alla normalità sapremo assaporare finalmente il valore di ogni piccola cosa che ci si presenterà»

— Francesca, 21 anni, Lamezia Terme

 


«Il nemico invisibile: il Coronavirus | Iniziato da poco il nuovo anno, apprendiamo che in Cina, precisamente a Wuhan, scoppia un virus che si diffonde molto velocemente, causando molte vittime. Come tutti gli avvenimenti della vita, secondo il mio parere, se non li vivi in prima persona non puoi mai captarne e comprenderne realmente il significato o capire fino in fondo cosa si prova. Qui in Italia si percepiva questo virus come un qualcosa di molto lontano fino a quando, il 21 febbraio 2020, venne rilevato il primo caso di Coronavirus. Ancora la gente, me compresa, tendeva a sottovalutarlo, molto probabilmente perché si tratta di un virus nuovo, non conosciuto, nemmeno dai più grandi scienziati e studiosi, i quali si trovarono anche loro impreparati all’arrivo di questo “nemico invisibile”. Inizia una vera e propria guerra contro il COVID-19; il virus inizia ad estendersi a macchia d’olio soprattutto al Nord Italia, i casi aumentano a dismisura, così come i decessi, mentre al Sud fortunatamente la situazione è meno critica. Inizialmente non sapevamo come comportarci in quanto vi erano pareri contrastanti riguardo all’utilizzo delle mascherine: le statistiche dicevano che il virus colpiva prevalentemente anziani e con malattie pregresse, ma poi ci siamo resi conto che il virus non risparmiava nessuno. Il COVID-19 non fa distinzioni di sesso, classe sociale, etnia, età, ed è proprio questo che spaventa. Io non mi sarei mai aspettata di trovarmi nel mezzo di una pandemia globale; inizialmente, ammetto di aver sottovalutato la situazione e ricordo di aver provato una sensazione di destabilizzazione dinanzi alle varie previsioni sul virus che, a volte, si sono rivelate infondate. Quando ho iniziato ad apprendere notizie che affermavano che miei coetanei, o, comunque, ragazzi erano stati contagiati, ho realizzato che sarebbe potuto accadere anche a me. Provai paura, timore, angoscia perché non mi sarei mai perdonata il fatto di aver contagiato una persona a me cara e, quindi, iniziai a stare più attenta e ad utilizzare tutte le precauzioni.  Giunse il 9 marzo ed iniziò la quarantena, le scuole chiusero e anche le università, con l’avvento dei vari decreti chiusero tutte le attività ad eccezione di quelle di primaria necessità. Inizialmente credevo fosse una cosa temporanea, non avrei mai creduto di dover rimanere a casa per più di due mesi, non mi era mai capitato di stare a casa per un arco di tempo così esteso. La casa è sinonimo di sicurezza, ma ammetto che, a volte, mi sono sentita in gabbia, privata della mia libertà. Durante questi giorni ho provato emozioni contrastanti, la prima settimana è stata molto difficile emotivamente, mi sono sentita catapultata in un altro mondo, un mondo in cui non volevo essere, lontana dai miei amici, da alcuni miei familiari, dal mio fidanzato, e questo mi faceva stare male. Col passare dei giorni la situazione al Nord precipitò, gli ospedali erano al collasso e il mio pensiero era, ed è rivolto, a tutte le persone che hanno perso un loro caro senza nemmeno aver avuto la possibilità di salutarlo per un’ultima volta. Cercavo di farmi forza e di pensare che io, in realtà, fossi fortunata perché io e le persone a me care stavamo bene e questo è l’importante. Sicuramente, questo periodo, mi ha portato a riflettere avendo molto tempo libero; prima ero abituata a tornare a casa di sfuggita, presa dai vari impegni universitari e personali; a casa invece, pur provando a tenere la mente impegnata, sono stata inevitabilmente portata a riflettere su vari aspetti. Ho riflettuto sull’importanza delle piccole cose che, a volte, diamo per scontato, su quanto sia importante vivere la vita a pieno e godersi ogni istante, ho ripensato a quanto affermavano Orazio: “Carpe Diem” e Seneca:” Protinus Vive”. I grandi Classici avevano proprio ragione, bisogna vivere ora, subito, perché non è detto che ciò che si ha ora lo si avrà anche domani e bisogna apprezzarlo! È proprio vero che capisci realmente l’importanza di una cosa quando non l’hai più, ho riflettuto sull’importanza di un abbraccio, di un bacio, di una stretta di mano, di tutte cose che davamo per scontato, che facevamo automaticamente ma che ora ci sono state negate. L’uomo è, per natura, un essere sociale ed è inevitabile che essere estraniato dalla società provocherà in quest’ultimo dei traumi; questa situazione avrà delle conseguenze a livello psicologico e lo porta quasi ad aver paura del proprio simile, ha stravolto le sue abitudini, si è dovuto adattare ed a mio parere non sarà semplice farlo ritornare alla normalità. Questo periodo rimarrà sicuramente impresso nella mia mente per sempre; a volte penso a come racconterò ai miei figli o ai miei nipoti tutto ciò; rifletto sul fatto che ne parleranno i libri di storia in quanto si tratta di un avvenimento senza precedenti. Già immagino quanto sarà bello poter abbracciare nuovamente, che buon sapore avranno i gelati mangiati all’aria aperta, già sento il profumo del mare e immagino la bellezza delle albe e dei tramonti. D’altronde, la luce delle stelle si può ammirare a pieno solo quando si è al buio; l’arcobaleno si manifesta solo dopo la pioggia, e la luce, dopo il buio di un tunnel, apparirà ai nostri occhi molto più intensa»

Carmen, 20 anni, Rende (CS)

 


«All’improvviso, un organismo, tanto microscopico quanto capace di sovvertire i microsistemi politici ed economici del mondo intero, ha chiuso l’umanità in casa ed ha imposto ai governi norme anti-contagio. Era il 21 febbraio 2020 quando nel lodigiano i medici scoprivano che il virus COVID-19 era arrivato in Italia. A diffondersi insieme al virus è stata la paura dei cittadini, manifestatasi in pullman vuoti e con lo svuotamento delle merci degli scaffali dei supermercati. Una serie di Dpcm si sono susseguiti fino all’8 marzo con i quali si sono stabilite le norme urgenti di comportamento per evitare il diffondersi del virus.
Con questi decreti la nostra vita è stata letteralmente stravolta. Siamo passati dalla frenesia dell’andare e venire tra impegni lavorativi ed incontri di vita sociale ad una vita chiusi in casa, spesso facendo esperienza della noia, della pena e della solitudine.
Nella solitudine si pensa, si riflette, ci si sente estranei dal mondo e si fa esperienza della malinconia.
Dalla gioia siamo passati a sentimenti di prudenza, di paura, di attenzione, che ci hanno resi preoccupati di seguire in modo pedissequo le regole e i divieti imposti.
Percepisco l’esperienza come una minaccia, ma, allo stesso tempo, avrei voglia di riabbracciare le mie amiche e soffro la nostalgia della vita quotidiana.
Ho il privilegio di vivere in una casa molto grande con giardino e terrazzo annessi, quindi posso trascorrere alcune ore della mia giornata al sole e all’aria aperta. Riorganizzando e ricostruendo una nuova quotidianità fatta di compiti giornalieri, esercizi fisici e collegamenti in streaming ho vissuto del migliore dei modi questi due mesi di lockdown.
Proprio nel periodo di quarantena abbiamo vissuto e ricordato la Pasqua in un modo mai accaduto prima. Mai sono stati celebrati i riti della Settimana Santa e la Pasqua stessa con le chiese chiuse.
L’impossibilità di partecipare fisicamente come fedeli a tutte le celebrazioni sacre è stato un atto di generosità, siamo stati vicini spiritualmente, attraverso i mass media a Papa Francesco, vederlo da solo in una Basilica e in piazza San Pietro, senza fedeli è stata un’immagine forte, che ha dato l’idea dello sconvolgimento che il virus ha portato nelle nostre vite.
Le parole del Papa: “Pensavamo di vivere soli in un mondo malato” ci hanno fatto riflettere su come le azioni degli uomini, sia nel bene che nel male, si ripercuotono su tutta l’umanità. Nessun uomo può sentirsi solo, nessun uomo è un’isola, ed è il cuore dell’uomo che deve cambiare. Ci siamo trovati uniti nonostante l’isolamento. Proprio la paura, la preoccupazione, il riconoscersi deboli nonostante il corposo disagio sociale ci hanno resi uniti nella preghiera. Chiusi nelle nostre case siamo stati chiamati a tradurre questa pandemia in decisioni forti della nostra vita, ad usare questo tempo per comprendere che la fede può animare la nostra vita ed i rapporti interpersonali.
La Pasqua è stata una chiave di lettura degli accadimenti della società e della storia odierna. Abbiamo vissuto la passione e la sofferenza tutti vissuti nel sepolcro di morte, immunizzandoci dal male e contagiandoci di una vita nuova.
La pandemia, l’isolamento, la Pasqua ci hanno fatto riflettere sul futuro facendoci capire che niente sarà più come prima. Pensare e credere che tutto ripartirà come lo abbiamo lasciato è da sprovveduti e superficiali. La situazione che stiamo vivendo ha ricondotto ognuno alla propria identità reale, alla propria famiglia e alle sue effettive condizioni, costringendo ognuno a guardarsi dentro.
La pandemia ha cambiato l’economia, tutti i Paesi devono ricostruirla. Ha cambiato il modo di lavorare delle persone, una marea di gente è costretta a lavorare a casa utilizzando la rete.
Mi domando se questa trasformazione potrebbe rappresentare un futuro diverso anche quando l’emergenza sarà finita. Forse lo smart working sarà il nuovo modo di lavorare del futuro? Sicuramente ci sono i lati negativi, mancano le relazioni dirette e aumenta la sensazione di isolamento.
Noi giovani dobbiamo in un futuro prossimo, proprio in virtù di ciò che abbiamo vissuto con la pandemia del COVID-19, lavorare e vivere nel rispetto della natura.
I coronavirus sono fenomeni legati ai cambiamenti dell’ecosistema: se l’ambiente viene stravolto, il virus si trova davanti a ospiti nuovi. Distruggere la natura finisce quasi sempre per avere un impatto sulla nostra salute.
I cambiamenti climatici sono associati ad un’aumentata diffusione delle patologie infettive: in un pianeta più caldo virus, batteri, funghi potrebbero trovare condizioni ideali per esplodere, diffondersi e ricombinarsi.
Dunque, la soluzione potrebbe essere solo in un completo ripensamento della nostra relazione con la natura.
Sarà questo che dobbiamo ricordare: possiamo avere un futuro come umanità solo in un completo ripensamento della nostra relazione nel proteggere la biodiversità, fermare la crisi climatica, fermare la distruzione delle foreste e ridurre il consumo delle risorse.
Sicuramente il futuro ci sarà se noi uomini viviamo, ricordandoci che sul pianeta Terra siamo ospiti e come tali dobbiamo comportarci, senza invadere e stravolgere ciò che non appartiene solo a noi»

Serena, 19 anni, Longobardi (CS)

 


«“Il mondo va veloce e tu stai indietro” | Siamo nel XXI secolo e mai avremmo pensato di essere catapultati nel passato, quel passato che abbiamo letto sui libri, ma “La storia si ripete”, come diceva Machiavelli; così, oggi, i termini “epidemia” prima e “pandemia” poi sono diventati i protagonisti indiscussi del nostro linguaggio. Siamo impauriti e disarmati verso questo nuovo nemico “invisibile”. L’espressione “nemico invisibile” non è rara né nuova per parlare di un virus o di un’epidemia, proprio perché invisibile sta per: buio, fluido, astratto e, dunque, è sempre preferibile un nemico visibile ad uno invisibile quale appunto la malattia. La storia e l’evoluzione del genere umano sono strettamente connesse con la storia delle malattie infettive. Lo sviluppo e la propagazione di alcune infezioni hanno addirittura causato il crollo di imperi secolari. Le prime notizie delle malattie contagiose si trovano nella Bibbia, che testimonia il terrore e la morte che esse provocarono tra gli Egizi nel 1320 a.C. In molti romanzi si trovano riferimenti alle epidemie: ricordiamo il Decameron di Giovanni Boccaccio, I Promessi Sposi di Alessandro Manzoni, i versi di Francesco Petrarca che narrano il dolore per la scomparsa nell’epidemia del XIV secolo dell’amata Laura; “La peste” di Camus e di recente memoria “Cecità” di José Saramago e tanti altri autori. Chi viene colpito dal male è come avvolto in una nube lattiginosa. Le reazioni psicologiche sono devastanti, l’esplosione di terrore e di gratuita violenza inarrestabile, gli effetti della patologia sulla convivenza sociale drammatici. Il primo effetto mediatico del Covid-19 è l’immagine dei malati e dei loro parenti inghiottiti da una specie di buco nero esistenziale. Il decorso della malattia è, ancor peggio, di morire completamente da soli. Mancano le carezze, gli sguardi, le parole di sostegno dei propri cari i quali, a loro volta, vivono la contemporanea frustrazione di non poter vedere e toccare i corpi delle persone amate. Il Covid, a pari degli incidenti aerei e degli annegamenti in mare, sembra essere un infido alleato del rimpianto in quanto ci priva all’improvviso dei corpi. L’obbligo di porci in standby all’interno delle abitazioni domestiche, per evitare il contagio dei corpi, determina tanto una terribile morte in balia della solitudine e senza rito funebre quanto l’enorme trauma di un lutto difficilmente elaborabile. Le nostre giornate sono diventate asfittiche e crediamo di essere al sicuro nella nostra “tana”. Le stanze piene di persone fisiche, ma vuote di sorrisi e le menti affollate di pensieri tutti uguali che hanno sempre lo stesso protagonista, e le mille domande a cui nessuno riesce a rispondere del tipo “ne usciremo?” o “che ne sarà di noi?”. La nostra casa diventa un’arca di salvezza e punto di forza e di potenza, ma il tempo a disposizione per riflettere e metabolizzare quello che sta accadendo nel nostro mondo non produce tranquillità e pace ma, piuttosto, provoca ansie e paure crescenti. C’è da dire subito che per uno spirito libero come me la situazione della reclusione “forzata” non è sicuramente una realtà gradevole. Vedere la mia città, la mia Italia in questo stato di desolazione totale mi fa star male; tutto ciò crea in me un vuoto incolmabile che si riflette nelle mie giornate vuote e prive di normalità con lo sguardo perso nel vuoto e la mia mente che attraverso dei flashback mi riporta in un passato non molto lontano. “La libertà è come l’aria ci si accorge di quanto vale quando comincia a mancare” (Piero Calamandrei). Per moltissimo tempo ho sentito che c’era troppo mondo, troppo, troppo veloce, troppo rumoroso. Il mondo frenetico di prima era abnorme. Dalla mia finestra, oggi, vedo un nuovo mondo prima “sconosciuto” essendo nata nell’era delle nuove tecnologie e della comunicazione. È arrivato il momento di fermarci e riscoprire i veri valori della vita, di mettere da parte le cose materiali e riscoprire le nostre radici e tradizioni. Tradizioni che quest’anno, per la prima volta, dopo 19 anni di vita ho visto annullare e ne ho sentito la mancanza. Basti pensare alle festività pasquali, ma potrei citarne altre. Le tradizioni fanno parte della nostra cultura, rappresentano le nostre radici e caratterizzano l’identità di un popolo, ragion per cui bisogna sempre portarle avanti, ed è proprio nei momenti peggiori che vengono riscoperte e rimpiante. Per la prima volta nella mia vita mi sono ritrovata a dovermi fermare poiché cose che si ritenevano inarrestabili si sono fermate e cose che si ritenevano impossibili sono già avvenute. Lo spazio mi sembra sempre più piccolo, dove l’unico appiglio sono gli strumenti tecnologici; prima il tempo che sprecavo con loro mi sembrava sempre troppo poco e, adesso, invece, ho un rifiuto verso gli stessi. Stiamo riscoprendo la nostra identità, poiché con la modernità per dirla alla Bauman “stiamo andando come una nave alla deriva ma senza bussola”. La pandemia è, quindi, un’occasione per riflettere sul nostro rapporto con la società. Il coronavirus ha fatto inginocchiare i potenti e fermato il mondo come nessun’altra cosa prima, ricordandoci che l’uomo è un essere finito e che non può nulla contro la natura. L’ondata di panico che ha paralizzato il paese mostra con evidenza che la nostra società non crede più a nulla se non alla nuda vita. Di fronte alla paura della morte i cittadini si affidano alle misure del Governo, il che assomiglia ad una situazione Hobbesiana in cui l’individuo aliena ogni diritto ad un sovrano assoluto. Come è avvenuto storicamente, le pandemie hanno costretto gli uomini a rompere con il passato e questa non è diversa. È una porta, un passaggio tra un mondo e il successivo, possiamo scegliere di varcarlo trascinandoci dietro le carcasse del nostro pregiudizio, dell’odio, dell’avarizia, le nostre banche dati e le nostre idee morte, i nostri fiumi sporchi e i cieli pieni di fumo. O possiamo camminarci con leggerezza, con poco bagaglio, pronti ad immaginare un altro mondo e pronti a lottare per esso»

— Dina , 19 anni , Luzzi (CS) Studentessa di Lettere e Beni Culturali 

 


«25 aprile 2020. Anniversario della Liberazione d’Italia ai tempi del Covid-19 | Molte volte ci sembra così scontato poter esprimere la nostra opinione, poter uscire di casa per recarci in un altro luogo, poter usufruire delle nostre libertà che non ci soffermiamo abbastanza a riflettere sul valore di questo termine. Molte volte ascoltiamo addirittura persone dire che la libertà non serve a nulla se non si ha il denaro. Vediamo la libertà messa su una bilancia per essere commisurata con la ricchezza: vale di più poter dire quello che si pensa o essere ricchi? In questo giorno, se mi venisse posta una tale domanda risponderei di chiederlo ai partigiani, agli ebrei, agli avversari politici, agli omosessuali che vennero uccisi, rinchiusi, deportati, torturati, trucidati… penso che ognuno di loro risponderebbe che la libertà e la dignità umana non hanno prezzo, che si può anche essere i più ricchi del mondo, ma se non si ha la libertà si è molto poveri, che solo uno sciocco limiterebbe se stesso per denaro. Ci sono cose nella vita che non possono essere barattate con nessuna ricchezza, perché sono esse stesse la vera ricchezza.
Il 25 aprile non è solo una data, non è solo una ricorrenza, ma il simbolo delle lotte, delle uccisioni, delle torture, di tutti gli sforzi immani compiuti per combattere piaghe come il nazismo e il fascismo. Il 25 aprile è sinonimo di libertà e dignità; ma una libertà che è stata a fatica conquistata e che oggi va difesa ad ogni costo. Quest’anno, questa ricorrenza è stata vissuta da tutti in modo diverso, riflettendo di più su cosa significa lottare contro un nemico. Un nemico invisibile, che si insinua nelle persone e nella società e logora tutto ciò che incontra. Un nemico che non si combatte con armi da fuoco e divise militari ma con mascherine, ventilatori polmonari e distanziamento sociale. Il fronte della battaglia non è più il confine tra uno stato e un altro ma gli ospedali, le cliniche, le strutture sanitarie. Gli eroi non sono soldati, ma medici e infermieri. Tuttavia, anche se questa guerra contro il virus ci sta infliggendo paura, non dobbiamo smettere di ricordare il passato e di imparare da esso; anzi, proprio questa battaglia deve spingerci ad un maggiore ricordo di quei valori che hanno ispirato la resistenza e che devono ispirarci oggi come allora. La seconda guerra mondiale si è conclusa con la distruzione dei regimi di Hitler e Mussolini e la guerra contro il Covid-19 terminerà un giorno con un vaccino e l’immunità globale… ma alcune guerre non finiscono quando vengono deposte le armi. Un nemico invisibile è il Covid-19 così come un nemico invisibile sono il razzismo, il fanatismo, l’antisemitismo. Il razzismo non è terminato con la seconda guerra mondiale, sicuramente ha avuto una battuta d’arresto in alcune sue espressioni estreme, ma la guerra contro il razzismo non è terminata. Il razzismo nasce dalla paura di ciò che non si conosce e anche in questo periodo di diffusione del Coronavirus non sono mancati episodi di razzismo e tentativi di incitare l’odio. A partire dall’accusa fatta ai cinesi di aver provocato la pandemia, agli sbarchi di immigrati in Italia… si insinua sempre questa tendenza a ricercare un capro espiatorio esterno. Proprio per questo motivo la mancanza di grandi celebrazioni del 25 aprile non deve farci dimenticare quei valori, ma rammentarli in modo sempre più forte per impedirci di cadere negli errori del passato.

Proprio in un momento come questo in cui le famiglie sono divise, in cui gli amici sono lontani, lontani i fratelli, lontani i genitori… Proprio in questo momento non possiamo e non dobbiamo dimenticare, non possiamo e non dobbiamo svendere i nostri diritti, non possiamo e non dobbiamo smettere di lottare contro i nemici invisibili. Il termine Resistenza appare, quindi, più attuale che mai: resistenza al nemico, resistenza al virus, resistenza al razzismo. Resistiamo per difendere la nostra libertà e lottiamo per la libertà di chi ancora oggi vive sotto il giogo dell’oppressione e del pregiudizio»

Mirjam, 20 anni, Filogaso (VV)

 


«Un periodo surreale… | È marzo, si aspetta con ansia la primavera, le giornate che si allungano, le passeggiate all’aria aperta e invece no… il 2020 ci ha riservato delle ‘sorprese’ per niente piacevoli: viene proclamata la quarantena per tutto il nostro Paese. “Stiamo combattendo contro un nemico invisibile e per sconfiggerlo dobbiamo impegnarci e rispettare le norme restrittive”, ormai da due mesi queste parole ci rimbombano in testa. È arrivato così, dal nulla, a interrompere la normalità, a spiazzare le vite di grandi e piccini. Tutto sembra strano. Prima era un’angoscia quando ci si allontanava dal ‘campanile’, ovvero il luogo che per noi rappresenta un punto di riferimento, dove abbiamo diversi ricordi, dove la memoria torna per sentirsi ‘a casa’.  Oggi ci sentiamo spaesati anche nel nostro territorio, in quel posto dove abbiamo vissuto sin da piccoli, con tutti i nostri affetti. Anche la casa, il punto di riferimento per eccellenza, verso cui tutti abbiamo il senso istintivo di tornare quando qualcosa non va, quando abbiamo bisogno di sentirci protetti, oggi sta diventando una prigione, non vediamo l’ora di uscire fuori, di ricominciare la nostra vita quotidiana, di trascorrere del tempo con le persone a cui vogliamo bene. Noi studenti che, prima, facevamo lezione guardando negli occhi i professori, dialogando assieme a loro e ai colleghi, la frase ripetuta spesso era: ‘Tranquillo, tengo io il posto se arrivo prima di te!’ , adesso tutto ciò non possiamo farlo. Grazie alla tecnologia stiamo cercando di vivere il più possibile la ‘vecchia’ quotidianità: continuiamo a fare lezione attraverso il computer, ci sentiamo con le persone lontane da noi. Il mondo intero sta vivendo una situazione surreale: il sorriso sui volti della gente sembra esser scomparso, lasciando il posto alla preoccupazione; gli abbracci che donavano conforto, amore, oggi non ci possono essere più, perché bisogna mantenere la distanza. Ogni giorno le notizie principali sono i contagiati di questo, maledetto, virus. Apprendendo minuto dopo minuto queste tragiche notizie, i pensieri si affollano, il passato torna e assale un senso di malinconia. Mi accorgo che sento la mancanza di cose, prima, considerate ‘banali’ o meglio, normali. Mi manca uscire e fare una semplice passeggiata, mi manca poter trascorrere del tempo con i miei amici, mi manca poter andare a trovare i miei nonni. La nostalgia si sente ancora di più in questo periodo. I riti del periodo di Pasqua sono molto sentiti. A Rizziconi, un piccolo paesino in provincia di Reggio Calabria, è dal lontano 1902 che il Venerdì Santo, si rappresenta la Sacra Tragedia. Si racconta la Passione di Gesù Cristo, le ultime vicende fino alla crocifissione. È divenuta col tempo una celebrazione di culto per l’intero paese, nonché una vera e propria tradizione. Vengono coinvolti non attori, bensì gente del luogo che, con impegno, rende la manifestazione affascinante. Quest’anno, abbiamo cercato di ricevere le emozioni della Sacra Tragedia, riguardando, da casa, attraverso un PC, una rappresentazione degli anni precedenti.

Stessa cosa è avvenuta la mattina di Pasqua quando, generalmente, si assiste all’Affruntata. Richiama molte persone; rizziconesi che abitano al Nord o all’estero, tornano qui in occasione della Pasqua.  Le statue di San Giovanni, di Gesù Cristo e della Madonna, escono dalla Chiesa percorrendo strade diverse. San Giovanni va tre volte dalla Madonna per annunciarle che il Figlio è risorto (da qui i ‘Viaggi di San Gianni’). La terza volta San Gianni è accompagnato da Gesù, così la Madonna capisce che è vero e va loro incontro. Quando si sta per avvicinare fa tre volte avanti e altrettante volte retrocede. Infine, i suoi dubbi sono vinti ed Ella viene ‘svelata’, ovvero viene fatto cadere il velo, segno di lutto. È un momento di forte emozione e, attraverso la morte di Cristo, si identifica la morte di un familiare caro. Nel lutto collettivo, dunque, si trasferisce un singolo dolore.  

Per quanto riguarda l’arte culinaria, da tradizione nei giorni precedenti alla Domenica di Pasqua, si fa la ‘Sguta’. Questo dolce tipico ha la forma di ciambella con diverse uova. L’uovo è il simbolo della natura, della fertilità, del ritorno alla vita. La bellezza era riunirsi tutti insieme, dai grandi ai più piccoli e imparare ogni volta qualche ‘trucchetto’ dalle persone più sagge.

Il giorno di Pasqua, non potendo fare il celebre pranzo con tutti i parenti, ci siamo ‘accontentati’ delle videochiamate con l’obiettivo di ridurre la distanza e sentirci più vicini. Attraverso i social, cerchiamo di creare una comunità, modificando lo stare insieme tradizionale. Dobbiamo cercare di essere positivi perché noi, esseri umani, fragili e piccoli di fronte a un mondo troppo grande, alla fine, ne usciremo vinti!  Proprio per non sentirci soli, nonostante la distanza e per avere dei momenti di svago, da un piccolo paesino è partita l’iniziativa di fare un flashmob musicale, coinvolgendo tutto il nostro, meraviglioso, Paese. L’Italia reclusa a combattere il coronavirus, alle 18:00 riscopre la voglia di cantare, divertirsi e di sentirsi, anche a distanza, unita, riscoprendoci ‘Fratelli d’Italia’.  

Tutto ciò ci segnerà per sempre, ma credo che possa insegnarci ad essere delle persone migliori, a ricominciare a vivere con qualcosa in più, apprezzando i piccoli gesti e senza dare nulla per scontato. Ho letto un augurio e lo voglio condividere:  

“Ci alziamo la mattina

fuori c’è il sole ma, purtroppo, anche il virus.

Muore il sorriso per un momento

intanto che ci armiamo di pazienza

e cerchiamo di non soccombere ai brutti pensieri.

C’è il sole. I fiori. Le rondini.

Li guardi dalla finestra.

Sei un po’ stanca. Ma sei viva.

Coraggio sempre.

ARRENDERSI MAI’’ (Linda Valentinis)»

Ilaria, 19 anni, Rizziconi (RC)

 


«Pandemia. Epidemia. Positivo. Negativo. Tampone. Mascherina. Guanti. Distanza di sicurezza. Autocertificazione. Restare a casa.

Da più di un mese abbiamo appreso il significato di queste parole o espressioni. Sembra siano entrate in tendenza. Sui social (Facebook o Instagram o altri ancora) leggiamo notizie o articoli in cui troviamo la parola “positivo” oppure “autocertificazione”, ma spesso l’espressione “restare a casa” ricorre: il telegiornale ce lo rammenta sempre, ogni giorno a qualsiasi ora al fine di evitare l’espansione del contagio.

Dalle ore 23:00 del giorno 9/03/2020 la vita quotidiana di ognuno di noi subì un cambiamento alquanto surreale: uscire solamente per il lavoro, per fare la spesa e per emergenze; munirsi di autocertificazione, guanti e mascherine; le uscite devono essere vitali ed essenziali e non bisogna trascorrere molto tempo fuori casa, soprattutto in caso di emergenza.

È assolutamente surreale, come scrissi sopra, una realtà simile. Sembra di vivere in un vero e proprio incubo, ma purtroppo non svanisce nel momento in cui ci si sveglia… Anzi, forse i sogni ci aiutano a “distrarci”. A “distrarci” da tutto il male che ci circonda. Ed il male è invisibile, adesso. In tempi di guerra, le bombe erano ben udibili e ben visibili. Il Coronavirus, invece, si attacca ai nostri anticorpi e, talvolta, ci annienta completamente. Dall’inizio della pandemia in Italia fino ad adesso si registrano 16.523 morti ed i soggetti più colpiti sono gli anziani dai 60 anni in su. Dati simili fanno rabbrividire.

Non risulta affatto semplice rimanere in casa ed uscire il meno possibile o, in alcuni casi, non uscire per nulla. Specialmente per i più giovani, i quali desidererebbero tantissimo sentire la brezza primaverile sulla propria pelle in una magnifica giornata in cui splende il sole. Risulta complicatissimo anche per gli asociali, abituati ad uscire il meno possibile, come nel mio specifico caso. Si arriva a vedere la propria abitazione come una prigione, da cui è impossibile evadere. Ma in tal caso l’evasione dovesse aver successo, il nemico troverebbe campo libero nel nostro sistema immunitario.

L’immagine sottostante rappresenta un quadro dipinto nel 1950 da Edward Hopper, un pittore statunitense, deceduto nel 1967 ed esponente del Realismo Americano. Il quadro è intitolato “Cape Cod Morning”: di primo acchito sembra rappresentare una donna che gode la visuale di un paesaggio bucolico dalla finestra, ma non è affatto così. Nel quadro troviamo espresso l’impedimento da parte della donna (simbolo dell’intera umanità), nella resa delle braccia e dello sguardo, di “uscire fuori”. Non ho potuto fare a meno che vederne raffigurata la situazione attuale: si vuole uscire, ma c’è qualcosa che ce lo impedisce e ci trattiene nella prigione. Perciò ci rattristiamo.

Parlando della mia personale esperienza, la quarantena si sta svolgendo in maniera alquanto insolita ed inaspettata. Prima del decreto nazionale, la mia vita aveva già subito una grande battuta d’arresto dal 22/02/2020: mio padre fu operato in seguito ad una fattura scomposta alla tibia ed ancora oggi non riesce a camminare, quindi la riabilitazione si prospetta piuttosto lunga. Avere un malato in casa è una sfida giornaliera, che si affronta e si supera con costanza e dedizione. Non mancano le difficoltà, anzi abbondano. La faccenda di mio padre ha fatto capire alla mia famiglia un qualcosa di vitale importanza. Trovò giusta applicazione il celeberrimo proverbio “gli amici si vedono nel momento del bisogno”, in questa delicata circostanza per la mia famiglia. Abbiamo capito quanto siano stati vani ed inutili i nostri aiuti, i nostri gesti, i nostri sacrifici e le nostre parole di riguardo nei loro confronti. La maggior parte dei nostri vicini sembra evitarci, da quando mio padre fu dimesso dall’ospedale. Come se fossimo tutti quanti “malati”.

Il razzismo, la paura nei confronti dell’altro, l’egoismo, l’evitare i contatti ed altro ancora nasce in momenti pandemici, come quello in cui si sta vivendo adesso.

La voglia di uscire è tantissima, perché la situazione famigliare non è per niente brillante. Instaurare un dialogo è molto difficile, per via della tensione. Si tende a discutere molto spesso. La voglia di rivedere il mio fidanzato, residente in un altro comune, non cessa mai. Ma le direttive e le norme vietano di incontrarci e di vederci. È straziante. È straziante perché il rapporto virtuale non potrà mai sostituire quello reale. Le applicazioni moderne di messaggistica ci consentono di stare spesso in contatto, ma non è affatto la stessa cosa. Ricevere o dare un abbraccio, accarezzarsi, amarsi…

Quante cose si son date per scontate ed ora, invece, piangiamo perché ci mancano e temiamo di non riaverle mai più. Forse la pandemia ci sta fornendo un grandissimo insegnamento, che nulla dobbiamo dare per scontato. Persino un saluto, dato che potremmo mai più rivedere la persona da cui lo ricevemmo. È incredibile: persino la cosa più tediosa del periodo antecedente l’epidemia ci manca. Rido per non piangere.

Spesso mi son ritrovata a riflettere, in una sorta di ‘viaggio intorno alla mia camera’, isolandomi da tutto e da tutti: ho pensato spesso alla mia infanzia ed alla mia adolescenza, alla spensieratezza che provavo nel vedere l’arrivo delle belle giornate o della Pasqua. Invece, ora come ora, guardo fuori dalla finestra con gli occhi tristi: nessun bambino gioca o urla nelle ore pomeridiane. Ricordo quanto mi irritavano, specialmente durante le lunghe ore di studio, i figli dei vicini giocare a calcetto davanti la porta di casa. Adesso vorrei tanto vederli e sentirli giocare, dato che significa che la normalità è finalmente di nuovo tra noi. Ma tornerà mai la normalità? Difficile a dirsi, anche a farsi…probabilmente.

Questo periodo ha reso più inquietanti i miei sogni. Non ricordo spesso cosa sognai la notte precedente, ma adesso so perfettamente come gli effetti di questa quarantena forzata abbiano reso i miei sogni ancora più terribile: correre, correre, cadere, inciampare, farsi male, svegliarsi nel cuore della notte e non dormire più perché si ha paura di dormire e di sognare.

La settimana santa si sta verificando piuttosto atipica, dal giorno della Domenica delle Palme: manca lo Spirito, quello Spirito che vivificherebbe ogni gesto e persino ogni simbolo legato alla Pasqua ed alla Resurrezione. Non ho più quella spensieratezza. Il mio cuore spera tanto che sarà finalmente Pasqua per tutti, in cui L’Italia risorgerà dalle ceneri, rinascendo più forte sotto ogni punto di vista.

Nessuno avrebbe detto che sarebbe stata facile, ma nessuno avrebbe detto che sarebbe stata così dura.

Tetsuya Ishida, artista surreale giapponese morto prematuramente all’età di 31 anni, raffigurò gli effetti schiaccianti della società sul singolo (inserendo anche elementi autobiografici). Questa opera mi fa pensare a come siamo costretti a vivere nelle nostre case in tempi di pandemia: un circolo vizioso inesauribile in cui siamo costretti a trovare nuove attività da svolgere pur di non impazzire, ma siamo sempre sopraffatti dalla realtà che ci circonda. È bello, certamente, stare in casa in compagnia dei propri cari; ma qualche volta è necessario “stare fuori”.

La pandemia mi impedisce di pensare al futuro. Non voglio risultare apocalittica, certo che no, però credo fortemente che nulla sarà più lo stesso. Nulla sarà come vorremmo che fosse. Non guardiamo al “prima”, dato che ci ha portato al periodo attuale. Il “dopo” mi fa rabbrividire. Il solo pensare ad un plausibile futuro mi destabilizza. Perché ho paura di illudermi che, debellato questo terribile virus, ci sarà per tutti una vita normale. Avremmo paura di relazionarci, le prime volte, non per non soffrire, ma perché penseremmo che l’altrui persona sia “infetta” o, per usare uno dei termini che oggi vanno di moda, “positiva”. Avremmo paura del contatto, persino da parte di chi amiamo. Avremmo paura ad uscire, sebbene ci si augura che avvenga al più presto. Avremmo molta cura della nostra igiene, pur di non essere contagiati. Questa “guerra” ha dato vita a nuove forme di solitudine, in cui capiamo chi o cosa è indispensabile o meno per la nostra esistenza ed anche per la nostra felicità. Le nuove forme di solitudine ci bloccano, ci chiudono, ci isolano. Ci vietano di pensare ad uno scenario post quarantena e post epidemia, perché la vita è veramente imprevedibile.

Abbiamo tutti quanti nostalgia della vita passata, però dobbiamo cercare di sperare nella creazione di un futuro migliore imparando dagli errori commessi e che ci portarono a ciò»

Enrica, 23 anni, Torano Castello (CS)

 


«Vogliamo e comandiamo che niuna novella, altro che lieta, ci rechi di fuori»
– Giovanni Boccaccio, Decameron

«L’arte del novellare. Focalizzandoci meticolosamente su quest’espressione, in modo tale da compiere un excursus temporale, ci accorgiamo che essa, palesatasi sotto molteplici forme, ha sempre accompagnato l’essere umano. Prima ancora della scrittura, si usava per tramandare tutto il sapere folkloristico di una civiltà, da una generazione all’altra. Più in avanti, abbandonati i risvolti puramente pratici, il suo unico valore, sebbene non marginale, era quello di allietare la gente, al fine di scacciare la noia. Perché la noia ‘ristagna’ la vita. La noia è menagramo di ogni desiderio. La noia è l’impedimento che ci separa dal rapimento, ci insegna Leopardi. E quale circostanza, se non questa in cui ci troviamo a vivere, è stata mai più adatta per parlare di noia?

Mi ritrovo, dunque, a fare da portavoce a tutti gli adolescenti, che come me, fremono e scalpitano, in vista di una presunta uscita serale, che ‘ai tempi del Coronavirus’, ahimè, non possono avere. Qualcuno a me caro un giorno disse che, più sete si ha, più l’assenza d’acqua è dolorosa. E che la giovinezza è questa arsura, perché è questo ardore. Tali parole, già molto esplicite, ribadiscono che i giovani hanno così tanto da dare, sono contraddistinti da una marea di idee da concretizzare, che vedendosi letteralmente rinchiusi, non possono fare a meno di sentirsi soffocare.

Le giornate si rincorrono e, i rintocchi delle ore che passano, rimbombano, grevi, in venti metri quadrati di stanza. L’unico espediente funzionale per combattere la noia (e di conseguenza l’ozio) è quello di trovare un metodo coinvolgente, per abbandonarsi alla creatività, rimanendo, comunque, fra le pareti di casa. E se è vero che tutto fa storia, anche la letteratura, questo potrebbe essere un buon momento per riscoprire i classici. Un classico è uno scritto, sopravvissuto al vortice del tempo, un’opera intramontabile, che non finisce mai di insegnare, che permette la restaurazione dei nostri valori, che ci fa osservare il presente, con occhi diversi, occhi consci degli errori passati, occhi intenzionati a non ripeterli mai più. Attualmente, quelli più pertinenti, sembrerebbero: il Decameron, i Promessi Sposi, la peste di Atene, documentata da Tucidide… In generale tutte quelle realtà storiche, che trattano (marginalmente o in primo piano) un’epidemia. Ma se siamo già abbastanza bombardati da informazioni e bollettini pandemici, possiamo tranquillamente optare per qualcos’altro: il tormentato Petrarca e il suo Canzoniere, l’Alighieri e l’oltretomba… E perché no? Montale e il male di vivere, che tanto lo estenuava. Ad esempio, dopo aver letto, non un classico, bensì un romanzo a proposito di un celebre autore, Giacomo Leopardi, voglio fare una sorta di invito a tutti coloro che leggeranno:

Leopardi ci parla di rapimento, un momento di felicità duratura e non effimera, dove passato, presente e futuro coesistono, caratterizzato dalla consapevolezza della nostra irreplicabile unicità. Il poeta marchigiano era solito perdersi in questi attimi di infinito, durante la composizione delle sue opere, vale a dire la cosa più aulica e creativa che lui fosse in grado di dare. Ecco, in questi giorni, il mio invito è quello di sfruttare il nostro tempo, impegnandoci nelle attività che più preferite. Leggete. Scrivete. Componete. Ascoltate musica. Aprite un blog. Cimentatevi in dibattiti. Trovate il vostro posto. Siate in grado di provare, almeno per qualche istante, il rapimento, la fusione dei sensi, la compresenza e l’antagonismo dell’eterno infinito e della reale finitezza»

Angela, 19 anni, Roccabernarda (KR)

 


«Il mio primo pensiero in questo periodo va alla vita che avevo iniziato e alla quotidianità che ormai ero propensa a vivere. Penso a Quattromiglia, che ormai è diventata casa mia da ben otto mesi. Immagino la mia piccola stanza e la luce del sole che entra prepotente dalla mia finestra. Medito sulle persone che vivono con me e che ormai sono diventate la mia seconda famiglia. Sembra quasi tutto un ricordo molto lontano e il pensiero che si possa discostare ogni giorno dalla mia mente mi infonde sgomento. Siamo in un periodo di emergenza e inizialmente l’unica cosa che viene in mente, soprattutto ai ragazzi universitari come me, è:” E adesso? Che ne sarà della mia vita? Dove sarò tra qualche mese?”. La voglia di concludere il mio primo anno universitario è sempre molta e più andiamo avanti, più mi rendo conto che dovrò attendere ancora molto per tornare alla mia routine. Questa pandemia è arrivata come un fulmine a ciel sereno, quando la vita sembrava un po’ più leggera e ad un tratto è diventata solo più opprimente. Greve per gli anziani che vengono abbandonati al loro destino senza alcun aiuto fisico e psicologico, per le donne che subiscono maltrattamenti e sono costrette a vivere con il loro carnefice, per le famiglie che vivono in spazi ristretti perché non possono permettersi di meglio. Un “avvenimento” che non ha bussato alle nostre porte, ma si è introdotto nella vita di tutti i giorni e si è impadronito irrimediabilmente del nostro territorio. Una terra, la nostra, che seppur molto bella, di fronte ad una circostanza critica come questa può solo chiedere aiuto, piegandosi, ma sperando di non spezzarsi mai. Una quarantena che non soltanto ha limitato la nostra libertà, ma anche la nostra “cultura”: per un cristiano, Aprile è il mese della resurrezione, della “nuova nascita”. La Pasqua, qui in Calabria, è una festività molto sentita, vissuta, nella quale vengono disposte diverse manifestazioni folkloristiche che immergono le proprie radici nella tradizione pre-cristiana e delinea emozioni comunemente sentite come il sacrificio di un uomo, il dolore e l’amore di una madre, il rinnovamento e la letizia. Le varie figure che accompagnano queste usanze da sempre sono: la “Mater Dolorosa” (Madonna Addolorata), allestita con un pugnale nel petto, un fazzoletto bianco nella mano e un vestito nero che simboleggia il lutto, che successivamente lascerà spazio a un vestito azzurro simbolo della spiritualità, San Giovanni, con la sua leggiadria e i suoi colori armonici e Gesù Cristo, nella duplice veste del “Cristo Morto nella Vara” e del “Cristo Risorto”, il primo raffigurante il Messia dolcemente compianto dalla Madre nel suo feretro, il secondo invece il  figlio di Dio che sconfigge la morte e ne dà il lieto annuncio a Maria, trasportato da una nuvola leggera. In questo periodo storico così particolare ciò che più mi fa riflettere è la descrizione dei Vangeli del momento in cui il Cristo spira sulla croce: “Dall’ora sesta si fece buio su tutta la Terra fino all’ora nona. […]  Ed ecco, il velo del tempio si squarciò in due dall’alto in basso e la terra fu scossa, le rocce furono squarciate, i sepolcri furono aperti e molti corpi di Santi addormentati risuscitarono”. La natura si ribella al più grave dei peccati degli uomini: il cielo si scurisce per tre ore, avvolgendo con la sua “notte” ogni cosa e la Terra trema, squarciando le rocce finanche i sepolcri in cui riposano i defunti. Molti cristiani, oggi, potrebbero pensare ad una strana analogia con gli avvenimenti contenuti nelle Sacre Scritture; anche oggi, infatti, assistiamo ad una terrificante ribellione di Madre Natura, parallelamente all’aggravamento dei peccati compiuti ogni giorno dalla Razza umana. Non sono certa si tratti di questo; ciò che è sicuro è che il pensiero di tutti oggi deve essere rivolto a tutte quelle famiglie che hanno perso i propri cari senza poter dare loro neppure l’ultimo saluto, trattenendo un dolore incolmabile. Un giorno, vicino o lontano, ci rivedremo e annulleremo le distanze, dedicando la ritrovata libertà alle persone che non potranno più osservare l’azzurro del cielo, sentire le onde infrangersi e che non potranno più piangere o gioire. Un giorno, quella libertà, sarà anche per voi» 

Giusy, 19 anni, Vibo Valentia

 


«È ormai evidente come l’emergenza del Covid-19 stia cambiando profondamente la nostra vita, mettendoci in una condizione che ci servirà da lezione per il futuro. Siamo colpiti dalla confusione delle informazioni, da quelle vere e dalle “fake news” e i nostri mezzi di comunicazione devono fare i conti con un mercato che elabora le notizie in modo da ottenere più audience.

Le nostre giornate passano lentamente, nonostante l’ineluttabilità del tempo e ci ritroviamo in uno spazio tanto familiare quanto stretto: la nostra casa, il luogo dove ci sentiamo più al sicuro; dove, varcando la porta di entrata, si tira un sospiro di sollievo e tutto improvvisamente scompare. Questa magia, ai tempi del Coronavirus si tinge di colori più tetri. Le mura diventano il nostro rifugio, una barriera invalicabile che, proprio come una fortezza, ci terrà al sicuro.

Mentre ci mobilitiamo perché questa fase non diventi occasione di ulteriore isolamento, mi rendo conto che, anche chi non usciva molto, sente l’esigenza di viaggiare, scoprire e abbracciare la natura che ci circonda. Questa reazione, da parte degli adulti, potrebbe apparire quasi un capriccio, ma la routine di oggi ci porta a perdere di vista anche gli elementi più “comuni”. Ci manca osservare l’azzurro del cielo, i tramonti, respirare l’aria viva del mare… tutte le gioie quotidiane!

Quest’anno, poi, nessuno si sarebbe potuto aspettare che il tempo liturgico dedicato alla conversione in preparazione della Pasqua, avrebbe avuto i connotati dell’emergenza che stiamo vivendo. Come cristiana e credente ho vissuto la Pasqua con una ferita nel cuore perché ci è stata tolta la possibilità di pregare e soprattutto di radunarci insieme per “l’Affruntata”, chiamata anche “Cunfrunta”. Ho avuto il piacere di assistere a questa celebrazione anche a Toronto dove la comunità di emigrati italiani ha deciso di mantenere la tradizione e, più che mai, avrei voluto essere di nuovo là, con la speranza di riabbracciare i miei cari. Ciò che più mi ha stupito, invece, è stato l’animo dei bambini di Filogaso (il mio paese) che non hanno voluto rinunciare a rendere omaggio al Cristo risorto e, a modo loro, hanno voluto rappresentare l’Affrontata. In una viuzza, tre bambini hanno dato vita al celebre episodio storico-religioso e, attraverso le riprese di un cellulare, lo hanno riproposto alla comunità. Si sono serviti di tre immagini in sostituzione delle consuete statue per rappresentare l’incontro tra Gesù risorto, la Madonna e San Giovanni. Per me, è stata un’idea molto apprezzata ed ero felice nonostante tutto.

Oggi, in queste giornate così cupe, cerco di dare il valore che merita a ciò che ora ci manca, in modo da poterlo apprezzare ancor di più quando lo avremo indietro.

Le domande a cui non riesco ancora a darmi una risposta invece sono: tutti ne usciremo migliori?! Chi no, perché?!»

Chiara, 19 anni, Filogaso (VV)

 


«NORMALITA’ SOSPESA | In questa strana epoca, mentre il mondo è travolto da una terribile pandemia, mi sono ritrovata a fare i conti con me stessa, con i miei pensieri ed a rivalutare le piccole cose a cui prima non davo troppo peso.  Il concetto di “casa”, per esempio, ho imparato ad apprezzarlo veramente soltanto in questo periodo durante il quale tutto si è fermato. Per molti, la casa ha assunto la concezione negativa di “prigionia” ed “oppressione”; io, invece, ho compreso quanto sia fortunata ad avere un posto dove mi senta al sicuro nonostante, fuori dalla porta, il mondo vada a rotoli. Inevitabilmente, però, la mente fuoriesce da questo posto sicuro e la malinconia ricopre diversi momenti delle mie giornate; ripenso a tutte le cose che mi mancano: alle tradizioni, ai volti delle persone che amo, alle persone lontane ed a quelle che in prima persona si sono trovate a combattere questa incredibile lotta. Penso ad Anita, una delle mie coinquiline nella casa a Cosenza; lei, quest’anno, è partita per l’Erasmus, ora è ancora in Belgio, lontana da me, dalla sua famiglia e dal suo posto sicuro. Penso poi allo zio Emilio, scomparso durante questo periodo di buio, il quale non ha avuto una cerimonia funebre ed un degno addio. Penso alla primavera, guardo il mio albero di pesco intento a fiorire, lo fece piantare il mio caro nonno per celebrare la mia nascita e affinché io ricordassi sempre che, dopo ogni inverno, i fiori ricrescono, i colori ritornano e la luce del giorno va via più tardi.  Mi ripeto queste parole, nella speranza che l’angoscia vada via e che questo brutto momento passi in fretta, poi metto la mia playlist preferita e lascio che i miei ricordi più belli, legati a quelle canzoni, prendano il sopravvento sulle mie ansie. Ritorno a quei momenti felici: ai caffè con le mie amiche, con le quali mi vedo spesso, ma solo tramite lo schermo del mio cellulare; ai tramonti sul mare, ai preparativi per le feste ed alle feste stesse, alle domeniche con i miei cugini ed alla sensazione di pace interiore la mattina di Ferragosto, dopo aver trascorso tutta la notte con gran parte delle persone che amo. Ora le mie notti sono diverse, i miei sogni lo sono, vengo spesso assorbita da uno stato confusionale che non mi fa dormire bene. Solitamente, queste sensazioni erano positive, le provavo la notte prima del mio compleanno o prima di un viaggio importante. Ora non è così, tutti i miei sogni vengono sovrastati da uno strano grigiore – che a me non è mai piaciuto-  e cerco di consolarmi prefissando un’ipotetica data per la fine di tutto questo. Ma quando finirà davvero tutto questo? Mi chiedo. Rifletto spesso sui nostri riti, sulla Settimana Santa da poco trascorsa, a tutte le attività che ero solita svolgere in questo periodo ed all’immotivata felicità che ha sempre caratterizzato le mie primavere. Ad oggi capisco che forse, tanto immotivata, non lo è mai stata. Riesco, solo ora, a vedere la bellezza delle cose che mi circondano e ad apprezzarne il loro valore. Dalla mia finestra vedo l’azzurro del mare, da sempre la principale fonte del mio star bene, continuo a pensare a  quante cose siano cambiate ed a quante ancora cambieranno, penso ai miei progetti ed a tutti i viaggi programmati, mi interrogo su come sarà quando tutto questo sarà finito e non riesco a far altro che accantonare l’idea di normalità a cui ero, eravamo, abituati, mi domando come sarà ed a cosa saremo destinati e nel frattempo coltivo in me la speranza che la nostra nuova “normalità” possa ristabilire nel mondo un equilibrio migliore, del quale da tempo non c’è più traccia. In allegato foto del tramonto, non sul mare, ma dalla mia stanza con scorci del mio albero, testimone delle mie primavere»

Ersilia, 19 anni, Cropani

 


«Chi ci salverà da noi stessi?

Chi l’avrebbe mai pronosticata una “Catastrofe” del genere nel 2020? Tanti esperti in un modo o in un altro hanno provato ad avvisarci; il problema è che le nostre vite e annesse priorità ci hanno offuscato la vista e fatto perdere la via. Descrivere il quotidiano e il tempo che scorre – a volte piano e a volte veloce – è molto difficile. Come si fa a descrivere qualcosa che abitiamo, ma che non conosciamo a fondo? Non sto parlando del Coronavirus, ma sto parlando di noi stessi, di persone nate libere che hanno la tendenza ad omologarsi e poca voglia di pensare e scegliere con la propria testa. Il mio quotidiano – un po’ come il virus – con il passare del tempo sta cambiando e dipende quasi esclusivamente dal mio umore. Come la maggior parte dei ragazzi della mia età, ero abituato a vedere la casa come un “rifugio”, cioè il luogo che mi aiutava a recuperare le forze, ma, ora, questa mia percezione è totalmente cambiata. Dopo due mesi di quarantena forzata, ho la perenne impressione di essere un animale in gabbia, sento di non essere più il protagonista della mia vita. Questo Stand-by collettivo – giusto, ma opprimente allo stesso tempo – mi sta logorando sia psicologicamente che fisicamente e con il passare del tempo anche quel briciolo di speranza che mi era rimasta mi sta abbandonando. Molto spesso cammino da una stanza all’altra con i pensieri offuscati e senza una meta precisa. Le ore diurne le occupo cercando di non pensare troppo e facendo ciò che bisognerebbe fare: studiare e svolgere dell’attività fisica. Dal tramonto in poi iniziano a sorgere i primi problemi: dopo aver cenato con la mia famiglia, le ore che seguono sono caratterizzate da diverse contraddizioni. Queste ultime sono per me un’arma a doppio taglio, i miei ricordi del passato e la mia voglia di trovarmi altrove mi intrappolano in un limbo dove tutto quello che provo è “tristemente bello”. Infatti, dopo aver parlato con i miei amici e le persone che mi mancano, mi sento assalito dalla malinconia e dai vari pensieri che non mi fanno chiudere occhio fino alle prime ore del mattino. Per fortuna o purtroppo – dipende dai punti di vista – faccio molti sogni e quasi sempre sogno ciò che mi manca: i miei nonni, i miei amici e vivere al massimo la mia amata Cosenza. Rifugiarmi nel mondo dei sogni per avere l’illusione di essere libero mi fa sentire vivo più che mai. Da sempre uso i sogni e la mia immaginazione come se fossero lo zucchero che si mette sull’orlo del bicchiere per rendere la medicina meno amara; solitamente funziona, ma in questo caso la pillola non riesco proprio a mandarla giù.

Questa triste routine e le immagini che mi affollano la mente, rendono ancora più angosciante, giorno dopo giorno, segnare con una “X” sul calendario l’ennesima ricorrenza persa. Ripenso a tutti i riti della Settimana Santa e alla Pasqua e mi assale la malinconia, soprattutto perché la comunità parrocchiale, per me, è un luogo dove mi sento a mio agio. Questi riti che, molto spesso, vengono definiti noiosi, in realtà sono carichi di significati che superano anche la sfera religiosa. In Cristo che viene torturato vediamo riflesse le nostre croci e in Cristo che muore viviamo il lutto e ricordiamo i nostri cari defunti. Oggi, più che mai, avrebbe fatto bene vedere Gesù morire e risorgere, tutto ciò avrebbe dato speranza specialmente a tutte le persone anziane che stanno soffrendo in questo periodo. È un duro colpo vedere così tanta gente morire ed è ancora più brutto sentire interventi inutili a riguardo. Chi si prende il lusso di ragionare in questo modo, forse, è accecato dal proprio egoismo e non pensa al prossimo. Fortunatamente le mie due nonne ultraottantenni e mio nonno ultranovantenne fisicamente stanno abbastanza bene, ma dal punto di vista psicologico sono molto provati. La domanda che fa da apripista alle telefonate con i miei nonni è sempre la stessa:” Clà ma secondo te quando ci liberano da questa prigionia?”. Dopo qualche secondo di silenzio imbarazzante, cerco di essere per un attimo ottimista e dimenticare tutto, mi faccio forza e cerco di rincuorarli dicendo che ci vuole solo un altro po’ di pazienza. Poi, scherzosamente, aggiungo: “Stiamo peggio dei prigionieri, almeno loro possono scappare! Noi come facciamo a scappare da questo mostro invisibile?”. Ridiamo come si soul dire per non piangere e allo stesso tempo mi sento un po’ in colpa a recitare una parte, ma purtroppo è la cosa giusta da fare. E poi rifletto sul fatto che vedere ogni giorno così tante persone che se ne vanno silenziosamente, dovrebbe fare molta più notizia e far aprire gli occhi.

È giusto morire soffrendo oltre ai dolori fisici anche la lontananza dei propri cari? Sicuramente no, perché quando il battito di un malato cessa, l’umanità perde due volte: perdiamo una vita umana e una grande ed irrecuperabile testimonianza.

In questo preciso momento storico dove è difficile pensare e sperare in un futuro migliore, forse la nostra unica speranza è quella di non far morire silenziosamente il nostro passato e proteggerlo»

Claudio, 19 anni, Cosenza

 


«“Riflessioni notturne e pensieri alati”

Non è semplice trovare le parole perché, da qualche settimana, le parole mancano. Una, però, che ritorna spesso nelle nostre giornate, è “pandemia”. Viene dal greco, quella brillante lingua, che se in un primo momento può sembrare lontanissima, a pensarci bene, ci rendiamo conto che è di una attualità travolgente.

“Di tutto il popolo”.

Tutta la popolazione in isolamento, a sentire di non vivere davvero, mentre il personale medico, eroi privi di mantello – ma non per questo meno forti o coraggiosi -, estenuato, continua a combattere per difenderci da un nemico invisibile, un mostro che ci ha portato via la quotidianità e ci ha allontanato da molte persone care; un mostro che non fa altro che mietere vittime in modo barbaro ed ingiusto. Ma quale morte può essere definita “giusta”?

Ebbene, questa potrebbe essere la trama del migliore film distopico, oppure la realtà peggiore nella quale potessimo essere catapultati. Personalmente stento ancora a crederci, a distanza di settimane. Così le parole mancano, ma riaffiorano alla sera, come animali notturni dopo il riposo dell’intera giornata e, di conseguenza, diventa tutta frenetica la notte che, insieme al giorno, forma un tempo infinito ed indefinito. Si inizia a pensare, pensare, pensare; pensieri che mettono le ali e sembrano non arrestarsi mai. Le domande sono molte e riguardano i temi più vari, tutte dettate da un unico elemento: la paura. E allora si scrive. Forse la libertà dell’essere umano non viene portata completamente via, finché gli vengono lasciate carta e penna e, immancabilmente, la facoltà di poter esprimere il proprio pensiero, in modo da far sapere al mondo che è vivo e continua a pensare, respirare, esistere.

Non sono stati giorni semplici e non ci saranno giorni semplici per qualche tempo, tutti proiettati verso un futuro incerto. “Ci sarà un futuro? Se sì, sarà diverso?”

“Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi.” Si studia al liceo, ultimo anno o anche prima, se si ha la fortuna di avere un docente preparato e appassionato. Tomasi di Lampedusa ci insegna che la rivoluzione deve avvenire dentro di noi. Però è chiaro che le azioni si ripetono, identiche a sé stesse, allora la storia non è più “maestra di vita”, perché l’uomo, dalla memoria corta, compie gli stessi errori senza imparare mai.

Se continuiamo a non saper rispondere alla domanda che concerne il mistero della vita, il senso ultimo dell’esistenza, ora, a differenza di due mesi fa, sappiamo certamente spiegare cos’è la felicità; perché anche se stiamo bene, anche se i nostri cari stanno bene, anche se abbiamo un tetto sulla testa e abbastanza cibo da mangiare, siamo grati ma non siamo felici. In questi giorni non ci vengono più in mente grandi cose, quando pensiamo alla felicità – infatti credo che le manie di grandezza di molti si siano in qualche modo attenuate – e non ci pensiamo più perché ora abbiamo capito che l’unica cosa veramente importante è riappropriarci della nostra quotidianità, del tempo, dei luoghi cari, delle persone del cuore, quelle senza le quali non potremmo immaginare la nostra vita.

Mentre io sto scrivendo, mentre ciascuno di voi sta leggendo, qualcuno sta lottando per la propria vita. Qualcuno invece non ce la fa. E non sono solo numeri, bensì persone, con sentimenti, ideali, aspirazioni; sono le persone speciali di qualcuno. Fa male, tremendamente, perché ci rendiamo conto che non solo non proveranno più la speranza, ma non riacquisteranno mai più la agognata felicità.

Eppure, in questo che si presenta come un disastro mondiale, sono tornate le rondini. Me ne sono resa conto qualche giorno fa, al tramonto, sul terrazzo, osservando il cielo che mi sembrava nuovo. È bellissimo: ognuna di loro porta con sé il concetto di rinascita. E così, se ci siamo ritrovati a trattenere le lacrime, dopo il TG, oppure addirittura a piangere, nel chiuso delle nostre stanze, abbiamo provato come un vuoto di memoria, l’inabilità a reagire, a formulare un pensiero razionale su tutta questa storia – che, anche per chi non la vive in prima linea, è tremenda -, nonostante tutto, abbiamo continuato e continuiamo a sperare: speriamo che possa andare davvero tutto bene. Perché vogliamo ritornare a stringere le nostre persone speciali, vogliamo tornare a viaggiare, a sorridere, essere felici e guardare il mondo con occhi nuovi, perché siamo esseri umani e, in quanto tali, abbiamo bisogno di stupirci… continuamente»

Marinella, 21 anni, Figline Vegliaturo (CS)

 


«“Coronavirus? Un silenzio assordante!”

La nostalgia… Nient’altro viene in mente durante il trascorrere delle nostre giornate.
Che sentimento struggente! Eppure se mi guardo attorno, pur essendo in casa mia, non c’è altro che possa provare in questo momento.

Un sentimento che, ora come ora, credo accomuni un po’ tutti.
La solitudine fa paura certo, ma l’incertezza del futuro? Ancora peggio!
Viviamo nella paura, sperando di poter combattere un nemico invisibile che, ad oggi, si è mostrato molto potente.

È surreale concepire la propria casa come una “gabbia”, vivere ogni giornata come se fosse la stessa, in maniera, ormai, sistematica.

E non si tratta di me singolarmente, della mia vita, di ciò che ho da dire – anche perché, in realtà, non so quanta curiosità susciterà la mia riflessione o quanti di voi la leggeranno -, qui si tratta di guardare in faccia la realtà e di ammettere che purtroppo sì, il nostro Paese e il mondo intero, non erano in grado di affrontare e sostenere una situazione simile quasi due mesi fa, ma neanche noi, in quanto singoli e sconosciuti donne e uomini, lo eravamo.

Quanto difficile e triste è ritrovarsi da un giorno all’altro, vivere questa situazione?

E soprattutto, quanto è difficile stare da soli con noi stessi, con la consapevolezza di essere impotenti? Moltissimo.
Abito a San Tommaso, una frazione di Soveria Mannelli in provincia di Catanzaro e, citando il grandissimo Orazio “Ille terrarum mihi praeter omnes”, per me la semplicità di questo piccolo ma grande posto ne è di sicuro l’aspetto caratterizzante, che lo rende di una bellezza unica, quella bellezza che solo un posto in cui la natura vi è ancora sovrana può avere. Sapete, sembrerà banale, ma al mattino mi sveglio, guardo fuori dal balcone ed è così tanto il dolore che provo nel non poter uscire a passeggiare, chiacchierare con tutte le “zie” e gli “zii” (le signore e i signori anziani che vivono qui), giocare i pomeriggi con i miei cuginetti, o incontrare gli amici per organizzare insieme al nostro gruppo qualcosa per portare allegria in paese, che l’unica cosa che vorrei è correre fuori e abbracciare tutta la mia famiglia e i miei compaesani.

In realtà, credo che tutto accada per una ragione. E no, con questo non intendo che questo sia la punizione per un qualcosa, credo semplicemente sia l’ammettere dei limiti. Riconoscere che l’uomo per quanto “perfetto” possa sembrare in apparenza, ha diversi limiti.

Personalmente, come un po’ tutta la mia generazione pensava che le epidemie fossero un qualcosa che si trova solo nei libri di storia o nei “Promessi Sposi” di Manzoni, di certo, non ci saremmo aspettati che nel 2020 le nostre vite si sarebbero paralizzate a causa di una PANDEMIA!
Come ci sentiamo? Abbandonati, tristi, a momenti anche un po’ fuori di testa probabilmente, ma non tutto il male vien per nuocere! Basti pensare a quante cose nuove di noi stessi abbiam scoperto stando dentro, magari non conoscevamo il talento nascosto per la cucina, per il ricamo, per il canto o semplicemente l’amore per la nostra terra.

Guardando il tutto da un’altra prospettiva, potremmo dire che questa sia un’opportunità.
Un’opportunità, innanzitutto, di vivere la propria famiglia come non facevamo da tempo, visti i frenetici ritmi che la vita al giorno d’oggi ci impone; secondariamente un’opportunità per riscoprirci, reinventarsi; un’opportunità per analizzarci in maniera introspettiva e chiederci magari se la vita che riavremo vorremo farla somigliare a quella che avevamo prima o stravolgerla completamente.
Credo che questo tempo sia il tempo della riflessione, della “purificazione” da un mondo, a mio avviso, tecnologicamente avanzato ma umanamente regredito.

Magari alla fine di questa triste situazione potremo apprezzare maggiormente le persone che ci stanno accanto e che davvero hanno voglia di far parte delle nostre vite, o magari, saremo in grado di comunicare con i nostri amici invitandoli a bere un caffè insieme e dialogare guardandoci negli occhi, senza farlo da dietro uno schermo.

Personalmente ho avuto modo di riflettere molto su chi sono, chi voglio essere, sul mondo che mi circonda.
E ho capito che per quanto ora più che mai questa frase possa sembrare assurda, la vera felicità la si trova sempre e solo quando si torna a casa.

Quella casa che oggi non vediamo l’ora di lasciare, ma che gabbia o luogo sicuro, resterà sempre il nostro faro»

Alessia Fabiola, 19 anni, Soveria Mannelli (CZ)

 


«La diffusione in Europa del Coronavirus non era così imprevedibile, dato che in Cina, già a dicembre, il contagio si era diffuso. Erano imprevedibili le conseguenze sociali ed economiche che il contagio ha determinato. Nel 2020 in Cina, però, il Coronavirus, di cui l’origine è ancora sconosciuta, ha iniziato ad espandersi attaccando milioni di persone, le quali di conseguenza hanno infettato gente di altri Stati, causando così un’epidemia che possiamo definire ad eventi pestilenziali del passato. L’Italia che fino a ieri è stato uno dei Paesi più colpiti da questa malattia ha adottato delle misure estreme, vietando ai cittadini di riunirsi in massa, ma dato che i contagi continuavano ad aumentare, impedì a quest’ultimi di uscire dalle proprie abitazioni, tranne che per esigenze di prima necessità. Il mondo che conoscevamo ha iniziato a capovolgersi, dato che tutto è stato fermato, come il lavoro, le uscite, le feste in famiglia, i riti funebri, gli incontri tra fidanzati e tra amici, e molte altre cose. Questo periodo, ovviamente, ha causato anche problemi psicologici e determinerà problemi relazionali tra le persone, come la depressione, la paura di non uscire vivi dopo la fine della malattia, la paura di perdere i propri cari e di non tornare più alla vita così come la si conosceva in precedenza. Vivendo in questa fase storica e in questa emergenza sanitaria così inedita, mi sono reso conto del cambiamento che ha avuto la mia vita in questi due mesi di pandemia. Innanzitutto, mi manca vedere i miei amici, i miei familiari, con i quali stavo spesso a contatto, e ho potuto notare che è cambiato il modo di rapportarsi con gli altri, dato che il dialogo con le persone care non si svolge più dal vivo, ma tramite web. Allo stesso modo sono cambiate le lezioni universitarie, le quali vengono svolte sempre tramite didattica a distanza, e mi risulta tutto molto triste, dato che si è perso quel rapportarsi in modo diretto, che rendeva le lezioni ancora più interessanti, e allo stesso modo erano più piacevoli da ascoltare e da capire. Ormai nessuno ha gli spazi che desidera, dato che i genitori non hanno la possibilità di lavorare e sono costretti a stare con noi in casa, e questo ovviamente ha portato ad un blocco dell’economia e ad un calo enorme del reddito familiare: infatti, molte attività economiche sono momentaneamente chiuse per limitare la diffusione del contagio, stanno aspettando con ansia la ripresa dell’attività. Essendo maggiorenne, quelle poche volte in cui sono uscito di casa per acquistare beni di prima necessità, ho notato che le persone si salutano a distanza, indossando una mascherina chirurgica sul viso per evitare il contagio, impedendo allo stesso tempo alle persone di mostrare il sorriso che era presente sul loro volto, a cui eravamo tutti abituati a vedere prima dell’inizio di tutto ciò. Noto che la gente ha paura dei propri simili, si tende ad ignorarsi l’uno con l’altro, cambiando addirittura strada per non incrociarsi. Durante questi due mesi di emergenza sanitaria, le persone hanno fermato i propri ritmi di vita, hanno avuto più tempo di riflettere sul valore dell’esistenza e della normalità perduta; in particolare, io ho dedicato molto tempo allo studio e alla mia preparazione, cercando di pensare agli esami universitari. Infatti, la maggior parte del tempo lo trascorro studiando per gli esami, che si potrebbero svolgere anch’essi tramite web, destando in me qualche preoccupazione. Dopo cena la maggior parte dei giorni trascorro il mio tempo telefonando i parenti e gli amici, seguo in tv i tanti programmi culturali che vengono proposti molto di più rispetto ai normali, cosa che prima di consueti palinsesti non sempre accadeva. Alcune volte ho nostalgia di stare all’aperto e mi reco sul balcone di casa, dove inizio a pensare che prima o poi troveremo una soluzione, per poter uscire da questo tunnel in cui il mondo è entrato, e sono molto positivo su tutto ciò. La cosa che mi fa più riflettere è che l’essere umano ha capito che non è invincibile attraverso le varie innovazioni apportate nel corso degli anni. Infatti, il campo della medicina non è capace tuttora di trovare la cura a questa malattia, ed è bastato veramente poco per far andare in crisi un intero sistema. Un aspetto che vorrei sottolineare, è il cambiamento che ho potuto notare durante la settimana Santa, che purtroppo non è stata svolta come accade tutti gli anni. In passato a Trebisacce, in cui vivo, la settimana Santa era un momento di riunione per tutti con la propria famiglia. La celebrazione della Pasqua iniziava il Giovedì Santo, e all’interno della chiesa madre di San Nicola di Mira si svolgeva l’ultima cena. Dopo questa celebrazione, si distribuiva ai partecipanti di essa il pane consacrato. La sera del giovedì Santo ci si recava in chiesa alle ore 15:30 per assistere allo scoprimento della Croce, e successivamente si svolgeva la processione con la Croce e Maria Addolorata dietro di essa. Durante la processione si era solito cantare i canti popolari di Trebisacce, che affondano la loro origine nei secoli precedenti. Successivamente ci si incontrava con le persone delle altre parrocchie, dove si faceva una piccola pausa per poi ripartire tutti insieme, e si continuava lungo il corso principale, per poi risalire a Trebisacce Paese. La processione terminava al Monte Calvario alle ore 22:00, dove il parroco dava a tutti la benedizione, ringraziando la popolazione che aveva partecipato come ogni anno al rito religioso. Il sabato si svolgeva l’accensione e la benedizione del falò rituale e dell’Acqua nova. La domenica di Pasqua si svolgeva la Santa Messa per festeggiare la resurrezione di Gesù e successivamente le persone si riunivano con la propria famiglia per pranzare e prima di ciò, si era soliti andare dai familiari per scambiarsi gli auguri. Per la prima volta nella mia vita non ho potuto assistere al rito religioso della settimana Santa così come lo conoscevo. I riti religiosi sono stati celebrati e trasmessi tramite i social network come Facebook; per coinvolgere i fedeli. Questa è stata una novità per tutti, e ciò ha determinato nostalgia in tutti per come si svolgeva la festa negli anni precedenti. Si può dire poco a riguardo, dato che il giorno di Pasqua mi sono limitato a pranzare con la mia famiglia, per poi telefonare tutti assieme amici e parenti per scambiarci gli auguri. L’assenza della festa di Pasqua ha creato in me una forte nostalgia, dato che ho riflettuto molto sul passato e sulla felicità che quel giorno portava innanzi alla porta delle nostre abitazioni. Ogni giorno sono costretto a vedere al telegiornale camion militari che trasportano i defunti nelle loro bare per essere cremati, senza dare loro una degna sepoltura, e tutto questo perché è vietato l’assembramento. Non oso immaginare come ci si possa sentire sul fatto di perdere un familiare o un amico in questo momento e in questi modi; spero che simili cose non accadano più. Le disposizioni date dallo stato hanno impedito fino ad ora di svolgere i riti funebri per i defunti come avveniva normalmente. Sono consapevole del fatto che il mondo dovrà ripartire, ma mi auguro che gli eventi legati a questa emergenza sanitaria lasceranno delle tracce nei nostri animi, e spero che il mondo possa migliorarsi. Ognuno di noi cercherà di avvicinarsi il meno possibile agli altri, finché il virus non sarà sparito del tutto. Dovremo seguire le indicazioni dello Stato, degli scienziati, e soprattutto dei medici, che hanno messo a rischio e hanno perso la loro vita ogni giorno sacrificandosi per gli altri senza avere certezze»

— Marino Pio, 19 anni, Trebisacce

 


«La scintilla | Il periodo che stiamo vivendo non è molto facile; ci siamo ritrovati in poche settimane a fare i conti con una minaccia molto pericolosa, quella del “coronavirus”, entrato nelle nostre vite in maniera “silenziosa” senza darci il tempo per prepararci ad affrontare quella che in poche settimane si sarebbe trasformata in un’enorme pandemia colpendo gran parte della popolazione, mietendo un cospicuo numero di vittime e di contagiati. In poco tempo ci siamo ritrovati a far i conti con uno stile di vita diverso da quello quotidiano, a dover accettare e rispettare le  restrizioni imposte per contrastarlo, associando a queste l’utilizzo di dispositivi per la protezione individuale quali le “mascherine”. Inizialmente abbiamo fatto fatica a comprendere la gravità dell’emergenza, ma con il passare dei giorni, l’aumento delle vittime e dei contagiati ha iniziato a far vacillare il nostro mondo “utopico” dove, illusi “dall’eterno presente” ignoravamo la gravità delle nostre stesse azioni. Iniziò così la nostra paura più grande, i nostri dubbi, le insicurezze associate al terrore della morte. Le abitazioni che fino a poco tempo prima consideravamo le  nostre “fortezze”, i nostri “punti fermi” dove speravamo di ritornare dopo un lungo viaggio o dove spesso, pressati dallo sconforto e dal malcontento abbiamo desiderato fuggire, adesso sono le stesse che ci proteggono da tutto quello che c’è fuori, premettendoci di  guardare con occhi diversi il mondo di cui ci siamo sempre sentiti “padroni”; così  iniziamo ad intravedere dettagli nuovi, dettagli a cui prima non avevamo mai fatto caso. Quelle stesse case che ad oggi sono diventate per alcuni di noi solo una “prigione”, un luogo che tiene lontani dal mondo esterno, dai divertimenti, dalle amicizie e dagli amori. Ancora oggi abbiamo tanta paura e questa angoscia quasi paralizzante incombe nei nostri pensieri quotidianamente e non ci permette di vivere, per quel poco che si può, la “normalità “.Siamo in una situazione di black-out e solo chi ha la scintilla può accendere il “fiammifero”, farsi luce in questo sentiero oscuro e proseguire il cammino senza lasciar incombere l’angoscia e il senso di spaesamento. La “scintilla”, se così posso definirla, è data dal solo ritorno alle “tradizioni” a tutto quello che fino ad alcuni mesi fa avevamo accantonato, tutti quei saperi considerati “inutili”, “antichi” e di cui la nostra società all’avanguardia non aveva più bisogno. Questo ci insegnano anche tanti autori del Rinascimento: proprio il ritorno al “ritorno al classico” il “recupero dell’antico” che ci permette di rapportarci al meglio con il presente.

Alcuni di noi, in questi giorni, hanno trovato questa “scintilla”, hanno capito che l’unico modo per andare avanti era tornare indietro, dunque rendere attuali tutti quei ricordi che caratterizzavano l’infanzia e l’adolescenza dei nostri genitori o nonni. La scoperta del “sapore”, oltre che dell’arte che si muove dietro la realizzazione di qualsiasi cibo, che fino a poco tempo fa acquistando il “preconfezionato” non conoscevamo. L’arte del “ricamo” che occupava intere giornate alle nostre nonne, che oltre ai lavori domestici e a dover badare alla casa avevano un’ulteriore responsabilità, quella preparare il “corredo” per le nozze che richiedeva tanto, tanto impegno e costanza. E adesso in questa “nuova” quotidianità, la maggior parte di noi ha finalmente imparato qualcosa e soprattutto scoperto talenti che non conosceva prima. Ed oggi più che mai mi ritorna in mente una frase di Haruki Murakami che diceva: “quando la tempesta sarà finita, probabilmente non saprai nemmeno tu come hai fatto ad attraversarla e uscirne vivo. Anzi, non sarai neanche sicuro se sia finito per davvero. Ma su un punto non c’è dubbio… Ed è che tu, uscito da quel vento, non sarai lo stesso che vi è entrato”.   E, dunque, il giorno in cui riusciremo ad uscire da questo “vento”, a mettere un punto definitivo è quando il “coronavirus” diventerà solo uno spiacevole ricordo; allora e solo allora una popolazione “diversa” da quella che precedeva la pandemia riuscirà ad abitare questo mondo con maggiore consapevolezza e rispetto l’uno per gli altri, ma soprattutto nei confronti di questo pianeta che ci “ospita”, di cui non siamo proprietari, ma semplici passanti»

Samanta, 20 anni, Corigliano-Rossano

 


«Giorno, ormai non so più, di quarantena forzata; quarantena imposta da un virus, anzi mi correggo: da un dittatore invisibile meno chiassoso, ma non per questo meno crudele e spietato che provoca, per chi ha la sfortuna di incontrarlo, dolore, sofferenza e addirittura morte. Ecco, in questo periodo è inevitabile non pensare a come la cultura della morte sia cambiata, si muore da soli senza l’affetto dei propri cari che non hanno la possibilità di dare un ultimo saluto e di celebrare un rito funebre religioso o civile che sia. Ancor più triste e terrorizzante sono state le immagini trasmesse nei vari telegiornali, dei camion militari che trasportavano le salme da portare nei diversi forni crematori; lì mi sono immedesimata negli affetti delle vittime le quali non hanno avuto la possibilità di toccare, stringere, salutare chi si è tanto amato e mi son chiesta come può un genitore, un figlio, una moglie, un nipote elaborare un dolore così grande nella solitudine più totale? Comprenderlo è tanto difficile soprattutto perché l’evento luttuoso, che ahimè ho vissuto, è stato sempre accompagnato dalla famiglia, dalla comunità e non dalla solitudine: il dolore diventa familiare e più accettabile in quanto il gruppo si raccoglie intorno a chi è colpito da una perdita e, attraverso dei comportamenti, dei riti, tenta di ridurre la sofferenza causata dal lutto. Il covid-19 ci ha privati di tante altre cose, anche e soprattutto di cose che davamo per scontate, come gli abbracci, le interazioni ‘’face to face’’ che, paradossalmente, quando ne avevamo la possibilità, non venivano desiderate ma, al contrario, veniva privilegiato ciò che ad oggi è diventato ormai compagno inseparabile e, a mio parere, quasi insopportabile: lo smartphone. Una cosa che il virus non è riuscito a fermare, ma al contrario, quest’anno non si è fatta attendere è la primavera che ci ha privilegiato sin da subito delle belle giornate, dello sbocciare dei fiori e del cinguettio degli uccellini; è come se la natura si stia impossessando dei suoi ritmi e delle sue funzioni: aria respirabile (addirittura visibile da satellite) e mari inquinati da tempo vedono, in prossimità delle coste, la presenza di animali ormai dimenticati. L’unico dato positivo di questo periodo è che la natura rifulge in tutto il suo splendore, dando l’opportunità all’uomo di riflettere; ma, ahimè, l’essere umano è di memoria corta, soprattutto perché soggiace alle amare leggi economiche che una volta finita la pandemia (perché dovrà finire), prepotentemente ritorneranno. Allora, nei momenti in cui ritorneremo alle nostre vite, scandite dalla normalità, sperando di diventare campioni di ‘’resilienza’’, dovremmo cogliere il significato della recente festività Pasquale: imparare ad andare oltre ed augurarci una vera rinascita interiore»

— Chiara, 23 anni, Rende

 


«La Pasqua, la Casa | Aspetto davanti alla TV che inizi la Via Crucis del Venerdì Santo e, intanto, ripenso all’anno scorso e a quelli passati. Trascorrevo le vacanze di Pasqua nel paese di mamma, Cropani, che conosco da quando ero piccola e che ho imparato ad amare per i luoghi e le persone.

Di solito andavamo lì il Giovedì Santo e andavamo via dopo la Pasquetta per poi ritornare d’estate. Da piccola guardavo la processione dal balcone di nonna con i miei cugini, dopo aver trascorso una giornata a giocare all’aperto o a cucinare le cuzzupe, oppure vi prendevo parte direttamente. Lì il rito del Venerdì Santo è sempre stato molto importante e sentito da tutta la comunità. Si organizza allora la processione, la naca, che esce dalla chiesa di San Giovanni verso le 21. La prima statua che viene portata per il paese è una ricchissima e luminosa culla, portata a spalla da alcuni uomini, sulla quale si trovano la Madonna addolorata piangente con in braccio Gesù morto. La segue un corteo di uomini vestiti di bianco tra cui c’è un uomo, Gesù, con una tunica porpora e scalzo che porta sulle spalle una croce di legno pesantissima e sulla fronte una corona di spine e che si ferma di tanto in tanto per inginocchiarsi. Poi ci sono i gendarmi e poi la banda, che suona “a lutto” per tutta la processione, presenziata, davanti, dal parroco. Alla coda della naca, si trova la statua di S. Giovanni, portata a spalla come quella della Madonna, da alcuni uomini che hanno fatto “u vutu” seguito poi da tutti i fedeli che cantano, piangono e pregano. La naca si muove per le strade del paese fino a tarda notte e poi alcune persone fanno “a nottata” in chiesa fino al mattino.

Da bambina, finita la naca, tornavo subito a casa di nonna; una volta cresciuta non la seguivo per intero, anzi mi fermavo a salutare, a chiacchierare, a guardare le persone sui balconi e a scherzare con i miei amici e cugini con i quali restavo in giro per il paese fino a tardi. La domenica di Pasqua era, poi, bellissima. Mi svegliavo e sentivo già i preparativi per il pranzo in cucina. Poi si andava a messa e, una volta tornati, si mangiava tutti insieme e noi bambini aprivamo le uova di cioccolato e giocavamo insieme. Vedo e vivo questi riti da molti anni e non è mai successo che la naca non uscisse. La processione si faceva anche quando pioveva, anche quando il tempo non era dei migliori. Ma quest’anno è stato diverso.

In realtà lo è stato anche l’anno scorso, ma non così tanto. L’anno scorso avevo trascorso a Cropani solo dal venerdì alla domenica. A Pasquetta sono partita per Berlino ed è stato molto strano non vivere la solita grigliata al mare con gli amici e trascorrerla, invece, in giro per una grande città che non sentivo mia. Mi ero ripromessa che quest’anno sarei stata di più in paese, per stare con mia nonna e con i miei amici che non vedo, purtroppo, sempre. Queste feste sono sempre state per me importanti per stare con la famiglia, per vivere il paese, gli amici, la nonna e tutto quello che è lontano dalla quotidianità, ma sempre presente e importante da vivere in queste occasioni speciali. Quest’anno, invece, sono qui a Catanzaro con i miei genitori e mia sorella, nonna è a Cropani. È una lontananza che mi sembra più grande del solito. Mi sento lontana dalla normalità, dalle mie abitudini, dai miei riti personali, dalle persone alle quali voglio bene, dai miei luoghi cari e dai luoghi sconosciuti e da tutte quelle piccole e scontate cose che mi appartengono e fanno parte della mia vita. Come tornare a casa dopo un’intensa settimana di lezioni o dopo la sessione d’esami. La stessa casa in cui mi trovo ora con la mia famiglia e che mi sembra più ostile del solito. Certo, qui ho le mie cose e i miei affetti, ma mi manca la mia indipendenza. Cosenza non è mai stata per me una città angosciante. Stare lì mi faceva ovviamente pensare a Catanzaro, a casa mia e al mio paese ma la voglia di scoprire nuovi luoghi, nuove persone e un nuovo tipo di vita è stata quasi sempre superiore al bisogno di casa. Ho abitato in tante case nella mia vita. Fino ai nove anni ho abitato in un’altra casa dalla quale poi mi sono trasferita e il distacco è stato terribile. Non perché non mi piacesse la nuova casa o mi trovassi male, ma perché quello era il luogo in cui sono nata ed ho trascorso i primi anni della mia vita. È stato abbastanza spaesante dovermi trasferire da quella casa per poter andare a vivere in un’altra casa. Un’altra casa! Ma com’era possibile? Credo di aver iniziato a crescere da quel momento, da quella separazione forzata che mi ha promesso una vita, fino ad ora, di spostamenti. Sono molto legata alla mia casa, è il mio rifugio sicuro, il mio spazio privato di quiete e solitudine ma anche di festa, famiglia e cibo. Ora la casa non è così. Non c’è più quell’aria particolare di gioia. Amo stare in casa a leggere, a prendermi cura di me, della mia famiglia, ma questa volta non come al solito. Sicuramente mi sento al riparo qui, lontana da quello che succede “lì fuori”, dalla morte, dalla malattia, dal dolore, ma mi sento come in prigione. Il fatto di non poter uscire, vedere i miei amici, mia nonna, le persone a me care e i luoghi del cuore mi fa stare male perché non è una mia scelta, ma un obbligo, una regola alla quale non si può sfuggire. Ripenso ai giorni trascorsi con i più cari amici quest’estate, alle feste, alle uscite e agli orari folli, all’università, alla mia indipendenza conquistata, alla mia stanchezza, alle nuove amicizie, alle cene fuori, ai caffè amari del pomeriggio, alle passeggiate per la città, alle vecchie amicizie, ai baci, alle carezze, alla fretta, alla nonna e ai cugini, al mio paese, al mio mare, alla mia contentezza, all’abbraccio di un’amica, alla paura dell’ignoto, alla voglia di proseguire a vivere e tutto questo scatena in me forti emozioni, una nostalgia perenne per quello che è stato ed un’angoscia per quello che sarà. Certi giorni solo il sentire parlare di questa situazione mi urta e mi rifiuto quasi inconsciamente di pensarci. E allora inizio a sognare ad occhi aperti, a fantasticare sulla mia vita futura e a chiedermi quando e se tutto questo si avvererà. Non posso ancora saperlo, ma posso solo avere fede»

Valentina, 19 anni, Catanzaro

 


«Pàthei  Màthos | L’uomo, inteso come essere pensante, in questo decennio, ha cessato di interrogarsi sul senso e sull’importanza della vita e nel corso degli anni ha dimenticato alcuni aspetti fondamentali; pensava di vivere in un mondo ideale, immutato, intoccabile, abitudinario, a portata di mano, senza limitazioni e conseguenze, arriva il 2020 e porta con sé una pandemia globale che ricorda all’uomo di essere un ospite su questa Terra, quindi un essere finito e mortale. La pandemia, causata dal “coronavirus”, azzera ogni tipo di rapporto umano e forme di socializzazione. Arriva con prepotenza nella quotidianità, nei riti, nelle tradizioni, nelle case, negli abbracci di tutti, senza nessun preavviso, spiazzando e stravolgendo ogni cosa. Dove anche la perdita di una persona cara è travolta dal baratro, da un silenzio assordante, il cordoglio, i rituali funebri? Vi chiederete, anch’essi messi da parte, da qui, una profonda solitudine sarà la compagna fedele di ogni uomo, quelle che erano le tradizioni e la cultura di un popolo schiacciato da una catastrofe, un qualcosa di invisibile in grado di seminare dolore in ogni angolo della Terra.

Non uscire, non abbracciare, non toccare, niente passeggiate, per quanto tempo abbiamo dato per scontato tutto ciò? Questa catastrofe e la sua diffusione invisibile all’occhio umano è l’emblema di una società e della sua più profonda paura, l’invisibile, ciò che non possiamo vedere, gestire, calcolare, prevedere, far cessare con le macchine. È paradossale pensare che mentre lì fuori il mondo sta ritrovando il suo equilibrio, dove si respira aria pulita, l’uomo, chiuso dentro casa sente una sensazione di oppressione, dove si ritrova a fare i conti con se stesso, con la sua anima, inizia ad ascoltare e ad ascoltarsi, forse, per la prima volta nella sua vita, in modo vero e profondo, senza sovrastrutture, condizionamenti esterni; l’uomo, dunque, si sente alienato; l’alienazione nella visione di Seneca in uno dei suoi dialoghi, “L’alienazione del saggio”, rispecchia questa situazione e questo momento storico: al centro del dialogo di Seneca troviamo la fugacità e la precarietà del tempo. Seneca scrive: in puncto fuggenti temperis pendeo, dalla traduzione dal latino: “sono sospeso nell’attimo del tempo che fugge”.  Seneca si sofferma sul cattivo uso che l’uomo fa del tempo che gli è stato dato a disposizione, quindi il tempo scorre senza avere la possibilità di fermarlo e l’uomo si sente oppresso dalla sua stessa inquietudine, sempre in cerca di qualcosa, proiettandosi sempre nell’ansia del futuro e non vivendo mai il presente. Il consiglio di Seneca è quello di dare un valore alla vita, svolgendo un tipo di esistenza coerente, non rimanendo “sulla superficie” di tutto ciò che viviamo. In questa condizione di alienazione, smarrimento, debolezza, instabilità,  però, ci siamo resi conto di avere occhi per guardare cose meravigliose; potrà sembrare banale, ma credo che sia l’ingranaggio fondamentale che è riuscito a sbloccare tutta questa storia; oggi osserviamo al di fuori della nostra stanza con occhi diversi, occhi curiosi che vogliono andare a fondo, sono cose che in realtà erano lì, davanti ai nostri occhi, da molto tempo, ma a guidare la vista dell’uomo ora, c’è il sentire, un sentire completamente diverso.

Per l’umanità ritrovata nelle nostre piccole stanze, i grandi sogni, per l’amore che pensavamo di aver perso, ma in realtà era radicato dentro di noi, al ricordo delle persone care che abbiamo perso, alla compagnia onirica di mio nonno Elio, che è partito per il suo ultimo lungo viaggio a Novembre. Credo fermamente che il dolore abbia accompagnato in maniera diversa ognuno di noi facendo parte delle nostre vite; fu proprio Eschilo, nell’Agamennone, nella sua tragedia a scrivere: “pàthei màthos”, ovvero ‘’apprendimento attraverso il dolore’’, la sofferenza, una sofferenza che è la strada per arrivare alla vera libertà e conoscenza, ed essere finalmente padroni di noi stessi perché abbiamo conosciuto il dolore.  Non vorrei essere cinica, anche se sarà difficile non arrivare a questa conclusione dopo ciò che ho appena scritto, ma correrò il rischio di andare controcorrente e credo fermamente che tutto ciò sia alienante, ma al tempo stesso, so che vi suonerà azzardato, catartico, perché oltre alle restrizioni fisiche, penso che anche abbia fatto volare in alto la nostra mente, sognando di camminare in spiaggia a piedi nudi al tramonto ritrovando un po’ di quell’umanità smarrita nel corso del tempo. La foto che ho scelto è stata scattata nel 1950 e ritrae la rivoluzionaria, sovversiva e straordinaria pittrice messicana Frida Khalo che ha trasformato le sue sofferenze in arte e ha fatto del suo dolore la forza motrice dei suoi quadri»

— Alessandra, 21 anni, Luzzi (CS)

 


«Voci nel Tempo | Un mattino, al risveglio da sogni inquieti, mi trovai costretto a vivere in un’enorme stanza da letto. Con questa ouverture simil-kafkiana (che non si consuma, certamente, come semplice vezzo citazionistico) intendo dare inizio alla mia riflessione, a queste mie memorie. Memorie per te che leggerai, per chiunque si dovesse interessare a questo breve testo nel tempo che verrà; per me (dove il me ha sicuramente valore di singolare collettivo) si tratta della particolare, quanto nemmeno unica, esperienza di “rivalutazione” del tempo χρόνος (il tempo del fare quotidiano, dell’abitudine, della consuetudine, della “disperazione della macchina”, come scriveva il grande Antonin Artaud nel suo “Le Théâtre et son double”, e per cui di certo non ha valore l’espressione “ammazzare il tempo” se non nel ribaltamento del soggetto e dell’oggetto) da cui possiamo ricavare ciò che è definibile in quanto καιρός, come momento opportuno e propizio, uno squarcio contro queste meccaniche abitudini; un abbandono del “fare”, dal latino “facere” e dal greco “ποιέω”, cioè produrre, fabbricare (ritorna sempre, qui, la macchina), un’azione transitiva che si conclude nell’oggetto, nell’opera, a favore, invece, di un “agire”, dal termine latino “agere” e da quello greco “πράσσω” che, dato il suo carattere intransitivo, rappresenta, dunque, un’azione che ha valore in se stessa; non è l’essere umano, nell’agire, a realizzare qualcosa, ma è proprio nell’agire che l’uomo realizza, accresce se stesso; non si parla di produrre qualcosa bensì di produr-si; non si realizza ma ci si auto-realizza. Dunque, un’opportunità offertaci, per quanto paradossale possa sembrare, dall’attuale pandemia; un’opportunità, dal mio punto di vista, per il silenzio e per il dubbio.

Il silenzio (il silenzio di Dio nei confronti di tale situazione? Non è certo questo ciò che voglio discutere) come pausa (a quanto pare, in questi ultimi tempi, su larga scala a partire dalle tradizioni di entità locale fino ai grandi sistemi nervosi industriali sempre in continuo affannarsi), momento di riflessione, superamento del linguaggio e, di conseguenza, messa in discussione e rivalutazione di noi stessi e del mondo; e quindi, quasi si trattasse di una prosecuzione naturale, il dubbio come metodo critico e di discernimento, una struttura per un possibile migliorarsi (che può avvenire, come già dicevo, solamente tramite l’agire), un eventuale abbandono di pregiudizi, conosciuti o meno (fenomeno sempre interessante dato il rapporto cultura-consuetudine) che ancora, anche in questo particolare periodo, sulla base di un esasperato etnocentrismo occidentalista, spesso mascherato anche da patriottismo, attanagliano l’attuale società. Ed è, dunque, questo ciò che propongo, sia in una continua e inesauribile discussione sia in queste brevissime pagine; un immobilizzarsi che, certamente, non è un impigrirsi o un disperarsi (fattore sicuramente possibile e da tenere in considerazione) ma che, anzi, ha valore quasi estetico ed estatico, nell’estasi della contemplazione della natura, un nuovo sguardo verso di essa dal terrazzo della nostra abitazione come dalla finestra della propria prigione-stanza.

Ed è dunque questo, nel concludersi di questa breve discussione, sicuramente confusa così come lo sono questi tempi, il mio invito e che consisterà, quando rileggerò queste parole o più semplicemente ripenserò a questa situazione, nella più dolce delle memorie e delle esperienze: fermiamoci, scomponiamoci e ricreiamoci più grandi che mai, rivalutiamoci e, infine, innalziamo e superiamo noi stessi.

Le vent se leve, il faut tenter de vivre!

(“Si alza il vento, bisogna tentare di vivere!”, Paul Valéry, Le Cimetière Marine, 1920)»

Emanuele, 19 anni Lamezia Terme

«LA NOTTE NON SI DORME | Scrivo di notte nel letto di casa mia perché non dormo, ho un dolore enorme nel petto, questa situazione mi ha scombussolato psicologicamente.
Quelle che per me erano abitudini ora sono diventate utopie, non ho la voglia di alzarmi dal letto e di affrontare l’ennesima giornata allo stesso modo come se fosse sempre domenica o sempre lunedì.
La mia mente pensa molto, riaffiorano pensieri, mi appare spesso mia nonna scomparsa un anno fa, con i suoi aneddoti e insegnamenti di vita. Non posso andare a portarle nemmeno un fiore al cimitero perché mi è proibito.
Penso a chissà se un giorno finirà tutto questo.
Penso alla Pasqua dell’anno scorso passata in famiglia, ridendo cantando e ballando.
Quest’anno l’ho passata tristemente solo con i miei genitori.
Penso molto…
Penso a mio fratello, a mia cognata, ai miei zii e ai miei cugini che sono infermieri, nostri eroi che combattono in prima linea, cercando di sconfiggere questo mostro che da gennaio naviga nella nostra penisola, portandosi via padri di famiglia, bambini, farmacisti, carabinieri, chiunque incontra lo carica sulla sua macchina della morte.
La primavera in questa situazione con ci ha abbandonati, dalla finestra di casa mia intravedo un pesco in fiore, aprendo la finestra sento l’odore della ginestra che sta per sbocciare mi inebria l’animo.
Un altro mio pensiero fisso sono le mie amiche distanti da me che non vedo da due mesi per colpa di questo virus, mi manca molto abbracciarle sentirmi amata da loro. Mi manca andare a lezione insieme a loro, prendere un caffè e a fine giornata, osservare il tramonto sul ponte dell’UNICAL.
Anche l’Università mi manca; in soli sei mesi è diventata casa mia, il mio porto, non poterci andare mi fa male.
Mi manca fare uno stile di vita NORMALE.
La cosa bella di questa situazione che quando tutto questo finirà ognuno di noi apprezzerà tutto in maniera diversa non più con superficialità.
Apprezzeremo il valore delle piccole cose, anche un tramonto sarà diverso vederlo.
E gli abbracci?
Avranno un altro sapore, avranno sapore della libertà che ci è stata vietata, per salvare il mondo.
Ma finché non si troveranno le cure, il mondo non sarà salvo, anche se non ci saranno più casi, vivremo sempre con la paura, vivremo un po’ come Renzo e Lucia, vivremo sempre con la paura che il male, in questo caso il coronavirus possa incombere da un momento all’altro nelle nostre vite, portando via chi amiamo togliendoci il sorriso per sempre»

Maria Antonietta, 20 anni, Petilia Policastro (KR)

 


«Una lezione di resilienza | “Nel mezzo del cammin di nostra vita / mi ritrovai per una selva oscura / ché la diritta via era smarrita. / Ahi quanto a dir qual era è cosa dura / esta selva selvaggia e aspra e forte / che nel pensier rinova la paura!”: i celebri versi del Sommo Poeta riecheggiano tra le mura domestiche e mai come ora risultano di un’attualità impressionante. Ci siamo imbattuti in una selva oscura irta di insidie e non è semplice trovare le parole adatte per descrivere una situazione a noi del tutto nuova.  
Il mondo si è praticamente immobilizzato di fronte all’avanzata di un vigoroso ma invisibile nemico: l’infezione da Covid-19 provocata da Coronavirus. 
In breve, si tratta di un virus la cui diffusione ha dapprima messo in ginocchio la Cina, per poi imperversare nel resto del mondo, attanagliando anche il nostro Bel Paese. Tale virus appare letale in maggior misura per gli anziani e i pazienti immuno-depressi; siccome siamo ancora sprovvisti dei medicinali appropriati e soprattutto del vaccino opportuno, il rimedio che risulta essere il più efficace è quello di rimanere a casa per contenere il più possibile i contagi. È così che è cambiata drasticamente la nostra vita: figli di un mondo avvezzo alla frenesia, ai ritmi veloci e ai lavori incessanti, sentirci costretti a rimanere in casa ci è parso come il peggiore dei supplizi, piuttosto che come la più grande delle benedizioni.
L’aspetto più faticoso di questa situazione è il limitare (se non l’annullare) i contatti umani: la distanza dai nostri cari, dai nostri amici, dalle persone che amiamo diventa sempre più arida e a logorare maggiormente il nostro animo sono l’attesa estenuante e la continua incertezza su quando potremo finalmente riabbracciarli.
Abbiamo sperimentato sulla nostra pelle che la forza motrice del mondo non è la fama, né i soldi, né il successo, ma sono gli affetti, l’amore, l’altruismo che ci rendono umani e che muovono le nostre vite nella giusta direzione. Abbiamo testato che gli aspetti della nostra “vecchia” vita che noi consideravamo banali e noiosi, come la visita ai nostri cari, un abbraccio, una mano a chi ha bisogno, una carezza che infonde coraggio, sono di vitale importanza e sono ora le cose che rimpiangiamo di più. 
Solo ora apprezziamo le attività che svolgevamo in una quotidianità ormai distante, considerata troppo snervante, impegnativa, insostenibile. Ed è proprio quella quotidianità che ci manca di più e che appare totalmente incomparabile all’attuale quotidianità. Sono entrambe, però, prigioniere di un tempo beffardo: prima, impiegando le nostre ore tra studio e lezioni universitarie, non riuscivamo mai a trovare un po’ di tempo da dedicare a noi stessi, alle nostre passioni, alle persone care; ora, invece, le giornate appaiono monotone e cristallizzate in un tempo che sembra non avere né passato, né presente, né futuro, sebbene tentiamo ad ogni costo di sfruttarlo al meglio, riservandoci soprattutto istanti per i nostri interessi.
Non possiamo inoltre negare la mancanza delle persone che amiamo, che si è ormai insinuata sino al midollo: la nostalgia dei cari nonni, degli zii, degli amici e di tutte le altre persone per noi fondamentali ci angustia tutti i giorni. Per fortuna siamo forniti di ogni tipo di dispositivo, come cellulari, tablet, computer, che ci consentono di comunicare con chi è lontano da noi, accorciando le distanze senza però annullarle, poiché nulla potrà mai sostituire il calore umano. 
Le nostre mura domestiche fungono da barriera tra noi e il mondo esterno, eppure niente può separarci da esso, anche se non siamo fuori fisicamente. Basta affacciarsi fuori dalla finestra e ascoltare delle voci o sentire un particolare odore per essere catapultati in un triste ricordo che prima era la nostra realtà. 
La tristezza più grande è però essere consapevoli di trascorrere da soli le festività pasquali, poiché siamo abituati a celebrarle allegramente in dolce compagnia. 
Machiavelli affermava che “tutti li tempi tornano, li uomini sono sempre li medesimi”: più volte, nel corso dei secoli, gli uomini sono stati afflitti da terribili epidemie come la peste, e più volte la religione è apparsa come la più grande consolazione. Anche oggi, mentre il mondo sanguina a causa del coronavirus, l’entità delle festività non può essere elusa: non poter festeggiare la Pasqua è un duro colpo sia per chi crede, sia per chi non crede, in quanto per questi si tratta di un’infrazione di una tradizione secolare.
Siamo inoltre figli di una cultura classica che da sempre ci ha insegnato a concedere una giusta sepoltura ai defunti: se per i Greci era fondamentale tributare le onoranze funebri ai morti per evitare che la loro anima vagasse senza mai raggiungere l’Aldilà, oggi i funerali rappresentano sia un ultimo saluto alla persona che non è più fisicamente con noi sia un rito per elaborare il dolore e condividere il cordoglio per attenuarlo.
È straziante, dunque, assistere alla morte di migliaia di persone senza che venga data loro una degna sepoltura per evitare gli assembramenti, acuendo così il dolore che già la morte in sé aveva provocato. Ma è ancora più avvilente, per una terra come la nostra, così ancorata ai valori passati e agli affetti familiari, piangere per la perdita di persone care senza dare loro l’ultimo saluto.
Le vicende immediatamente successive al superamento di questa situazione saranno sicuramente difficili da affrontare, perché graveranno sull’umanità pesanti fardelli, soprattutto a livello economico; ma siccome il coronavirus ci ha impartito importanti lezioni, spero che il futuro, sebbene distante, sarà radioso.
Abbiamo imparato che l’egoismo, l’indifferenza, la guerra, che avevano raggiunto un livello insostenibile nei tempi odierni, sono vani e non fanno altro che inasprire le tensioni tra gli uomini, soprattutto in momenti di difficoltà. Solo l’altruismo, l’amore verso il prossimo e la solidarietà possono assolvere il mondo da tutti i mali.
E per concludere di nuovo con Dante, con il quale ho iniziato, usciremo preso “a riveder le stelle”, perché, dopo infinite sofferenze, alla fine troveremo sempre la “retta via” e la liberazione dal dolore»

— Angela, 20 anni, San Giovanni in Fiore (CS)

 


«ASPETTANDO IL SOLE | L’attuale situazione pandemica dovuta alla diffusione del COVID 19, ha fatto assumere al governo italiano delle misure di contenimento che hanno completamente stravolto il nostro quotidiano. Il Governo per contrastare la diffusione del virus in Italia ha adottato misure che prevedono la riduzione degli spostamenti. Tutti noi siamo stati costretti a continuare in modo surreale le nostre giornate, abituandoci a metodi che prima non pensavamo mai di poter adottare.
Difficile sarà abituarci alla nuova vita che ci aspetta sulla soglia della porta, nulla sarà più come prima, il mondo è cambiato molte volte e lo sta facendo di nuovo. Dovremmo adattarci ad un nuovo modo di vivere, di lavorare e di creare relazioni. Su questi drastici cambiamenti relazionali sicuramente l’economia e la tecnologia ci verranno incontro.
Noi prima di tutto questo consideravamo la nostra CASA come il nostro “rifugio”, un luogo capace di proteggerci da ogni tipo di ostilità. Tutto quello che noi consideravamo come la “normalità” in realtà non era poi così normale e perfetto.  Io stessa vedo come una prigione ciò che prima consideravo un luogo capace di ripararmi; non siamo più noi a decidere quello che è meglio fare e non ci riteniamo più padroni del nostro destino.
La nostra società non ha mai vissuto una situazione d’emergenza così lunga; sembra quasi di ritornare nei periodi delle guerre e di rivivere ciò che i nostri antenati hanno vissuto. Finita la situazione d’emergenza, sicuramente non si ritornerà facilmente alle nostre vecchie abitudini, i rapporti umani inizieranno a deteriorarsi, la nostra quotidianità resterà maggiormente dietro uno schermo di pc e i sogni di noi tutti saranno in parte trasformati. Una cosa è certa: la saggezza nel tempo di crisi spinge a un ritorno nella propria interiorità, sembra proprio il più potente farmaco contro il virus di paura ed egoismo. Insieme all’epidemia del virus sicuramente troveremo anche l’epidemia della psiche che nasce sulle basi dell’ansia e dello stress.
Dunque, per poter cercare di sconfiggere l’ansia e lo stress che prevale su tutti noi, bisogna apprezzare che, nonostante il grande numero di decessi, il virus ha altresì un lato positivo.
Ci ha fatto riscoprire i veri valori della vita, come: il piccolo, il dimenticato, cose che prima effettivamente non pensavamo neanche di averle in testa e vicine. Stiamo riscoprendo il valore della famiglia, quello di un sorriso dal vivo e non dietro uno sfondo digitale, di un abbraccio, di un bambino che gusta il suo gelato in un parco, del profumo del mare e persino della brezza tra i capelli. Se prima si poteva pensare che il digitale potesse sostituire la vita reale, ora, abbiamo capito che mai nulla potrà sostituire il reale. Sono convinta che guarderemo tutto e tutti con occhi diversi e che dopo la tempesta arriva sempre il sole»

—  Alessia, 19 anni, Luzzi (CS)

 


«Le giornate sembrano tutte uguali, rincorrendosi il giorno e la notte ci catapultano in una realtà che non è reale. In poco tempo siamo diventati estranei alle strette di mano, agli abbracci, alla semplice pacca sulla spalla e dunque agli altri esseri umani, guardandoli talvolta con sospetto come possibili portatori del virus. Tutto in un tempo minimo ha preso nuove sembianze ed ognuno di noi si è dovuto fermare, il ricco con meno fatica, il povero con una paura in più. C’è chi si è messo a leggere, chi a cucinare e chi a pregare, chi ad urlare sui balconi come se tutte le voci unite allo stesso orario potessero se non scacciare il virus, almeno la paura di esso. Abbiamo dovuto chiuderci in casa, lasciando il nemico fuori, ma ciononostante non si è trattenuto dal fare vittime, ora quando crediamo che queste pareti siano troppo pesanti, dobbiamo pensare a loro e resistere.

C’è silenzio. Ogni tanto sento solo il cinguettio di qualche uccello, lo stesso canto mi rimanda a quando ero bambina e desideravo immensamente l’arrivo della primavera, mi piaceva l’idea di vedere tutto ciò che mi circondava prendere colore, eppure nulla sembra mutato, il sole sorge, gli alberi si colorano, gli uccelli cantano comunque, tutto il mondo sembra essersi fermato, mentre la natura si risveglia.
Siamo sempre stati abituati a dare ogni cosa per scontato dalla più semplice come passeggiare fino all’incontro di una persona a noi cara, è dunque vero che nella privazione, nel divieto, nell’assenza ci accorgiamo di quanto una cosa sia importante. Non posso che sperare che questo periodo di immense privazioni ci porti a capire ciò che realmente è fondamentale; anche se a mio avviso l’uomo tende a dimenticare; quando tutto questo finirà saremo nuovamente “intrappolati” in un tempo che sembra sempre a nostro svantaggio, prima troppo veloce e ora scandito lentamente minuto per minuto.
Penso a quanto, questo essere lontani durante la Settimana Santa, ci sia pesato ancora di più, tutti i riti tipici che abbiamo dovuto non tralasciare ma riadattare al periodo, perché l’umanità non si ferma, si attrezza come può.
È vero anche, che il periodo della Pasqua ci ha sempre trasportati in un’atmosfera di riflessione, pensiero, preghiera e ci ha in ogni tempo messo faccia a faccia con la morte, con il dolore di una madre per la perdita di un figlio, lo stesso dolore seppur di varia natura che colpisce tutto il mondo in questo momento, un dolore che investe tutti noi, l’umanità piange la scomparsa di coloro che non ce l’hanno fatta, purtroppo molte volte trasformati solo in “numeri” e dati statistici  per constatare la serietà e il peso del virus. Ogni “numero” era un nonno, una nonna, un padre, ogni “numero” era un amico, una persona cara. Le famiglie piangono la loro assenza e piangono soprattutto l’impotenza di non aver potuto far nulla, per non averli potuti salutare o semplicemente per non aver potuto compiere un gesto di conforto, come tenere la mano per rendere meno duro l’abbandono di questo mondo. Un dolore immenso. Ma la Pasqua ci ha insegnato quest’anno ancora di più, che essa è testimonianza della sconfitta della morte e dunque spero che tutti noi possiamo risorgere insieme da questa morte»

Antonella, 19 anni, Serrata(RC)

 


«“Occhi sensibili alle piccole cose” | Nella società frenetica del tutto e subito, dei mezzi di trasporto ad alta velocità ed intercontinentali, in cui basta un clic per connettersi con il resto del mondo e dove il requisito minimo per il successo è l’essere al passo coi tempi, spesso correndo da un impegno ad un altro, mangiando un boccone al volo e programmando anche il tempo libero, un virus, altrettanto veloce e fuori programma, ci richiama all’ordine. Ci grida, un po’ come le mamme calabresi di una volta, “ricogghiti pa casa”, che vuol dire, “ritorna a casa”.  Così proprio la casa, quel luogo di passaggio che ha fatto da scenografia alla nostra incalzante quotidianità, torna ad essere protagonista del nostro vivere.
Ritornando a casa, ci immergiamo nei ricordi della nostra infanzia, il periodo che maggiormente abbiamo vissuto tra le mura domestiche, e riviviamo le umili origini fatte di sapori e odori che rendono uniche le nostre famiglie. Abbiamo l’opportunità di riscoprire gli affetti, la concretezza dei piccoli gesti delle persone che ci stanno vicine, come una tavola in cui c’è posto per tutti, un pasto caldo, una carezza.
Ritroviamo anche la nostra camera, luogo che più di tutti è cambiato insieme a noi. È la fortezza che ci separa dagli altri, in cui ci riconosciamo perché trascorriamo i nostri momenti di riflessione più profondi, di solitudine, di rabbia e di fragilità. Il luogo in cui spesso, nonostante ciò che accade all’esterno del nostro recinto familiare, riusciamo ad essere grati alla vita per tutto quello che ci ha donato.
In questo modo l’attuale periodo di quarantena, caratterizzato anche da incertezze e paure, può diventare un’occasione per focalizzare ciò che è realmente importante nella nostra vita e per ritornare, una volta finito, a rivivere la società con occhi nuovi, occhi sensibili alle piccole cose.
Il dipinto “Mangiatori di Patate” di Vincent van Gogh (in allegato) ritrae la cena di una famiglia di povere condizioni, raccolta attorno ad un tavolo grande abbastanza da permettere a tutti i membri di sedersi. I volti dei personaggi sono tristi e provati soprattutto dal duro lavoro nei campi, ma si sentono rifocillati grazie all’umile cena a base di patate che risulta essere l’unico piccolo momento di ritrovo e serenità dopo una faticosa e laboriosa giornata»

Anna, 20 anni, Villa San Giovanni (RC)

 


«LA VITA È TENSIONE, MAI EQUILIBRIO | Ad un mese e mezzo dall’inizio del contagio, stiamo purtroppo affrontando, ancora oggi, una vera e propria catastrofe che sta affliggendo l’umanità intera: la pandemia da Coronavirus. Possiamo, infatti, considerarla una dura e drammatica battaglia che resterà nella storia, che lascerà un segno nella vita di ogni singolo individuo, di ogni comunità e del mondo intero e che farà, perciò, aggiungere pagine dolorose ai libri di storia, economia, sociologia ed antropologia. Così, anche io, mi trovo stravolta da questo vortice di eventi, mi rendo conto di esser stata privata della mia quotidianità, quasi come se la libertà mi fosse negata. Mi ritrovo a seguire corsi universitari online, a confrontarmi con i colleghi tramite piattaforme web, ma soprattutto mi imbatto nel ritorno in famiglia e nella conseguente condivisione di spazi che sembrano diventare sempre più stretti. Come dissi, però, nella mia tesi di maturità, quando quel poco di agitazione era mista a molta felicità, la vita è tortuosa ed è metaforicamente paragonabile alle curve matematiche. In essa sono, dunque, necessari e coesistenti i punti critici: di massimo, di minimo e di flesso. Punti di massimo da cui sicuramente si scenderà, punti di minimo da cui si può solo risalire e punti di flesso obbligatori per un cambiamento ed una crescita. Nei precedenti giorni ho colto la discesa della curva ed oggi faccio fatica ad intravedere il punto di flesso che guarda verso la risalita; penso, infatti, che ci troviamo ancora proprio in uno dei punti di minimo. In questa situazione l’apprensione di eventi drammatici che nonostante siano lontani da noi, ci trasmettono la paura che potrebbe coinvolgerci all’improvviso, mi riempie il cuore di passioni negative. Come disse però, in un suo messaggio, Un Grande Uomo, in una piazza vuota, alzando gli occhi al cielo: la speranza è un diritto. Allora in fondo al tunnel intravedo la luce, capisco che è importante seguire le passioni felici. Comincio a riflettere e scorgo il fascino delle conversazioni familiari, nelle quali vi è una fondamentale osmosi di idee; afferro le emozioni suscitate dalla realizzazione collettiva di dolci e piatti tipici; mi organizzo anche per fare attività fisica in buona compagnia virtuale e tutto ciò mi porta a concludere che forse, se ci impegniamo, un po’ di libertà la troviamo anche tra le mura di casa. Quindi, faccio in modo che si annidi in me quell’invito alla speranza, consapevole del fatto che la soluzione al dolore è nella vita stessa. È necessario, dunque, abitare i periodi di incertezza perché, alla fine, c’è da scegliere se seguire la speranza o arrendersi a condurre una vita assimilabile ad una retta, la quale non possiede nessuno dei punti critici in cui risiede la bellezza dell’esistenza stessa»

—  Silvia, 21 anni, Petilia Policastro

 


«Lockdown: questo termine americano, recentemente riesumato dai media, definisce il nostro stato attuale di isolamento, chiusura, detenzione. Ed è questo che siamo diventati, semplici detenuti.  Siamo prigionieri del mondo, un mondo che pensavamo appartenesse a noi. Ci credevamo sovrani dispotici di un pianeta che, in realtà, non ci spetta. Eravamo inconsapevoli egoisti, colmi di ambizioni smisurate. Non ci fermavamo davanti agli ostacoli perché consci delle nostre capacità e competenze. Trascorrevamo una vita frenetica, fatta di cose effimere, benessere, apparenze.

Il Covid-19 ci ha annientati. Ogni nostra negatività è stata abbattuta innegabilmente. Purtroppo, però, questo virus si è impossessato anche delle nostre “cellule” migliori. Ci ha allontanati dai nostri affetti, dalla nostra quotidianità. Ci ha imposto di rimanere in casa, di abbandonare la nostra vita sociale e quella lavorativa; di trasformare le nostre passioni, le nostre tradizioni. Ed è qui che subentra la nostalgia, quella voglia necessaria di ritorno. Vorremmo tornare ad incontrare gli amici, i colleghi, i nostri parenti. Questo è senza dubbio ciò che ci manca maggiormente: l’incontro con gli altri. Gli altri con i quali abbiamo riso, condiviso timori, momenti di serenità e tristezza. Quelli contro i quali abbiamo puntato il dito, sbeffeggiandoli, giudicandoli nei momenti in cui ci sembravano così distanti e diversi da noi e dai nostri ideali. Ci manca la condivisione, quella che tanto abbiamo faticato a raggiungere. Quante volte siamo stati vittime di un irrefrenabile egoismo, non essendo disposti ad offrire del proprio ad altri. Ora, invece, parteciperemmo volentieri ad uno scambio di idee e sentimenti. Quello che ritenevamo essere il nostro rifugio incolume è diventato la nostra gabbia. Spesso, tornando a casa la sera, stremati dopo una giornata movimentata, affermavamo: “Casa, dolce casa”. Quell’aggettivo “dolce”, così colmo di un senso di appartenenza, oggi sembra essersi trasformato in uno stato di angoscia.

Trascorriamo le giornate occupandoci delle medesime cose: lavoriamo al computer, studiamo, ascoltiamo musica, ci dedichiamo alla lettura per far evadere la mente dalla prigionia, per recuperare la nostra fantasia. Ogni giorno appare omologo al precedente. La solitudine ci ha fatto sprofondare in un baratro apparentemente senza fondo. Le strade dei paesi sono vuote, ma allo stesso tempo sature di un silenzio assordante. I nostri posti del cuore appaiono essere malinconici come la nostra anima. Nell’aria, tuttavia, soffia un vento di speranza. La primavera è tornata e segna l’inizio di una rinascita. Con sé ha portato cinguettii e odori che ritraggono vitalità.

Abbiamo dovuto reinventare le nostre tradizioni, in particolar modo quelle della Settimana Santa da poco trascorsa. Ci hanno privato dei riti religiosi, dei nostri luoghi sacri. Per la prima volta abbiamo espresso la nostra fede in maniera insolita. Abbiamo rinunciato alle lunghe tavole imbandite il giorno di Pasqua e ai ritrovi con gli amici il Lunedì dell’Angelo.

Tutto appare essere così distante da dove ci troviamo, da ciò che eravamo. Ma nel nostro “io” più abissale risiede ancora una consapevolezza, forse utopica, di ripresa. Nostro compito è riuscire ad alzarci ed iniziare a plasmare una nuova realtà. Dimentichiamoci delle nostre incoerenze, sconvenienze e dei nostri rancori. Sono sicura che il mondo riuscirà a risollevarsi, L’Italia rinascerà. Rinasceremo (forse in maniera migliore)»

Elena, 21 anni, Bonifati

 


«Un passato prossimo che è ancora presente e sarà un futuro nuovo libero dall’egemonia intellettiva umana.

 Improvvisamente nei giorni di quell’anomalo mese di marzo 2020 mi ritrovai protagonista del quadro “L’urlo” di E. Munch : le mie mani, non sulle orecchie, ma sulla mia bocca a trattenere il fiato, la mia bocca il cerchio finale di un tunnel la cui origine era il mio animo, il profondo del mio “io”, dove sentimenti contrastanti, confusi ed indefiniti pullulavano, ardevano come la lava nel cuore di un vulcano, cercavano l’uscita, ma le mie mani a mo’ di chiusura li soffocavano a protezione delle mie angosce, delle mie paure nei confronti dell’ignoto.

Paura per uno status nuovo, paura per il “Covid”: un virus di ignota provenienza, un virus letale che avrebbe di lì a poco sconvolto universalmente la vita dell’umanità.

Una forza latente, imprevedibile, sconosciuta, imbattibile, ancora più dell’atomo e della bomba atomica sulla cui composizione ed effetti catastrofici la storia ci ha edotto. Grande confusione sconvolge la menta umana: impatto virale, dovuto a mutazione naturale genetica o errore umano nella ricerca spasmodica di laboratorio? Qualunque sia stata la causa, comunque, si tratta di un evento universale inaspettato che ha sconvolto il genere umano: il suo corpo, i suoi comportamenti, le sue abitudini e consuetudini. Alla malattia si è aggiunta l’esperienza del domicilio sanitario coatto e l’esclusione totale di quella che era stata acquisita come “vita sociale”. Chiusi ogni agorà, ogni spazio aperto, niente più incontri, niente più strette di mano, nessuna parola, nessuna condivisione… Anche i lutti, la Chiesa assumono un nuovo volto: “solitudine” e “amarezza” le nuove peculiarità dell’esistenza. La vita consueta è stata stravolta, quella vita sociale conseguita nel tempo con sacrifici, lotte, conquiste, ideali, pensieri, insondabili credi e tenaci volontà è stata interrotta dopo lunghi secoli di storia.

Ora io, come tutti gli esseri umani, mi ritrovo prigioniera del mio stesso spazio: la mia casa! La mia camera, che prima era il mio rifugio, ora è la mia costrizione: passo dal letto alla postazione della scrivania con movimenti ormai meccanici. Mi sento un robot, vuota di qualsiasi emozione, tutto è calcolato e catalogato: sdraiarsi, dormire, leggere, studiare, guardare la televisione. Il rapporto con i miei genitori è diventato lineare, piatto e scontato: solite le conversazioni, niente di nuovo, il pasto condiviso solo per motivi fisiologici, non più per piacere.

Unico mio sfogo le finestre e i balconi della mia casa: mi illudo di uscire, di stare all’aperto, di essere partecipe della vita degli altri… ma così non è! Anche qui ascolto solo silenzio, non vedo alcuno, solo il cielo, gli alberi, i prati che con il loro senso di libertà riescono a frenare la mia ansia e infondere nel mio cuore un po’ di serenità e penso al Creato, a Dio e a Lui chiedo venia per tutta l’umanità peccatrice. E così, pensando al passato, alle risate con i miei amici, al mare, alle uscite comuni, alla scuola riesco ad immaginare un domani prossimo che darà a me e al mondo il giusto riscatto a questa sofferenza speciale, quando tutto sarà finito e tutto ritornerà come prima. Sì, voglio definirla sofferenza speciale, perché non è stata e non è solo una sofferenza fisica, ma anche una complessa sofferenza psicologica: ognuno di noi, infatti, si è dovuto conformare a una vita nuova, diversa e difficile da districare, dove l’isolamento e la solitudine hanno trovato aiuto negli strumenti tecnologici, prima così invisi socialmente: il volto dell’amica, della cugina, della nonna, le loro voci, i loro pensieri consegnati in modo virtuale, ma, comunque, presenti a fare compagnia a te, chiusa, circoscritta, ovattata entro i muri del tuo rifugio, costruito per proteggerti e difenderti dal pericolo esterno incombente, da quel contagio che la tua mente legge e sente come una minaccia costante e subdola.

Quel micro corpo è riuscito a sottomettere il nostro grande corpo, tutelato dalla nostra volontà di vita, per non soccombere. Sì, per non soccombere, l’umanità tutta ha dovuto armarsi, spogliarsi delle proprie emozioni, rinunciare alla gioia, rimodulare il dolore anche dei lutti, reinterpretare la vita religiosa e liturgica, rivivere festività, come la Pasqua, in versione domestica, ma comunque con la stessa passione cristiana, con quella fede che in questi tristi giorni ha riempito gli animi e ha dato speranza: Speranza che tutto finirà e che questo triste e surreale evento lascerà solo un ricordo da catalogare agli altri ricordi essenziali per la costruzione della vita di ognuno, in un futuro forse adesso diversificato, non più futuro sicuro plasmato dall’uomo, che con le sue capacità razionali ha saputo finora ammaestrarlo, ma un futuro libero, senza confini umani, sempre pronto a sorprenderci, a meravigliarci e angosciarci con le sue paure e a minacciarci con le sue esplosioni incontenibili e incomprensibili.

Quale ricordo di questa esperienza pandemica io includerò negli altri miei ricordi? Certamente, la rielaborazione universale del dolore, di un dolore contrito, rivisitato e particolarmente silente, che ha addolorato il cuore per converso, isolatamente, senza lacrime né urla»

Anna Maria, Nicotera

 


«La solitudine come condizione esistenziale | Quello che si sta verificando e che stiamo vivendo in questi mesi colpisce duramente la nostra quotidianità, la nostra anima, la nostra sensibilità, le nostre emozioni, e tutto ciò fa riflettere. Nei giorni in cui il mondo intero è in quarantena, l’esperienza della solitudine diventa collettiva, niente è più come prima. Le grandi città sono “vuote” e trasmettono un senso di tristezza e di desolazione, le piazze italiane piene di arte e di grandiosità sembrano “spente” per l’assenza della gente che vi circolava. Nessuna epoca storica precedente alla nostra ha mai potuto sperimentare una diffusione cosi ingente della solitudine. Soli in compagnia di noi stessi trascorriamo gran parte della giornata riflettendo su cosa sta accadendo e se mai ne usciremo dal dramma che stiamo vivendo. Abbiamo paura su come possa essere il nostro futuro, rimpiangiamo ciò che non abbiamo fatto in passato per paura di sbagliare o semplicemente perché abbiamo voluto aspettare e non osare. Penso che gran parte di noi abbia imparato da questa esperienza a non rimandare ciò che sta desiderando di fare da molto tempo, perchè la vita è adesso e non dopo, anche perché potrebbe succedere qualcosa in grado di stravolgere i piani di tutti noi, proprio come sta accadendo in questi mesi. Le situazioni emergenziali sono ottimi esempi per costringere le persone a fare quello che si vuole, senza lasciar loro il tempo di pensare a quello che stanno facendo. Stiamo riscoprendo l’importanza del valore etico della socialità: prima che si verificasse tutto questo, un abbraccio o una carezza non avevano un valore importante, eppure adesso ci manca tutto questo. Colmiamo queste mancanze facendo ricorso alla tecnologia, ma purtroppo non è la stessa cosa. La tecnologia non potrà mai sostituire il contatto fisico perché non basta fare una video chiamata, mandare un messaggio per sopperire a questo tipo di mancanza. Ci sentiamo soli, ma, in fondo, riflettendo, siamo nati soli, abbiamo solo paura di questa condizione che, inevitabilmente, parte della nostra esistenza. La solitudine non è da intendere come una separazione dalla massa, perché anche in gruppo ci si può sentire spaesati e alienati. Questo perché la solitudine è da intendere come una condizione d’individualità perennemente presente nella vita. C’è chi, in questo periodo, nella solitudine si annoia, e chi nella solitudine incontra le proprio paure: parliamo di persone che si trovano in isolamento forzato, di studenti fuori sede, di anziani, di persone che vivono sole in una città che non è la propria. Siamo stati privati di tutto: il futuro è sospeso e non ci resta che sognare quello che potrà costruirsi dopo che tutto questo sarà finito. Siamo tutti uguali di fronte a questo nemico, tutti fragili e vulnerabili, nessuno escluso. La paura della gente si legge nei loro occhi, ci si guarda con sospetto tremendo che la persona che si ha accanto sia contagiata. Muoiono centinaia di persone al giorno, accompagnate dalla solitudine, perché purtroppo i loro cari non possono salutarli per l’ultima volta. I corpi vengono trasportati lontano, dagli autocarri dell’Esercito, manchevoli di una degna sepoltura. I medici, gli infermieri portano addosso il peso della fiducia di coloro che si affidano nelle loro mani e i loro occhi trasmettono speranza e sicurezza ai malati di Covid-19. Grazie a loro stiamo combattendo questa guerra e grazie alle persone che rispettano le regole e restano a casa. Siamo lontani dalla normalità: i numeri che arrivano dagli ospedali ne sono la conferma. Ma ora che l’Italia è in emergenza, un po’ di ottimismo ce lo possiamo concedere in quanto molta gente ha capito che bisogna restare a casa per combattere il virus. E se prima erano i nostri connazionali all’estero a preoccuparsi per le proprie famiglie in patria, adesso siamo noi ad essere in ansia per i nostri cari fuori dai confini. Un’altra riflessione da fare è la seguente: come cambierà il lavoro con il Coronavirus? Quello che è possibile fare è chiedersi come sta cambiando il nostro rapporto con il lavoro e come sta cambiando il ruolo che il lavoro ha nella nostra vita.  Anche in questo caso non c’è una risposta, l’unica soluzione è guardare alla propria esperienza personale di questi giorni. Intanto, il lavoro prende un posto nuovo nella vita. Dato il dramma a cui siamo messi di fronte, non ci rendiamo conto delle preoccupazioni legate all’esperienza lavorativa, ma nell’intimo di ciascuna persona è difficile pensare che non sia cosi. Si scopre che il lavoro da casa, da soli di fronte ad uno schermo, spesso esaltato come modalità di liberazione dei vincoli del lavoro ci lasci incompleti. Lo “Smart Working” oggi è fondamentale per evitare un ulteriore diffusione di contagio, purtroppo ci si trova da soli a gestire le attività e ad organizzare riunioni virtuali più del dovuto, riscoprendo una mancanza di quella componente relazionale che è centrale nel lavoro. È bastato un virus a decostruire le nostre certezze, abbiamo sottovalutato ciò che stesse accadendo e la nostra ingenuità ci ha portati a pensare che il virus fosse destinato a rimanere all’interno della Cina. Non c’è voluto molto per riscoprirci la Wuhan d’Europa. La paura e la confusione si sono impadroniti di noi. Togliamoci dalla testa l’idea che sia Dio a mandarci questa punizione. Dio non castiga, Dio semmai salva. In questa Quaresima sentiamo il bisogno più che mai di una parola che consoli e che ci aiuti a vivere questo tempo che sembra essersi fermato. Possiamo approfittare di tutto questo per vivificare la nostra vita spirituale e richiamare il senso fondamentale del tempo di penitenza e preparazione alla Pasqua. Tra emergenza sanitaria e la Quaresima vi è un legame, quello delle rinunce e dei sacrifici. Questo tempo di emergenza ci ricorda la fragilità, ci insegna a rispettare la vita, ci fa riscoprire il bene comune, ci porta alla nostra interiorità. Il tempo del Covid-19 può diventare un’occasione per riscoprire alcuni aspetti della nostra fede come, per esempio, riscoprire che la “preghiera” non è solo Messa, ma occorre un ascolto personale delle Scritture e una preghiera non solo comunitaria. Anche il tempo di “digiuno”, non scelto ma forzato, da tante cose che consideriamo fondamentali nella nostra vita può diventare un tempo per fare spazio alle cose veramente essenziali e può guidarci a riscoprire la possibilità di vivere in un modo differente per fare spazio a Dio. Proprio in questo periodo ci viene chiesto di restare a casa, rinunciare ad alcune cose che fanno parte della nostra quotidianità per noi stessi e per il prossimo, si tratta di un atto di carità, ovvero un altro degli aspetti della nostra fede.

Approfitto nel citare ciò che disse Sant’Agostino: “Qualsiasi evento storico, per quanto nefasto possa essere, è sempre posto su di una via che porta al positivo, ha sempre un significato “costruttivo”. Mai come oggi abbiamo capito che ci sono dei fili invisibili che legano i nostri destini. Che salvare delle vite umane e qualcosa di incalcolabile, ma tutti, nel nostro piccolo, possiamo compiere azioni positive che hanno ricadute importanti sugli altri e sul mondo. Che creare suddivisioni per tutto: razza, cultura e religione, non serve perché quello che vediamo è semplicemente un essere umano. Tutti siamo intrecciati, interconnessi e se apparteniamo ad un tutto dobbiamo sentire la responsabilità di ciascuna nostra azione. Oggi più che mai quel gesto è necessario e può fare la differenza»

Viviana, anni 19, Rogliano (CS)

 


«MEMORIE DI UNA VITA DA VIVERE | Appena terminata la Settimana Santa, oggi mi trovo a buttare giù qualche pensiero che gira nella mia testa e che ad oggi possono diventare cosiddetti luoghi comuni. Purtroppo, nessuno di noi si sarebbe immaginato questo, nessuno ci avrebbe scommesso e la maggior parte di noi hanno sottovalutato la situazione, ma ad oggi stiamo aprendo gli occhi e guardando la realtà faccia a faccia perché, per sconfiggere il “nemico”, devi prenderlo per mano e conviverci, proprio come successe a Nietzsche con l’abisso; per combatterlo (il nemico) devi guardarti dal non diventare come lui e “quando guardi a lungo in un abisso, anche l’abisso ti guarda dentro”. Questo è quello che scriveva nei suoi flussi di coscienza Nietzsche, niente di più vero e reale ad oggi. Il cosiddetto nemico sta stravolgendo le abitudini, le normalità, la vita di ognuno di noi e ci sta guardando da vicino come noi stiamo guardando lui. Non dobbiamo sentirci lontano da ciò, non dobbiamo essere distanti dalla realtà, perché essa stessa potrebbe raggiungerci in meno tempo di quello che pensiamo e se ciò non accade è dato dalla fortuna (se cosi la vogliamo chiamare), dalla responsabilità che stiamo dimostrando; non dobbiamo essere menefreghisti come il nemico lo è stato con noi. Ma quando oggi parliamo di normalità, quotidianità a cosa ci riferiamo? Oggi, non esiste più quello che facevamo prima, non sarà più come prima ed ogni abitudine verrà stravolta più di quanto ad oggi non sia stato già fatto. Chi l’avrebbe detto che le celebrazioni della Settimana Santa, della Santa Pasqua le avremmo passate lontani dai nostri cari, dai nostri affetti più cari; chi l’avrebbe detto che il consueto festeggiamento di Pasquetta tra amici, divertimento, organizzazioni, in realtà, era un semplice pranzo a casa? Nessuno avrebbe detto ciò, ma neanche più un pranzo con la propria famiglia, ad oggi, va sottovalutato. Tante, forse troppe, sono troppe sono le domande, curiosità che abbiamo per capire meglio e per saperne di più, ma pochi sono coloro i quali avanzano ipotesi, danno risposte quasi certe perché purtroppo l’incertezza ci mangia, ci divora. Purtroppo, prima ci circondavamo di persone svariate tra amici, colleghi, cugini, parenti con luoghi molteplici, ora invece il “raggio d’azione” si è ristretto, siamo arrivati alla tanta odiata monotonia; solite facce, stessa casa, stesse mura e stessi pensieri che ci tormentano e che sembrano delle gabbie dentro le quali dobbiamo coscienziosamente stare. Poche o nulle interazioni se non attraverso un mondo digitale che sta prevalendo su un mondo che prima vivevamo come casa nostra. Tanta paura percepibile nelle nostre parole pronunciate dietro lo schermo di un telefono tra amici e parenti, paura data dalla poca conoscenza che lo stesso nemico ci ha dato, paura data dallo stravolgimento della vita, paura per una normalità che là fuori non sarà più così, ma tanta voglia di riscatto e di poter vivere ciò che ad oggi, dallo stesso, ci è stata negata. Una Pasqua vuota, scarna di incontri se non attraverso una videochiamata, un balcone per parlare col vicino ma non priva di affetto e di parole d’amore che le nostre famiglie sono sempre capaci di darci; delle tradizioni non vissute a pieno se non attraverso dirette o film che potevano ripercorrere cronologicamente gli avvenimenti della storia, che da sempre hanno, invece, fatto parte della nostra vita. Innegabile che con gli occhi di oggi il futuro ci spaventa perché non sappiamo che sembianze assumerà, dà un senso di incertezza, paura, angoscia; tutte emozioni giustamente prevalenti per il periodo odierno e neanche riusciremo nell’immediato ad immaginarci là fuori a festeggiare, a vivere normalmente perché il tornare a “prima” destabilizza, spaventa. Necessariamente abitudini, stili di vita, approcci con le persone cambieranno e il mio pessimismo cosmico non mi porta a dire, come la maggior parte degli italiani stanno facendo, che “andrà tutto bene”; forse preferisco non viaggiare con la testa, ma vivere e creare poche aspettative; ma per rendere leggero il momento, come direbbe un vero milanista “dopo Istanbul, c’è sempre Atene”, ovvero dopo le negatività, dopo le “lotte” che, a modo nostro, tutti stiamo combattendo, ci sarà il momento della rinascita per tornare a vivere. Il vivere in un paese con tante tradizioni dà tanto, ancor di più se nelle nostre famiglie queste tradizioni tendiamo a vederle come sacre; sta qui il bello. Ma come ogni cosa bella ha anche il brutto che porta con sé, e oggi credo che lo stiamo scoprendo. Il brutto sta proprio qui; quest’anno sta nel non poter vivere i riti, l’integrità della Settimana Santa, della Santa Pasqua che sono vivi in noi; il non poter vedere i propri nonni magari distanti da noi, non poter vivere con loro queste magiche tradizioni e lasciare quei vuoti mai avuti prima. Dalla semplicità di una Messa Pasquale, a quella di un rito della Santa Settimana, a un bacio mancato della nonna la domenica mattina di Pasqua, dei vuoti non piccoli per chi crede ancora in ciò e vive di tradizioni; ma tornando sempre al discorso cardine, se da persone mature rispettiamo le forti e semplici regole per combattere il “nemico” e reciprocamente ci aiutiamo, in un arco temporale magari non troppo lontano possiamo rivivere le singole tradizioni che abbiamo sempre fatto nostre. Indubbiamente, ciò che stiamo rimpiangendo tutti maggiormente è la NORMALITÀ, la cosa che più vado e andiamo a ricercare e che più desideriamo. Scontata, ma non troppo, appunto perché sono le fondamenta sulle quali la nostra vita si regge; quanto, oggi, ci sembrano lontani quei momenti dove piangevamo per un “momento no”, un esame non andato come avremmo voluto, una litigata con i nostri genitori o il piangere di gioia e di allegria dato da una battuta fatta dal gruppo di amici, da una cavolata fatta in gruppo, da una serata passata in compagnia?; quanto ci mancano le litigate tra coinquiline, le aule dove trascorrevamo gran parte del tempo con i colleghi, i semplici caffè offerti o da offrire, le ore passate in biblioteca. Arriverà il giorno in cui racconteremo ciò come un periodo storico lontano e ormai passato? Cosa sarà di ciò che eravamo? Cosa saremo dopo la caduta del nemico? Grandi preoccupazioni che portano con sé grandi speranze; ma sono certa della forza del popolo, di chi siamo e cosa abbiamo passato, come popolo, nella storia e, di certo, il popolo italiano di abbattersi non ne ha voglia»

Martina, 21 anni, Lamezia Terme

 


«Catastrofe.
Spesso ci chiediamo quale sia il significato della parola CATASTROFE, è qualcosa che va a sconvolgere la vita delle persone, che va ad alterare improvvisamente il nostro mondo. Credo che non ci sia descrizione più chiara di quello che sta affliggendo la nostra umanità da un po’ di tempo… stiamo vedendo giorno dopo giorno il nostro mondo sgretolarsi per un qualcosa che si è infiltrato silenziosamente nelle nostre vite e siamo costretti ad osservarlo da lontano. Il Papa durante la sua omelia diceva che non avremmo potuto pretendere di vivere la nostra vita “sana” in un mondo malato. Vivevamo una vita frenetica, piena di punti ciechi, in cui non avevamo un momento per fermarci… Non eravamo abituati a confrontarci con noi stessi, a rapportarci con i nostri pensieri, ma eravamo sempre circondati da cose, rumori, persone, che ci avevano levato questo lusso.
Forse davvero “eravamo felici e non lo sapevamo”.
Rimanere in casa non è mai stato un problema per me, come per altri, ma ora che siamo costretti, credo che ci sentiamo rinchiusi in una gabbia d’oro. Le giornate passano inevitabilmente nello stesso modo ormai da settimane, tra studio, letture di vario genere, ascoltando buona musica, suonando qualche brano con il mio flauto traverso, discutendo con i miei familiari su diverse questioni. In alcuni momenti mi ritrovo a fissare le foto appese alle pareti e vengo assalita da nostalgia… mi ricordano momenti felici, spensierati, in cui l’unica preoccupazione era ritrovarsi all’ora stabilita con i soliti amici, e a cui magari tante volte non ho dato il giusto valore. La natura, invece, non si è mai fermata e da giorni è giunta la primavera, spesso vengo distratta dal volo degli uccelli che vedo svolazzare dalla mia finestra, girano e rigirano, sono liberi e inconsapevoli di tutto ciò che ci sta capitando, a volte credo di invidiarli. Ci sono giorni in cui non riesco a fermare il flusso dei miei pensieri, la mia mente continua a viaggiare inconsapevolmente… sento che mi manca la mia quotidianità, non poter vedere il mio ragazzo, i miei amici, le mie colleghe.
Le strade del mio paese sono per la maggior parte deserte, come anche le Chiese, le piazze. Siamo avvolti da un silenzio assordante, non si vedono bambini giocare per strada, non si sentono i loro schiamazzi, le loro risate, non si odono venditori di frutta che richiamavano gente.
Ho provato tanta, troppa tristezza nel veder recitare la Messa davanti ad uno schermo, con visualizzazioni che salivano, like che aumentavano, il Santo Patrono esposto senza che nessuno potesse adorarlo, qualcosa di struggente e significativo che rimarrà nella nostra mente a lungo. Credo sia impossibile sostituire il suono dei canti, le letture, l’odore dell’incenso, il suono delle campane. È arrivata anche la Settimana Santa. Chi avrebbe mai pensato di trascorrerla in casa? Le chiese venivano addobbate a lutto con paramenti, piantine, il Cristo esposto, le processioni riempivano le strade con statue, congreghe (di cui faccio parte), fedeli adulti e bambini, la cui affluenza era talmente tanta che non si aveva nemmeno la possibilità di camminare per bene, le musiche funebri rimbombavano nei vicoletti ormai abbandonati, ma che durante questi giorni tornavano a prendere vita. Vedevo, poi, sui social che qualcuno si era dilettato nel ricostruire con statuette la Processione dei Misteri, curandola nei minimi particolari, ma penso che non soddisferà mai il nostro bisogno di vivere quei momenti.
Tendiamo ora ad immaginare il nostro paese come un luogo angusto e di cui aver paura, una cosa quasi contro natura visto che lo abbiamo sempre considerato come un luogo in cui rifugiarsi, un porto sicuro. Le persone a noi care, ma soprattutto conoscenti, sono diventate delle minacce da cui tenerci lontani. Fortunatamente la situazione è leggermente migliorata, anche se le persone colpite da questo virus continua a morire. Cerco ogni giorno di non perdere la speranza, augurandomi che tutto ritorni alla normalità…tuttavia, fatico a credere che ogni cosa torni velocemente come era prima, ma ancora di più credo che si farà fatica ad acquisire nuovamente la fiducia persa nell’altro.
Ad oggi siamo costretti ad osservare la vita dalle nostre finestre, come nel quadro di Salvator Dalì, Ragazza alla finestra, 1925»

Maria Carmela, 22 anni, Corigliano-Rossano

 


«Diario di bordo: Giovedì Santo | Sono le 06:30, il sole è già alto e si prospetta essere una giornata più intensa delle altre. Mi affascinano le parole, proprio perché come le persone sono costituite da una struttura superficiale e una profonda. Non è un caso che definisca la giornata di oggi con l’aggettivo intenso, in quanto si dice di fatto o fenomeno la cui portata qualitativa o quantitativa risulti singolarmente accentuata rispetto ai modi e agli effetti caratteristici consueti; una sorta di trasgressione, interruzione della monotonia. Dentro di me, inizia ad insinuarsi un forte senso di nostalgia, questo desiderio pungente, rimpianto malinconico di ciò che è stato, lontano, ma che per forza di cose non si potrà ripetere quest’anno. I pensieri iniziano ad affollarsi in una libera rappresentazione, prima che la mia mente possa riorganizzarli logicamente. Nel mio paese, con l’inizio della Settimana Santa, oltre al ritiro spirituale, alle rappresentazioni e ai riti religiosi, ci si diletta con grande entusiasmo nella realizzazione dei dolci pasquali, e si predilige come giorno il giovedì Santo. La Settimana Santa fa da spartiacque tra l’inizio e la fine della Quaresima. La Quaresima, che nell’immaginario popolare viene presentata come la moglie del Re Carnevale, porta con sé digiuno e penitenza, una sorta di quarantena dell’anima. Attraverso una chiave di lettura moderna e attuale, la società nella quale abbiamo vissuto fino a questo momento, altro non ha rappresentato che un gran Carnevale, una grande festa dell’abbondanza, dove a far da padrone era il Dio denaro, e la convinzione di non aver limiti. Ad oggi ci troviamo ad affrontare la nostra quarantena dell’anima, con una differente consapevolezza e un nostalgico presente. I ricordi sono i mattoni della nostra vita, sono come le onde del mare vanno e vengono, ci riavvicinano ad un momento del passato: una voce, un profumo, un suono. Cerchiamo spesso di dare un’interpretazione ai ricordi, ma quasi sempre sono legati ad un certo carico emotivo. Sin da bambina, il Giovedì Santo per me rappresenta una giornata felice, ricca di emozioni, la giornata dedicata a me e alla mia nonna, alle nostre lunghe chiacchierate, ai suoi racconti e al mio stupore. Da lei ho ereditato il nome e il sorriso, e quando fanno presente ad entrambe che ci somigliamo molto, il mio cuore si riempie di orgoglio e i miei occhi acquistano una luce diversa, la stessa luce che riesco ad intravedere dai suoi di occhi, più fondi del mare. La sua casa profuma di giglio e i suoi capelli di camomilla, è una donna dalle tante, forse troppe parole, cuore grande e spalle larghe. Porto sicuro in cui potersi rifugiare, preziosa enciclopedia da sfogliare. Amante del bello e dell’amore, mi ha insegnato che nella vita c’è sempre qualcosa o qualcuno per cui vivere e lottare. Donna stabile e instancabile, per lei ero, sono e sarò sempre la sua bambina. Dall’età di sei anni, mi sono sempre offerta come volontaria per aiutarla,  nel preparare i vari dolci, la cosa che più amavo e amo ancora, è osservarla, memorizzare ogni suo movimento, ascoltare ogni singola parola. Ero una bambina molto curiosa, soprannominata “Miss perché”, chiedevo spiegazioni per qualsiasi cosa e avevo l’abitudine di utilizzare la carta da forno per  costruirmi il mio cannocchiale, convinta di poter vedere con occhi diversi chi mi stava intorno, e in modo da poter fissare le immagini come delle istantanee. Nonna Mariella munita del suo vecchio ricettario, appartenuto alla sua mamma, disponeva sul tavolo tutti gli ingredienti e la strumentazione di cui necessitava. A far da padrone era il grasso di maiale, che a detta sua rende tutto più buono, e soprattutto perché, per citarla: “ai miei tempi c’era solo questo, né burro, né margarina”. E si metteva subito all’opera, preparando ogni tipo di dolce, dalla ciambella di Pasqua a quelli che noi chiamiamo i “cuculicchi”. Il ‘cuculicchiu’ è un prodotto tipico della tradizione calabrese, fatto con l’impasto del pane, può essere sia dolce che salato. Rappresenta un bambino, e la tradizione vuole che vengano donati proprio ai bambini. Nella parte superiore, in quella che dovrebbe essere la testa, viene posto un uovo, segno di abbondanza e di rinascita. Mia nonna racconta di come da bambini aspettassero il cuculicchiu, oltre che per mangiarlo, per giocarci, avvolgendolo nelle lenzuola e prendendosene cura, lo trasformavano idealmente, in un vero e proprio bambino. Si poteva dare a questo dolce la forma che più si gradiva e di svariate dimensioni, tra quelle preferite di mia nonna c’è senz’altro la forma della borsetta, realizzata accuratamente e con ricercati dettagli. La notte del Sabato Santo venivano portati in chiesa e insieme all’acqua, sottoposti alla benedizione, per poi essere spezzati e poterli  mangiare tutti insieme. Impiegavamo l’intera mattinata a realizzare tutto questo genere di leccornie, e nel pomeriggio preparavamo noi e il nostro cuore, alla celebrazione e rappresentazione dell’ultima cena, nella nostra chiesa. Mia nonna precisa ed evidenzia di come gli apostoli venissero interpretati dagli anziani del paese, in quanto gli anziani dovrebbero essere dei pacificatori, degli insegnanti della preghiera, che guidano mediante il loro esempio; una posizione che dev’essere ricercata, ma non presa alla leggera.  Oggi guardo a ieri, con gli occhi della mente, vedendo quello che fino ad ora non avevo mai visto, oggi è una giornata di ricordi e di grande nostalgia, mi nutro delle foto che possiedo e che amo fare perché la fotografia ha un linguaggio autonomo. Oggi mia nonna la posso sentire solo attraverso la cornetta del telefono, e nonostante tutto mi sento molto fortunata. Perché pur non potendola abbracciare la posso sentire, e percepire anche a distanza il profumo della sua pelle e della sua casa. Oggi i dolci li ho preparati lo stesso, con mia mamma e con una consapevolezza diversa. Oggi ho ricreato quella pace dello spirito, nella cucina di casa mia, guardando in TV un uomo stanco, anziano, che con sguardo arrendevole e impaurito, cerca di ricreare la normalità, in un contesto tutto fuorché normale; che prima ancora di essere Papa è per l’appunto un uomo, che cerca di accorciare le distanze e ciò mi commuove. Mi sono resa conto di come il tutto e il niente alla fine coincidano, e che dovremmo desiderare quello che già possediamo.

Penso, anzi spero, che questa sia la nostra Pasqua, l’augurio è quello che proprio come una fenice possiamo rinascere dalle nostre ceneri»

Mariella, 21 anni, Torano Scalo

 


« “Desiderio smodato di libertà” | Sfoglio le foto per rivivere momenti andati, emozioni vissute, attimi che sembrano lontani ora più che mai, ora che la libertà ci è stata limitata dall’avvento di una terribile catastrofe: una pandemia “sterminatrice” di anime.

Mi soffermo su quest’immagine in particolare, una foto da me scattata due estati fa circa a Tropea; chiudo gli occhi, mi ritrovo in quel posto, in quel preciso momento, riesco persino a sentire l’odore del mare, a percepire il calore dei raggi solari sulla pelle, riesco finalmente a “respirare” la libertà!

La mia riflessione comincia proprio da qui, dalle emozioni che questa fotografia mi ha suscitato, e mi chiedo: tornerà la libertà tanto agognata?

Ognuno di noi adesso desidera essere libero, libero da questo incubo che ci ha travolti senza preavviso, in maniera cruenta, quando tutto sembrava quiete.

Un silenzio assordante pervade i paesi, persino le città, tutti restano a casa così come ci viene imposto. Il virus ci ha portato via tutto, persino la quotidianità, ci ha portato via non solo vite, ma anche progetti futuri, prospettive e ancora tradizioni. Solo chi vive in Calabria, e più di chiunque altro, ha vissuto e amato i riti e le tradizioni che caratterizzano questa regione, e io stessa solo adesso percepisco l’autenticità delle usanze della Settimana Santa, l’emozione che suscitava il Cristo morto in processione per le vie del paese, e tutte le altre funzioni che fino ad adesso sembravano scontate. Solo adesso rimpiango ciò, adesso che tutto questo è diventato un ricordo lontano e la Pasqua quest’anno non la vivo come vorrei.

Ho costantemente sensazioni contrastanti: paura e speranza, la prima consuma la seconda. La paura ci viene trasmessa persino dalla televisione, dove l’immagine di uomini offuscati e precocemente sfibrati, che combattono contro questo “nemico invisibile”, ci fa perdere la fiducia.

La casa è divenuta rifugio, non più dimora, non più luogo di ritorno, ma rifugio dall’amico diventato nemico e quasi sconosciuto, rifugio dalla sofferenza che sta invadendo ogni strato sociale, senza distinzioni.

In merito a questa attuale condizione umana di precarietà, mi piacerebbe citare un celebre scrittore statunitense, Francis Scott Fitzgerald: “Così continuiamo a remare, barche contro corrente, costantemente risospinti nel passato”; credo che questa espressione chiarisca a pieno il mio stato d’animo, e forse quello di ognuno di noi, un ritorno continuo al passato e ai passati momenti felici per poter vivere con tranquillità, e all’insegna della speranza, un presente tanto incerto»

Maria Grazia Scalea, 19 anni, Oppido Mamertina (RC)

 


«A MANO A MANO | Come un satellite che spia dall’alto il brulicare umano, immagino di vedere veloci scie colorate tracciate dalla frenesia delle necessità degli uomini. Linee che si sovrappongono a creare un sempre crescente scarabocchio, in un tempo quasi scollato dal disordine della fretta. Se fosse un normale martedì di lavoro, questo luogo osservato, si trasformerebbe, istantaneamente, in un foglio bianco a trattenere le paure dei tentativi umani. Il fare, l’arrivare per primi, l’eccellere, l’essere meglio di, ci portano a preparare il sacrificio per l’obiettivo da raggiungere. Così, ci armiamo con cura per le nostre gare giornaliere: attenti all’immagine, che celi fatica e preoccupazione: dobbiamo essere belli e coraggiosi come degli eroi e come degli eroi non piangere mai. Siamo pronti per il nostro contributo alla crescita del reticolato e le linee corrono, si sfiorano, si sovrappongono, s’intrecciano, a volte si scontrano, a volte combaciano, ma nulla ferma il loro andare. Scivolano sulle cose, celeri come i giganti dell’alta velocità, ma non con la leggerezza che Calvino canta. L’imprevisto non è opportunità ma ostacolo, per scrutare intorno ci sarà tempo domani. Chi teme di deragliare, chi non riesce ad accelerare, chi arriva per ultimo, chi si arresta in galleria, chi non può frenare, chi finisce il carburante, chi si mortifica perché viene superato, chi deve dare la precedenza… mentre i “migliori” sfrecciano con il volto illuminato dal bianco feroce del sorriso. Gli occhi negli occhi non cadono mai e se succede, cedono le palpebre: nessun posto sull’agenda per uno sguardo fuori programma. Poi ci sono i contemplatori, i “perdigiorno”, quelli che hanno l’ardire di sentirsi “quasi tristi come i fiori o l’erba di scarpata ferroviaria” 1, quelli fuori dai giochi, quelli che camminano e che, se percepiti, vengono solo derisi. La fretta crea distanziamento sociale, come un’epidemia, la fretta, se l’equazione non sbaglia, è una catastrofe. Pensare rallenta, pensare è imprevisto, pensare è pietra d’inciampo.

Ma questo non è un martedì di fretta. Il satellite scruta sospettoso un andare calmo, un disegno che si realizza con distensione, quasi con ponderata scelta. Tante linee attendono in stazione una ripartenza senza data, molte continuano a correre da ferme rispettando i limiti, alcune fremono in gabbia come a sentire per la prima volta un desiderio di sconfinatezza, altre si stringono a questa tregua, ma per tutte, nella loro diversità, ci sarà un sentore comune, la percezione di un’abitudine bombardata. E non so se si trasformerà in smania, disturbo, pace o disperazione. Sarà comunque una novità. Questo rallentamento salvifico per il pianeta, lo sarebbe anche noi se badassimo al rovescio della medaglia, almeno per lo spazio del pensiero, almeno per la sua smisuratezza intrappolata nei meccanismi del profitto occidentale. Certamente trovo impossibile e ingiusto tentare di parlare universalmente, per i miei limiti, per le nostre diversità di costituzione, percezione e condizione, ma anche per il sistema capitalistico neo liberista, burattinaio di questa società, che ci rende talmente impari da moltiplicare esponenzialmente i punti di vista. Questo virus ha ferito molti ed irrimediabilmente: affetti strappati, impieghi e dignità crollati, fatica, disperazione, dolore. Per troppi è un cataclisma fuori scala, vite intere da rifare. A questi tanti, però, si affiancano i fortunati come me, quelli con la porta già “segnata”, che potrebbero farsi coccolare da una certa strana serenità ed incantare da visioni impagabili di curiosità e pensiero. Questo “state a casa” sembra un deragliamento, ma ciò che si racconta come una disfatta schiude, nelle pause, il potere della risorsa.

Il canto della natura, le giornate più lunghe, un libro abbandonato, delle foto dimenticate, un affetto trascurato, un risveglio. Questa calma mi riporta nei vicoli del paese della memoria “che quasi quasi senti l’odore del caffè pure per strada e subito dopo quello del soffritto perché il pranzo si prepara alle cinque della mattina”. I muri assolati, quel color ocra schiantato contro il cielo, il canto dei dialetti, il profumo dell’aria, la bellezza dell’umiltà e della gentilezza. Sembra tutto al posto giusto, dalle pietre del ruscello al piatto in tavola, persino la fatica nel “tirare a campare”, persino il curvare la schiena nei campi. Anche Roma oggi è più docile: come un gatto lontano che si stira nel sole degli ultimi sanpietrini rimasti, si accoccola e ti chiama.  E poi, nella quiete, immagino la terra che, piano, cambia veste: la placca africana che scivola sotto la Calabria, l’Appennino che si approssima ai Balcani, “l’oceano” Tirreno che diminuisce sempre più, ad insegnarmi che la lentezza trascina con sé grandi rovesciamenti. Peccato che le questioni dell’esistenza siano almeno di duplice lettura: il calmo e nascosto mutare, come il regolato andare del meccanismo umano, può esplodere, distruggere, inondare. E credo che all’ineluttabilità delle “catastrofi” noi si possa rispondere solo con occhi affamati, nutrimento per un cuore saldo nella terra, più saldo della terra e con il pensiero lento “che offrirà ripari ai profughi del pensiero veloce quando la macchina inizierà a tremare sempre più e nessun sapere riuscirà a soffocare il tremito. Il pensiero lento è la più antica costruzione antisismica” 2

“Bisogna essere lenti come un vecchio treno di campagna e di contadine vestite di nero, come chi va a piedi e vede aprirsi magicamente il mondo, perché andare a piedi è sfogliare il libro e invece correre è guardarne soltanto la copertina. Bisogna essere lenti, amare le soste per guardare il cammino fatto, sentire la stanchezza conquistare come una malinconia le membra, invidiare l’anarchia dolce di chi inventa di momento in momento la strada. Bisogna imparare a star da sé e aspettare in silenzio, ogni tanto esser felici di avere in tasca soltanto le mani. Andare lenti è incontrare cani senza travolgerli, è dare i nomi agli alberi, agli angoli, ai pali della luce, è trovare una panchina, è portarsi dentro i propri pensieri lasciandoli affiorare a seconda della strada, bolle che salgono a galla e che quando son forti scoppiano e vanno a confondersi al cielo. È suscitare un pensiero involontario e non progettante, non il risultato dello scopo e della volontà, ma il pensiero necessario, quello che viene su da solo, da un accordo tra mente e mondo. […] Andare lenti è rispettare il tempo, abitarlo con poche cose di grande valore, con noia e nostalgia, con desideri immensi sigillati nel cuore e pronti a esplodere, oppure puntati sul cielo perché stretti da mille interdetti. […] è essere provincia senza disperare, al riparo dalla storia vanitosa, dentro alla meschinità e ai sogni, fuori dalla scena principale e più vicini a tutti i segreti. […] Andare lenti significa poter scendere senza farsi male, non annegarsi nelle emozioni industriali, ma essere fedeli a tutti i sensi, assaggiare con il corpo la terra che attraversiamo. Andare lenti vuol dire ringraziare il mondo, farsene riempire” 3.

Questo tempo può donarci il valore della lentezza… quando si accarezza, lo si fa piano».

— Francesca, 37 anni, Roma

 

«Con oggi, è esattamente un mese dalla nostra “reclusione forzata” tra le mura domestiche. In meno di un mese la nostra vita è cambiata completamente. Purtroppo, essa ci ha messo in ginocchio dinanzi a questa “macchina da guerra”, davanti alla quale siamo impossibilitati a reagire, bensì siamo costretti ad attendere solamente che qualche telegiornale o notiziario ci dia notizie positive e di speranza che qualcosa migliori, pregando che gli sforzi dei nostri eroi di corsia possano servire a qualcosa. La definirei una sorta di “terza guerra mondiale” combattuta in silenzio. La mia vita in quarantena la descriverei come un grafico che oscilla tra momenti felici e momenti in cui l’ansia e i cattivi pensieri sembrino prendere il sopravvento. Penso che convivere con me stessa sia la mia vera sfida della quarantena. Inizialmente le mie giornate sembravano essere tutte uguali, che il tempo non passasse mai. Quasi come se delle volte le lancette dell’orologio si fermassero. Piano piano ho reagito, programmando le mie giornate, passate tra corsi on-line, libri, videochiamate tra amici, attività fisica, serie tv. A volte ho sentito un senso di smarrimento, come se fossi abbandonata a me stessa, un senso di vuoto, di tristezza al solo pensiero che non saprò quando potrò riabbracciare i miei cari, i miei amici, di cui sento molto la mancanza. Nonostante i suoi aspetti negativi, la quarantena è anche un modo per rafforzare i rapporti con i familiari, che al momento sono le uniche persone con cui relazionarci e con le quali condividiamo la maggior parte delle nostre giornate. Si avvicina anche il periodo pasquale, una Pasqua diversa e insolita dalle altre, che, in fondo, incute tristezza dentro ognuno di noi. In particolare nel mio Paese, il Venerdì Santo si tiene una grande manifestazione, “La Giudaica”, che coinvolge ogni cittadino nella realizzazione di questo evento. Purtroppo, quest’anno, bisognerà rinunciare anche a questo, ma sappiamo che è solo per una giusta causa. La Pasqua dovrebbe essere un giorno di gioia, di spensieratezza, il giorno di Resurrezione del Signore, da trascorrere con amici e parenti come si è soliti fare. Invece, non sarà così, sarà una Pasqua dove tutti noi staremo nella speranza che presto passerà questo temporale e insieme riusciremo a vedere ancora il sole. Lo auguro a me, ai miei cari, ai miei amici ma, soprattutto, alle persone che stanno combattendo in un letto di ospedale. Di una cosa sono certa, ne usciremo più forti, più consapevoli del nostro reale valore, saremo persone più complete e rispettose del prossimo. Facciamo in modo che tutti questi “sforzi” servano realmente a qualcosa per noi tutti. Torneremo ad abbracciarci come fosse la prima volta ed è lì che esclameremo “sì, ce l’abbiamo fatta!”»

—  Giusy, 27 anni, Laino Borgo (CS)

 


«Testimonianza di un giovane qualsiasi: “Carcerati?” sì, ma non perché siamo chiusi in casa Giorno numero 27… in quanti prima di oggi si sono ritrovati a contare i giorni che passano? Oggi vi racconterò la mia testimonianza su come sto affrontando la mia battaglia.

Sì, ho definito anche la mia una battaglia, anzi la nostra, tutti parlano della lotta all’esterno di casa nostra, ma nessuno parla di quella che c’è all’interno.

Ognuno di noi sta combattendo la paura, la solitudine, altri combattono la malattia e la nostalgia di ciò che era…e che probabilmente non sarà più. Sentite spesso parlare della battaglia che avviene fuori dalle nostre case, quindi io vi parlerò di quella che avviene dentro.

Di tanto in tanto, mi ritrovo a osservare il mondo che mi circonda, dalla finestra, non vedo nulla…è come se tutto avesse perso colore, perso la luce, perso la speranza.

Ma non è solo questo il punto, non solo gli occhi soffrono, anche le orecchie lo fanno, non sentono più quei rumori, che nel mio caso sono caratteristici di una città. Qualcuno inizia a parlare di casa, come una prigione, non condivido questo punto di vista, anche perché definire “casa” solo le quattro mura, mi sembra riduttivo. Mi spiego meglio, casa è sinonimo di abitudine, di normalità, casa sono le persone, sono i suoni. Porto a testimonianza una frase che mia nonna, che abita con me, dice oramai giornalmente: “Non ho mai sentito un silenzio come questo”.

Lei soffre come noi, anche se le sue abitudini non sono cambiate così tanto, avendo una veneranda età non esce di casa da tantissimo tempo, soffre perché vede noi soffrire, l’umore della famiglia è l’umore di tutti i componenti, questo umore, è casa… non le quattro mura.

Quindi, ci sentiamo come in “carcere” perché ci manca casa, non perché ci siamo chiusi dentro, perché proprio come i carcerati non sappiamo che effetti tutto questo avrà sulla nostra mente, non sappiamo come sarà il futuro, se cambieremo, oppure se rimarremo gli stessi.

Ma a differenza di coloro che scontano la loro pena perché hanno sbagliato, noi non abbiamo fatto niente per meritarci tutto questo, quindi ci sentiamo ingiustamente dei “detenuti”.

Concludo con un breve commento dell’immagine che allego al mio racconto; come ho descritto precedentemente, le case ora sono come senza colore, ma, gradualmente, torneranno a essere a colori, prima i contorni, poi del tutto; interpretatela come una certezza di ritorno a una nuova normalità; d’altronde i disegni inizialmente sono in bianco e nero, solo successivamente vengono colorati, coloriamolo insieme»

Antonio, 20 anni, Cosenza

 


«06/04/2020: Oggi è il ventottesimo giorno di quarantena, ancora chiusi nella nostra fortezza, speranzosi nel silenzio e adesso consapevoli del fatto che l’uomo non esiste senza l’umanità.

Oggi, però, è anche il giorno in cui ho nostalgia di tutto quello che Bagnara Calabra viveva in questo periodo. Invitava più gente possibile, si abbelliva come fa una donna in vista di una festa, creava una sorta di atmosfera raffinata, col profumo di glicine e camelie e brillava con la luce che la Luna riflette sul mare.

Forse non è scontato perdersi in tutta questa bellezza, forse non lo è nemmeno rivivere tutti i momenti di questa Settimana Speciale. Ora non li vivremo, o almeno, non come prima.

Ma per fortuna esistono due vecchietti che hanno colmato questa mia nostalgia raccontandomi tutto ciò che accadeva ai loro tempi a Pasqua e cosa provavano emotivamente durante la Grande funzione: l’Affruntata.

Così, curiosa e contenta ho deciso di osservare le loro parole e non ascoltarle, in modo tale da registrarle e fissarle nel tempo:

«A “Ffruntata” avi ill’ Ottucentu chi si faci, tempu permettendu. Na vota era chinu i genti, venivunu puru ra Merica pemmi sa virivunu perchì era a festa chiù sentuta ru paisi. Infatti, sulu pa festa i Pasca i dui congreghi non si sciarriavunu. Si ncumincia i Giovedì Santu cu Precettu, Venerdì chi Varetti, Sabutu notti ca Missa solenni, chi quandu sonava a Gloria si tagghiava a cujura nda famijjia, e poi finalmenti a Dominica, chi puru che era festa mangiaumu a fujiendu perchì all’ una nesciva u SIGNURI e ncuna ura dopu a Maronna cu San Gianni, San Petru e i Pii donni.

I Pasca nci volivunu i rrobbi novi, cu aviva e cu non aviva. Puru ora, ma prima significava ca si passava ra morti a speranza, e che era tempu ri fidanzamenti.

Ieu st’annu ma sentu assai, Pasca senza Ffruntata pe mia non è Pasca. Ann’ autru annu non sacciu se a viju e sugnu nervusu e dispiaciutu, però speru ca sti giuvini i ora continuannu ma portunu avanti …».

Questa è solo una parte dei loro emozionati ricordi, i quali forse un giorno saranno la guida per riaffermare un’identità ricca di peculiarità e carica di significati nascosti che aspettano di ritornare alla luce, proprio come questo passato che da soggettivo diventa oggettivo, che calpesta la desolazione e innalza la bandiera della speranza!»

Antonina, 20 anni, Bagnara Calabra

 


«Vivere ai tempi del Coronavirus | Il mondo sta affrontando una crisi senza precedenti, innescata dalla pandemia di COVID-19. L’impatto del Coronavirus sulle vite di milioni di bambini, adulti, anziani è molto duro e tragico.  Questo evento inatteso e drammatico non somiglia a fenomeni verificati nel corso della storia, ma si tratta di una “catastrofe” senza eguali che sta mettendo in subbuglio la vita di ognuno di noi. In Italia, dall’inizio dell’epidemia, molte persone hanno contratto il virus. Ad oggi si contano un gran numero di guariti, ma purtroppo anche molti decessi. La vera emergenza, in Italia, è iniziata il 9 marzo quando il Presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, ha emanato lo stato di “pandemia”. Per questo motivo in Italia prima, e nel resto del mondo poi, si sono innescate delle misure restrittive che hanno portato ad un cambiamento totale del nostro vivere quotidiano. Da un giorno all’altro ci siamo trovati chiusi in casa per un lasso di tempo non specificato. Il nostro quotidiano si è di colpo stravolto con scuole sospese, università in streaming, modalità di alcuni lavori trasformati in Smart Working, attività commerciali chiuse, eventi liturgici sospesi. Le nostre giornate hanno preso una nuova forma e sono cambiate le nostre abitudini. Si vive in modo più profondo il proprio nucleo familiare condividendo intere giornate e lunghe serate. Ci si confronta su diversi punti di vista e ci si conforta nei momenti di malinconia. La nostra casa, mentre prima era luogo di rifugio, di isolamento, di riposo da tutto lo stress accumulato durante una giornata fuori, adesso, invece, diventa la nostra “prigione”. Vivere da reclusi è difficile per tutti, certo meno difficile che affaccendarsi attorno a un letto di ospedale o, peggio, di occuparne uno.
Questo triste momento, però, ha di positivo il fatto che si stanno apprezzando molte cose che prima non si consideravano o si davano per scontate, prima tra tutte la libertà. Non essendoci il contatto con l’esterno, l’unico mezzo resta la finestra dalla quale si osservano le bellezze della natura, il cielo azzurro, il vento, la pioggia, lo stormo delle rondini che ci rammentano che, comunque, la primavera è ormai giunta. Mai come in questo momento si è rivalutato l’uso della tecnologia, grazie alla quale possiamo ugualmente avere contatti tramite telefonate, video-chiamate, lunghi messaggi, e-mail.
Se pensiamo a chi sta in prima linea, i medici, gli infermieri che lavorano giorno e notte ininterrottamente per salvare vite umane, il nostro sacrificio di stare in casa senza vedere i nostri amici, nonni, parenti, è minimo. Però, non sempre succede che il duro lavoro dei dottori riesce a salvare tutti. Il numero dei decessi sembra un bollettino di guerra. L’immagine dei camion dell’esercito che trasportano le innumerevoli bare rimarrà per sempre scolpita nella nostra mente. Al triste momento della morte si aggiunge anche il dolore di chi non può dare un ultimo abbraccio, un ultimo saluto al proprio caro o non poter celebrare un rito funebre… Tutto ciò rende la morte ancor più triste… Ci troviamo adesso nella Settimana Santa che precede la Pasqua, principale solennità del cristianesimo, che celebra la resurrezione di Gesù avvenuta, secondo i Vangeli, nel terzo giorno della sua morte. Sarà una Pasqua diversa rispetto alle precedenti, perché le ristrettezze dettate dal governo non permettono, giustamente, messe e liturgie con fedeli, ma le celebrazioni religiose saranno effettuate a porte chiuse e trasmesse via streaming o tv. 
La parola “futuro”, oggi, assume, rispetto a ieri, un valore diverso. Si tratta di un futuro incerto perché nessuno sa cosa potrà succedere e cosa ci aspetterà. Dipenderà molto dai nostri comportamenti, dal rispetto delle regole, dal mantenere le giuste distanze di sicurezza, dall’indossare i dispositivi di protezione.  Io mi auguro che questa catastrofe che sta colpendo il mondo intero venga colta da tutti come un’opportunità per migliorarci e come un punto di partenza per una rinascita»

Michela, 19 anni, San Giovanni in Fiore (CS)

 


«Dalla Ginestra al Futuro | “Noi viviamo come se dovessimo vivere sempre, non riflettiamo mai che siamo esseri fragili” scriveva Seneca nel De brevitate vitae. Ed è così che per la prima volta dopo tanto tempo, oggi, l’umanità si sta riscoprendo fragile, nuda, esposta alle intemperie di un presente instabile e di un futuro che appare sempre più incerto. Seduta di fronte al limite invalicabile della finestra della mia camera, che mi separa dal soleggiato e familiare orizzonte che mi si riflette innanzi, nostalgicamente penso e ripenso alle parole del filosofo latino, straordinariamente attuali. Rifletto su quanto sia cambiata la mia vita e quella di tantissimi nelle ultime settimane, sul momento di crisi che tutti insieme (e forse, per questo, mi sento meno sola) stiamo vivendo: giorni difficili, sconvolti dall’angoscia di un demone spietato, che si insinua perfidamente tra i più indifesi e non solo: e così mi riscopro fragile e spaventata. Di colpo, poi, i familiari rintocchi del campanile del mio paese mi riportano alla realtà del tempo che scorre, mi restituiscono un senso di serenità, e così ricordo che un altro inverno è passato, e la primavera è già iniziata. Aprile è per me sempre stato un mese felice perché, come suggerisce l’etimologia del termine stesso (dal latino “aperire”, e cioè “aprire”, “schiudere”) è un mese di rinascita, di apertura alla gioia di una vita nuova dopo il gelo invernale.
Quest’anno, però, vive e vivo un aprile diverso, insolito. Il mondo sembra essersi fermato improvvisamente, le strade sono tristemente vuote, gli unici luoghi a raccogliere vita sembrano essere i supermercati. Irriconoscibili sono quei pochi che coraggiosamente escono di casa e attendono per ore, in fila, di fronte proprio ai supermercati, distanti gli uni dagli altri, incredibilmente spaventati dal contatto. E scrivo irriconoscibili perché le mascherine che indossano, spersonalizzanti, quasi asfissianti, li privano del tratto distintivo più bello di un essere umano: il sorriso. Non ci sono più saluti, non ci sono più baci né abbracci: esiste solo la distanza di sicurezza. Immagini, queste, che si accavallano disordinatamente nella mia mente, una dopo l’altra. In tempi così duri, penso, è facile abbandonarsi allo sconforto, alla paura, alla nostalgia, chiusi nel labirinto delle nostre stanze, in cui, seppur così familiari, ci sembra di perderci. La casa assume ora una doppia valenza: è insieme porto sicuro e mura da cui vorremmo evadere.
Poi, però, mi risollevo perché so di essere circondata dai miei affetti più cari, di trovarmi nel mio “nido”, e rivolgo il mio pensiero a chi soffre davvero, a chi combatte quotidianamente, in prima linea, rischiando la propria vita. È vero: la quotidianità mi manca tanto e il peso della nostalgia comincia, con forza, a farsi sentire. Mi mancano i miei amici, i miei colleghi, la vita universitaria, le corse per non far tardi a lezione, lo sguardo di intesa del compagno che ti ha conservato un posto, le aule piene di ragazzi dagli occhi sempre accesi e luminosi che, come me, inseguono un sogno, sorridendo alla vita. Anche la Pasqua quest’anno non è più la stessa: mi mancano le piazze del mio paesino che tornano a popolarsi di amici e familiari, pronti a scambiarsi auguri e abbracci, celebrando la vita e la Resurrezione. Oggi ci sentiamo “spaesati”, impauriti – come il pastore di cui raccontava Ernesto De Martino ne “La fine del mondo” – nell’attesa di ritornare a scorgere il nostro “campanile di Marcellinara”. Il cammino, penso, è ancora lungo, ma non è questo il momento di mollare la presa. Mi aggrappo all’immagine, così, del bellissimo fiore della ginestra, celebrato da Leopardi, che col suo intenso giallo colora le pendici dello “sterminator Vesevo”: il simbolo di una nuova primavera, della vita che continua, che resiste al dolore e alle difficoltà. La ginestra diventa oggi per me emblema di un’umanità che ce la farà, che uscirà da questo tunnel così buio e ritornerà finalmente, per citare ancora Leopardi, a “stringersi in social catena”, ad abbracciarsi senza paura, a volersi bene. Che significato, dunque, assume adesso la parola Futuro? Una domanda che tutti, quotidianamente, ci poniamo, a cui è difficile rispondere. Pensando al domani e a quel che sarà mi ritornano in mente le parole di un artista che porto nel cuore, Lucio Dalla, che in “Futura” racconta di un mondo che “sembra fatto di vetro e sta cadendo a pezzi come un vecchio presepio”, ciò che pare il nostro oggi. Ma è di rifugio, profezia di felicità, il grido di speranza delle parole finali: “aspettiamo senza avere paura / domani”. Ed è così che, adesso, voglio guardare al futuro: senza paura»

Benedetta, 19 anni, Rende

 


«In questa pagina buia della storia dell’umanità, la pandemia non ha devastato soltanto le nostre abitudini quotidiane, ma ha scosso i nostri cuori che ormai battono all’unisono. Il legame che, giorno dopo giorno, si stabilisce tra le nostre case e il mondo esterno è fitto di contraddizioni; ci sentiamo abbattuti dinanzi una realtà che fa paura, ci sentiamo impotenti per poter cambiare le cose. L’unico aiuto che possiamo dare a chi assiduamente e con il massimo impegno sta rischiando la propria vita per salvare il prossimo è restare nelle nostre case, per il benessere dell’umanità. Legarci al nostro ambiente domestico, inevitabilmente, ci sta regalando occhi nuovi, capaci di percepire quel calore del focolaio familiare che, sicuramente, non si è mai spento, ma che talvolta viene trascurato. Stiamo vivendo un’esistenza insolita, che continua a misurarsi con noi e noi con lei. Stiamo cogliendo la meraviglia delle piccole cose, leggere un libro, studiare, ascoltare buona musica, chiacchierare con i genitori e con i fratelli. Sono queste le cose che apparentemente ci sembrano abitudinarie, semplici, ma che, ora più che mai, sono diventate preziose, perché ci permettono l’evasione dai brutti pensieri che lentamente ci lacerano dentro. Oggi più che mai la tecnologia è diventata il motore che regge il mondo, ci permette di fare tantissime cose, seguire le lezioni universitarie così come poter scrivere ad un amico o ad un parente lontano. È questo il buon uso di Internet, la sua utilità in un mondo che, invece, lo ha trasformato in qualcosa di diverso. Infatti, ci tiene in contatto, uniti, quando siamo così distanti fisicamente, in questo filo spezzato di quotidianità. Inoltre, in questo periodo in cui ci avviciniamo alla Settimana Santa, personalmente, sento ancora di più l’assenza delle celebrazioni eucaristiche. Quest’anno sarà diverso, tutto verrà vissuto in una maniera a cui non siamo per niente abituati, non avremo la possibilità di poter svolgere le nostre normali attività, anzi, dovremo adeguarci alle leggi dello Stato, come è giusto che sia. Si sentirà la mancanza di non poter far visita in Chiesa il venerdì santo, così come mancherà tanto non poter ascoltare la messa il giorno della santa Pasqua, manifestazione della resurrezione del nostro Signore. Sono questi riti della settimana santa, antichi, ma intrisi di modernità, ad essere i veri fondatori della nostra patria culturale e della nostra sfera spirituale. Ora più che mai, penso che la fede sia diventata l’unico mezzo in grado di permetterci la salvezza, è un alibi che noi uomini ricerchiamo in questo caos quotidiano. Tutto ci fa così paura, talvolta abbiamo la vista offuscata, non riusciamo ad immaginarci un ritorno alla normalità precedente… forse perché in fondo lo sappiamo, non potremo più tornare a vivere come prima, saranno i nostri comportamenti a stravolgere le nostre abitudini quotidiane, sarà il nostro modo di essere, il nostro atteggiamento con gli altri a farci percepire il cambiamento del nostro stile di vita. I sogni dei giovani, degli anziani, del mondo intero, sono molto più simili tra di loro, sono legati da un filo conduttore che va oltre le barriere fisiche tra i Paesi nel mondo. Tutti speriamo in una soluzione definitiva di questa catastrofe, tutti vorremmo quella normalità di un tempo, talvolta criticata, odiata, ma che, ora più che mai, desideriamo dal profondo del nostro cuore, forse perché solo quando una cosa viene modificata, quando la perdiamo, riusciamo a coglierne l’essenza e l’importanza. I sentimenti di angoscia corrodono il nostro animo, ci sentiamo spaventati nei confronti del mondo esterno, quel mondo che amavamo e che continueremo ad amare in tutte le sue sfumature, da una passeggiata in compagnia o in mezzo al bosco o un giro in bicicletta o una corsa in riva al mare. Ma ora più che mai è diventato luogo di sofferenze atroci. I telegiornali diffondono sempre più notizie tragiche e la cosa che mi turba maggiormente è conoscere il numero elevatissimo di vittime che, persone e non numeri, muoiono lontani dalla loro famiglia, dalla loro casa, dalla loro patria natale. Morti da soli, in un letto di ospedale, intubati, senza la minima traccia del calore familiare, senza poter stringere la mano della persona che amano, senza poter guardare negli occhi per l’ultima volta quel mondo di cui hanno fatto parte fino a quel momento. E allora, come si può desiderare di ritornare alla vita normale, uscire dalle nostre case come se tutto questo fosse finito? Come si può restare indifferenti dinanzi a questo fardello che abbraccia tutti i popoli, tutte le comunità, tutto il mondo? E allora scriviamo lettere, annotiamo pensieri, fissiamo idee per cercare di cambiare il nostro mondo quando tutto questo sarà finito. Ripartiremo. Dobbiamo ripartire per chi è andato via senza poter lottare, dobbiamo farlo noi per loro. Dobbiamo mantenere vivo il ricordo di chi, per salvare il prossimo o perché accidentalmente contagiato, ha lasciato questo mondo. Non possiamo permettere che questa catastrofe distrugga gli equilibri e l’identità del mondo. Andando incontro alla paura della morte non facciamo altro che perdere quella presenza di cui parla De Martino, che ricorre in tutta la sua opera “La fine del mondo”. La presenza va conquistata, fa sentire il cuore a casa, come quel pastore che ritrovò nel campanile la sua patria perduta. Il campanile è il centro del suo mondo, il punto di riferimento della sua vita. Lontano da esso, l’incapacità di movimento si concretizza nel fenomeno dello spaesamento. Allo stesso modo noi dovremmo, con occhi sensibili, cogliere qual è ora il nostro punto di riferimento, lottando e cercandolo anche nelle cose più semplici della vita senza allontanare mai lo sguardo rivolto verso di lui, senza perdere la nostra patria culturale, il nostro campanile. Quindi cos’è diventato per noi il futuro? Penso che il futuro non sia altro che l’attesa di un segno tangibile nell’oscurità che sta dominando il nostro tempo. Il futuro è l’utopia di una realtà che oggi ci appare molto lontana»

— Martina, 19 anni, Aprigliano

 


«Sette Aprile 2020. Stamattina è il mio turno per uscire a fare la spesa. Sono felice. Improvvisamente andare al supermercato è diventata una cosa da aspettare con trepidazione, mezz’ora di libera uscita, che poi tanto libera non è. Mi preparo, mi trucco persino e scendo. Do una veloce occhiata allo specchio e quasi penso: “chi è questa?”. Ho le mani coperte dai guanti e i sorrisi nascosti dalla mascherina.  Fuori ci sono persone come me, alieni che si muovono in punta di piedi attenti a non scontrare nessuno, testa bassa e tira dritto. La gente ha paura persino di guardarti negli occhi, di rivolgerti la parola, come se uno sguardo o una frase potesse contagiarci.  Vado verso il supermercato e durante il tragitto a piedi una volante della polizia si ferma e blocca le macchine in giro. Penso che è incredibile come sia tutto cambiato. Noi abituati alla libertà, vincolati da niente se non da noi stessi, costretti adesso a giustificarci se andiamo a comprare il pane. Cammino più veloce. Davanti al supermercato c’è la fila e io aspetto con calma il mio turno. C’è il sole oggi e mi godo la sensazione del calore sulla pelle che non sento più tanto spesso. Chiudo gli occhi e alzo la testa verso il cielo. Per un attimo è tutto finito, il virus lo abbiamo sconfitto e io mi godo l’aria di primavera che non si ferma neanche davanti a tutto questo dolore. Le mie giornate ora sono scandite da questi piccolissimi momenti di felicità, come quando è il mio turno di uscire. Persino buttare la spazzatura è diventato piacevole.  La fila scorre lenta, chi è dentro sta facendo la spesa per il giorno di Pasqua, proprio quella che quest’anno sarà così diversa. Niente pranzi interminabili, nessuna messa, nessuna tavolata, non un ramo d’ulivo benedetto. Eppure Calvino diceva che il tutto sta nell’abituarsi: questo è il primo passo, poi la discesa.  Una volta capito che puoi rinunciare a qualcosa, che niente è indispensabile come credevi “ti accorgi che puoi fare a meno anche di qualcos’altro, poi ancora di molte altre cose” (Se una notte d’inverno un viaggiatore, Calvino, Einaudi 1979). Mentre sono persa dentro questi pensieri, arriva il mio turno. Entro e più velocemente che posso prendo il necessario, cercando di fare in fretta per non gravare sulle attese altrui. Alla cassa una signora visibilmente agitata e stanca mi fa con gli occhi un sorriso debole e io ricambio con i miei.  Sorrisi intrappolati che provano ad uscire. Torno a casa, sto attenta a come ripongo la spesa, tolgo la corazza e lavo le mani, scaccio via il virus. Per questa settimana ho avuto il mio momento felice, la mia possibilità di evadere. Ora sono di nuovo a casa, la mia culla accogliente al riparo dal mondo»

— Benedetta, 21 anni, Catanzaro

 


«Oggi è stata la santa Domenica delle Palme, una domenica un po’ diversa dalle altre poiché solitamente si è abituati a prepararsi per andare a seguire la Santa Messa e portare il ramo benedetto non solo a casa propria, ma anche a casa dei propri cari che, per un motivo o per un altro, non sono potuti andare a benedirlo di persona. La Domenica delle Palme, generalmente, c’è aria di festa. Quest’anno invece, l’aria di festa si è respirata un po’meno, ho chiesto a mio nonno di mettere un ramoscello d’ulivo appeso al portone, come simbolo di pace, come simbolo di palma che non abbiamo potuto benedire poiché impossibilitati da questa situazione. Saranno “vacanze pasquali” caratterizzati dal nulla, eppure saranno vacanze che rimarranno sempre impresse nella mente di ognuno di noi.

Noi esseri umani siamo strani, siamo fatti un po’ così; raramente apprezziamo quello che abbiamo costantemente sotto gli occhi poiché siamo soliti dare tutto per scontato come se, tutto ciò che ci circondasse, sarebbe eterno. Purtroppo non è così. Proprio in questa quarantena ci stiamo rendendo conto che, è solo quando ci viene strappata di mano la quotidianità tanto sottovalutata, ci rendiamo conto di quanto eravamo fortunati, ma soprattutto di quanto eravamo felici. Già, la felicità. Spendiamo la maggior parte della nostra vita a cercarla questa felicità, a cercare quel motivo che ci permetta di svegliarci la mattina e ci faccia affrontare il mondo e invece non abbiamo mai riflettuto su una frase di uno dei miei libri preferiti: “l’essenziale è invisibile agli occhi”.

Non ci siamo mai accorti che è proprio la quotidianità che ci permetteva di essere felici, che ci dava questo diritto; quella quotidianità che profumava di giovinezza, che caratterizza i nostri 21 anni composta dal semplice vestirsi per andare a seguire una lezione in un’università, prendere un gelato il pomeriggio, decidere di passare una serata con gli amici, o semplicemente camminare sul lungomare osservando i doni che Madre Natura ci ha dato. I colori meravigliosi del tramonto, la calma di quel mare cristallino, la linea dell’orizzonte, il colore del cielo. Così impegnati dalla frenesia che la vita ci impone che non abbiamo mai avuto il tempo di fermarci un attimo per osservare. Osservare cosa precisamente? Osservare di quanta meraviglia siamo circondati.

La nostra quotidianità è stata capovolta completamente così come è stata capovolto il concetto di cura della persona. Quando ci si confronta tra amiche, spesso sento qualcuna dire: “oggi mi sono truccata e sistemata i capelli per vedermi diversa”. In quarantena i giorni sembrano tutti uguali, la domenica non ha più lo stesso sapore, è identico a qualsiasi giorno della settimana, ma se mi venisse chiesto di guardare il lato positivo in tutto ciò penserei che, a me, è stato semplicemente chiesto di stare nella mia casa, nel mio luogo di rifugio, con la mia famiglia, con le persone che amo, mentre c’è gente che è rimasta lontana dai propri cari a dover affrontare questa “battaglia” da soli; mentre ci sono medici ed infermieri là fuori che stanno rischiando ogni giorno la vita per salvare il mondo, penserei che ci sono bambini che nascono in questo periodo e la gioia della loro nascita non può essere condivisa con nessuno. Penserei che ci sono migliaia di persone morte e bruciate così come ai tempi dello sterminio degli ebrei. Mi è sempre stato detto che la storia deve servire per conoscere, per far sì che non si ripeta nulla di ciò che è già successo in passato, ma un giorno, nei libri di storia, si parlerà anche di questo “mostro” chiamato COVID-19 che ha spezzato le ali a migliaia di persone, un “mostro” che ha sospeso il tempo lì in aria lasciando che i giorni passino senza essere realmente vissuti; un “mostro”, dunque, che ha levato due, e ancora chissà quanti, mesi di vita.

Per fortuna siamo circondati dalla tecnologia che ci permette di vedere, sentire i nostri cari, ci permette di essere consapevoli di ciò che accade lì fuori, ci permette di comprendere che passiamo una vita intera a parlare di diversità in termini di colore, razza, lingua, religione ma poi di fronte a queste situazioni siamo tutti uguali, siamo tutti fratelli. La tecnologia permette di intrattenere grandi e piccini, permette di giocare, di osservare film, documentari, permette di far scorrere l’intero arco della giornata.

 Ma che mondo stiamo consegnando ai bambini? Cosa racconteranno quando non potevano uscire di casa per andare ad abbracciare i loro nonni o cugini? Che cosa ci aspetta ancora? Forse questa quarantena ci servirà a qualcosa, ci servirà a comprendere che la felicità è costantemente sotto i nostri occhi, ci sta insegnando ad apprezzare quello che abbiamo. Ne usciremo sicuramente diversi, cambiati, e forse è proprio questo il suo compito: insegnarci che nella vita mai nulla accade per caso e se stiamo vivendo tutto ciò è poiché prima c’era qualcosa che non andava, il desiderio di avere sempre più. Ma da domani nessuno chiederà di più poiché basterà poter uscire di casa per avere già tutto.  Ne usciremo diversi sì, ma consapevoli che la felicità sta proprio lì, nei nostri giorni, nella nostra “quotidianità”»

Vanessa; 21 anni; Rossano (CS)

 


«Stiamo vivendo un momento storico, qualcosa che se andrà tutto bene racconteremo ai nostri figli, ai nostri nipoti.

Sono diverse settimane in cui quasi tutto è in stand-by, ma non la natura che continua il suo corso. Da quasi un mese ascolto al mattino il cinguettìo degli uccellini, osservo dalla finestra il sole, il mare limpido del mio paese Trebisacce (CS), nel tardo pomeriggio si sente il profumo della primavera che non è tardata ad arrivare. Tutto da casa, perché è essenziale rimandare aperitivi, viaggi, cene con amici, le mie amate passeggiate in riva al mare. Vorrei avere vicino mia nonna, i miei cugini, le mie zie, le mie amiche, ma è giusto abbracciarci solo appena sarà possibile. Tutto parte da noi e ci vuole rispetto per se stessi e per gli altri.

Si è sottovaluto un virus pensando “ma tanto qui non arriverà mai”, un virus diventato pandemia, che per alcuni fa paura solo quando si registrano casi nei comuni limitrofi. Improvvisamente c’è, però, chi ha voglia di portare il cane a passeggio, di fare ogni giorno la spesa, di fare sport all’aria aperta. Ma è il momento di rispettare le regole, dobbiamo semplicemente restare a casa, non ci chiedono di andare in guerra come qualcuno forse pensa. Anche perché noi la guerra non sappiamo neanche minimamente cosa è, dato che non l’abbiamo vissuta.

In casa si trova comunque qualcosa da fare, come da tradizione in questi giorni si preparano “cullure pasquali, pastiere”, si leggono libri, si sperimentano nuove ricette, si guardano serie tv o film, si ascolta musica, si studia, si rispolverano vecchi giochi e si rafforzano anche “rapporti in balcone” tra vicini.

Questo è il momento di far sentire la propria vicinanza alle persone a cui vogliamo bene con un messaggio, una chiamata o videochiamata, poiché anche con un semplice “come stai?” si può alleviare il senso di tristezza e impotenza che noi tutti proviamo. I social come Instagram aiutano molto a distrarsi dal Coronavirus, a differenza di altre piattaforme o programmi tv dove se ne parla continuamente e c’è chi preferisce aggiornarsi con il numero dei contagiati e chi invece no.

Si avvicina la Pasqua, ma non ci sarà la benedizione delle Palme, la processione del Venerdì Santo, neppure le corse nei supermercati per comprare le uova di Pasqua ai cuginetti, così come non ci sarà il pranzo con i parenti e la Pasquetta con gli amici. Anche nelle situazioni di lutto, tutto si è trasformato e purtroppo si sente un senso di vuoto nel non poter partecipare al cordoglio, al funerale per la perdita di una persona cara. Si annullano anche matrimoni, feste di laurea, concerti, qualsiasi situazione crei assembramento.

Si rimanda tutto a data da destinarsi, senza nulla di certo per il futuro, nonostante come penso un po’ tutti, alterno momenti di angoscia a momenti di positività, sempre accompagnata dalla speranza che non mi abbandona.

Allego alcune foto scattate da me un po’ di tempo fa, rappresentano la mia idea di libertà, che spero non tardi ad arrivare»

Miriana; 25 anni; Trebisacce (CS)

 


«ATTESA DI UN NUOVO GIORNO | Credo di non essermi mai fermata, fino ad ora, a riflettere realmente su quanto sta accadendo, più per una sorta di inconsapevole scelta che per mancanza di attenzione. Come se la mente cercasse di nascondere a sé stessa una situazione surreale, alienante, come se gli occhi non volessero vedere le città, i paesi, le strade vuote, come se le orecchie non volessero udire il silenzio che li avvolge, che ci avvolge tutti. Non siamo più abituati a confrontarci con il silenzio; i ritmi imposti da una società che ci spinge all’azione più che alla riflessione, ci assorbono completamente: come automi, ci districhiamo tra le numerose attività che costituiscono la nostra routine quotidiana, riempiamo completamente il nostro tempo libero, pur di non doverci fermare. E adesso che, all’improvviso, siamo costretti a fare il contrario, adesso che il tempo ha perso tutti i suoi (probabilmente falsi) punti di riferimento, adesso che il mondo ha smesso di fare rumore, non è per niente facile accettarlo, anzi, ci spaventa. Non è facile, ma è necessario. Quel silenzio va accolto, ascoltato, affrontato, compreso. Specialmente oggi.

Lo capisco osservando scorrere sullo schermo del televisore, le immagini disarmanti dell’immensa San Pietro quasi vuota, nella domenica delle Palme, un giorno in cui è abituata a riempirsi di fedeli, come qualunque chiesa in ogni angolo del Paese, ma che oggi non può accoglierli, anch’essa costretta all’isolamento.

Il Papa sta pronunciando la benedizione, invitando gli spettatori a raccogliersi in preghiera, anche se obbligati ad ascoltare attraverso uno sterile schermo. Immagino le famiglie riunite con qualche rametto d’ulivo in mano, e magari i bambini con le loro preziose uova di cioccolato che non vedono l’ora di aprire, forse ignari del tempo straordinario che stiamo vivendo; probabilmente c’è un pensiero che attraversa le menti di tutti, in quegli attimi: la speranza di poter tornare presto alla normalità, la speranza che quel Dio che stiamo celebrando non ci abbandoni, il tentativo di reprimere l’impressione che l’abbia già fatto.

Mi chiedo se celebrare i riti della settimana santa, a cominciare da questo, abbia la stessa “efficacia”, dalle nostre case, così diverse dai luoghi che eravamo soliti occupare in questi giorni di festa.

Forse è proprio questa la forza della fede: il luogo non importa, lo spirito può arrivare ovunque.

Forse è proprio questa forza che Papa Francesco sta cercando di trasmettere a milioni di persone, con uno sguardo assorto, pensieroso, ma deciso, come se sentisse su di sé la responsabilità di dover accogliere milioni di preghiere, per poi indirizzarle verso il cielo.  

Eppure abbiamo sempre avuto bisogno di questi luoghi, in cui sentirci protetti, forse addirittura ascoltati.

Da sempre l’uomo costruisce chiese, cattedrali, basiliche, definendole “la Casa del Signore”; non sarà forse perché è proprio l’uomo, più che il suo Dio, ad aver bisogno di una seconda casa, di quel senso di conforto e protezione che solo la sua immagine simbolica riesce ad evocare?

Per un attimo distolgo lo sguardo dalla celebrazione nella Basilica, ed osservo l’edificio che si staglia contro il cielo azzurro, al di là del vetro della mia finestra: ed eccolo, il “mio” luogo, la chiesa di Santa Lucia, a cui, in qualche modo, nonostante non mi possa definire un’assidua frequentatrice, sono legata, per tanti motivi.

È lì che mi sarei recata, fra qualche giorno, la sera del giovedì santo, per la consueta visita ai sepolcri: un momento propizio per pregare, certo, ma anche semplicemente riflettere. È quasi angosciante sapere che questa volta non mi sarà concesso, chissà poi per quanto tempo ancora. Allora provo ad immaginarmi lì, fra quei banchi: attorno a me un silenzio diverso da quello che ascolto adesso, quasi liberatorio, che molte volte ha cullato i pensieri e le paure che, fiduciosa, gli affidavo.

Certamente molte paure affollano le menti di tutti in giorni come questi. La certezza di essere invincibili si è ormai sgretolata tra le nostre mani, il mondo è in ginocchio, gli stessi uomini che credevano di avere la verità in tasca, oggi non hanno risposte. Ci si chiede se ci sarà un “dopo”, e cosa rappresenterà, come quest’evento così sconvolgente e inaspettato ci cambierà, perché è inevitabile che lo farà, anche se noi non ce ne accorgeremo.

Cambierà il nostro modo di percepire il tempo, lo spazio, l’altro; se in meglio o in peggio, nessuno può dirlo. 

L’isolamento a cui siamo costretti, l’impossibilità di vivere le relazioni con gli altri se non attraverso i moderni mezzi di comunicazione, di stabilire contatti reali, ci farà finalmente comprendere che, come il Papa ha sottolineato durante l’omelia, “siamo nati per essere amati e per amare”? O forse è più probabile che la paura dell’altro si rafforzi, assieme alla diffidenza e all’odio?

È possibile, ad oggi, continuare a sperare in una società che sia capace di accogliere, che smetta di costruire barriere, muri, figurati o reali che essi siano, o di considerare l’altro la più grande minaccia in una spietata lotta per la sopravvivenza? 

Capiremo il valore della solidarietà tra i popoli, oppure, una volta superate le difficoltà, ce ne dimenticheremo, come se nulla fosse accaduto, continuando ad isolarci in un malsano patriottismo? 

Ovviamente non ho una risposta, o forse temo di conoscerla.

A questo proposito, in “Come il fiume che scorre”, Paulo Coelho ha scritto: “Quando si avvicina uno straniero e noi lo confondiamo con un nostro fratello, ponendo fine a ogni conflitto. Ecco, questo è il momento in cui finisce la notte e comincia il giorno.”

Posso solo augurarmi che, se e quando usciremo da quest’oscuro periodo, non sarà per perderci in un’altra notte infinita, ma per scaldarci alla luce di un nuovo giorno, che ci permetta di sopprimere qualsiasi tipo di distanza, non solo quella fisica a cui oggi siamo obbligati»

Sara; 19 anni; Rogliano (CS)

 


«Giornata di sole, mare cristallino e talmente limpido che diventa lo specchio in cui si riflette il cielo sereno sovrastante. La primavera ormai è giunta, portando con sé tutte le proprie bellezze, eppure, nessuno le può ammirare. Il silenzio pervade le strade, i vicoli e molto spesso bussa alle porte delle case dove si cerca di combatterlo con la speranza di un ritorno alla normalità. Il silenzio in questa ultima settimana di Quaresima sarà il protagonista indiscusso di quella che si prospetta essere la Settimana Santa più silenziosa della nostra vita. Regnerà sovrano come se la morte di Cristo fosse davvero un lutto familiare e il nostro cuore non riuscisse a trovare la voglia di sorridere. Forse questa quarantena in Quaresima ci farà davvero comprendere tutto quello che i nostri nonni ci hanno sempre raccontato, quando il silenzio scendeva in tutto il paese subito dopo l’esposizione del Santissimo in quella celebrazione detta “In Coena Domini”, spezzandosi solo nella notte di sabato.   Noi a questo silenzio non eravamo abituati, ma questa volta lo rispetteremo e lo vivremo sulla nostra pelle. Non potremo vivere personalmente la Celebrazione del Giovedì Santo, non vedremo il precetto della Congrega del SS. Rosario, non assisteremo alla “lavanda dei piedi” e non ci inginocchieremo dinanzi al Santissimo mentre viene deposto sull’altare della deposizione, adornata di spighe, mentre viene intonato il canto “Genti Tutte” e il nostro capo si china per adorare quel Dio diventato uomo. Non potremo camminare nel buio della sera per ” girare i sepolcri” e non veglieremo tutta la notte per poi vedere il sole levarsi piano ed annunciare il nuovo giorno.
Non vivremo il “bacio della croce” e la processione delle “Varette” il Venerdì Santo e non udiremo il suono stridulo del “tric trac” che, attraversando le strade, ci ricordava che Cristo fosse morto e nessuno poteva oltraggiare quel silenzio di morte. Non saremo presenti alla veglia del Sabato Santo quando tutta la Chiesa Abbaziale è avvolta dalle tenebre e l’unica luce proviene dal cero pasquale che, posto sull’altare, illumina fiocamente un drappo bianco, celante il Cristo Risorto, che viene lasciato cadere alle note dell’organo e alle voci del coro che, trionfalmente, cantano “Gloria in excelsis Deo”, mentre tutte le campane del paese suonano all’unisono acclamando la Resurrezione di Gesù Cristo.
Il giorno che più di tutti ci sembrerà assurdo, sarà certamente la Domenica di Pasqua, perché non potremo vivere tante emozioni. Non udiremo la banda che suonerà festosa già alle prime luci del mattino, non ci sarà la processione dei Carmelitani che torneranno nella loro chiesa trionfanti e pieni di giubilo. Non ci sarà il pranzo con i parenti e lo scambio di auguri interminabile ma, soprattutto, non vivremo le emozioni dell’Affruntata. Non accompagneremo il Cristo Risorto che scenderà trionfante la discesa che lo porterà a riabbracciare sua madre, preceduto da una ragazza vestita di bianco che annuncerà al popolo la lieta novella della resurrezione. Non vedremo le Pie Donne e gli Apostoli, Pietro e Giovanni, accompagnare in assoluto silenzio e dolore palpabile la madre di Cristo, in lutto per la morte del figlio. Non saremo in piazza ad assistere allo stupore delle Donne quando si trovano dinanzi un sepolcro vuoto e non ascolteremo S. Giovanni che, inginocchiatosi dinanzi la Madonna le dirà «Maria, tuo Figlio è risorto». Ma, soprattutto, non vivremo l’emozione dell’annuncio vero e proprio della rappresentazione quando, nel mezzo di una piazza gremita, S. Giovanni si inginocchierà dinanzi all’angelo il quale, con le braccia aperte e la voce tremante, dirà «Un grande gaudio annuncio a voi! Cristo Gesù è risorto. Alleluia!».
Non vedremo l’incontro tra la Madre e il Figlio, mentre in tutto il paese risuona l’Alleluia di Haendel e le persone si abbracciano commosse. Quest’anno non vivremo tanti momenti, probabilmente ci sentiremo persi e nostalgici di quelle tradizioni secolari che, fino allo scorso anno, molti definivano monotone; ma, forse, questo periodo storico ci farà davvero riflettere su quello che siamo e su quali siano le nostre radici, facendoci riscoprire il vero sapore delle tradizioni e la loro importanza. Tutto tornerà alla normalità e, quando accadrà, anche noi potremo affermare che “la vita ha vinto sulla morte»

—  Giusy, 24 anni, Bagnara Calabra (RC)

 


«Dovunque leggiamo lo slogan “state a casa”, viene pubblicato in ogni social network, gli striscioni sui balconi parlano chiaro: bisogna rimanere nella nostra dimora, così andrà tutto bene. Ma è difficile, siamo cresciuti con l’idea che possiamo ottenere tutto ciò che vogliamo, per noi non sono mai esistiti limiti e se mai ci fossero stati abbiamo appreso come superarli nel migliore dei modi. È dura stare in casa, perché noi abbiamo due vite: una in casa dettata dall’ordine e dalla razionalità e una fuori dove esprimiamo al meglio noi stessi. Oggi ci viene imposto di fare questo sacrificio e noi nel migliore dei modi stiamo adempiendo a questo ordine; inizialmente è stato facile e quasi piacevole, era un sollievo sentire “ai nostri nonni è stato chiesto di andare in guerra, a noi di restare a casa in pigiama”, passavo le giornate leggendo libri e guardando i miei film preferiti; finché era possibile mi sono dedicata allo sport sul lungomare della mia città, ho trascorso molto tempo con la mia famiglia… insomma un paradiso, niente università, nessun impegno, solo tempo per me stessa. Ma col passare dei giorni ho iniziato a percepire che qualcosa mi stava sfuggendo di mano, mi mancava la quotidianità e tutte le certezze che molto spesso ho dato per scontato.

Mentre scrivo questa breve riflessione, rivolgo lo sguardo verso la finestra, il tiepido sole mi colpisce e mi scalda il viso, ciò che osservo da fuori è un mondo quasi sconosciuto e pericoloso, è lì che si insidia il nemico invisibile, potrebbe essere in ogni angolo pronto a colpirci. Da sempre ciò che ho ritenuto sicuro ora è insicuro, l’unico luogo di protezione è la casa, una specie di bolla di vetro dove è possibile ammirare quello che c’è oltre senza poterlo toccare né viverlo. Sono gelosa del mio luogo sicuro, non voglio far entrare nessuno oltre i miei familiari.

Qualche giorno fa sono uscita per necessità, mi dovevo recare alla posta, ho percorso la solita strada ma è stato diverso: non c’era nessuno, ero la sola a camminare sulla via principale di Siderno, non c’era neppure una macchina, non ho sentito nessuna voce, né ho visto i bambini giocare nella piazza, la chiesa Santa Maria di Portosalvo era chiusa, le vecchiette non erano lì a recitare il Rosario, nessun giovane era al bar a bere un caffè o a guardare le vetrine dei negozi. Il silenzio era assordante, non mi sono sentita mai così sola. Quei luoghi di ritrovo abituali sono diventati freddi e anonimi perché non vi era alcuna relazione stabile. In quel momento ho capito precisamente cosa si intende per “non-luogo”. È triste vedere come i luoghi diventino non luoghi in questo momento molto delicato della nostra vita.

Naturalmente bisogna anche considerare un lato positivo: grazie alla tecnologia riusciamo a comunicare con tutte le persone a noi care. Ci scambiamo messaggi, foto, videochiamate in cui raccontiamo le nostre giornate, cerchiamo di essere presenti con i mezzi che abbiamo anche se non lo siamo fisicamente. Così facendo, non dimentichiamo i volti e le voci delle persone. In questo mondo magico condividiamo ricette, dolci, frasi, per restare positivi e spronare gli altri a indaffararsi in qualcosa per non pensare a quello che sta succedendo, perché se ci fermiamo e cadiamo nella nebbia della negatività difficilmente riusciremo a risollevarci, anche quando tutto questo sarà finito.

Inoltre, con le nuove misure restrittive prorogate fino al 13 aprile come passeremo la Pasqua? In Calabria questo momento assume una forte vitalità tra i credenti: io che faccio parte di questo gruppo da quando ho memoria mi sono recata sempre a messa il Giovedì Santo, non sono mai mancata alla processione del Venerdì Santo, a mezzanotte ho aspettato la resurrezione di Cristo e la mattina di Pasqua ho sempre assistito alla “svelata” provando un’indescrivibile emozione, poi  guardando il momento in cui alla Madonna viene tolto il velo, tutti abbiamo previsto se l’anno sarebbe finito positivamente o negativamente. Non posso non citare il giorno di Pasquetta: tutti attenti ai preparativi della sguta più lunga del mondo, l’anno scorso siamo entrati nel Guinness World Record raggiungendo 540 metri. La popolazione in festa, i conoscenti si scambiano gli auguri, tutto apparentemente normale negli anni, ma quest’anno non sarà così. Verrà a mancare il momento della riflessione della vita, della morte e della resurrezione perché la religione non può essere separata dal rito, il rito rafforza la credenza e crea un’atmosfera drammatica e di grande efficacia per il credente. Non ci sarà alcuna aggregazione, mancherà la solidarietà. Ci scambieremo auguri virtuali, i pranzi e le cene non saranno in compagnia, speriamo non sembri un giorno come tutti gli altri.

Arrivando alle conclusioni, spero che presto tutti potremo riavere la nostra quotidianità e libertà, che questo periodo ci aiuti a riconsiderare le vere priorità e che le nostre certezze non vacillino più. Non vedo l’ora di poter passeggiare per il mio paese senza paura e diffidenza, perché comunque vada Siderno sarà sempre il mio centro del mondo, il punto di riferimento della mia vita. Cesare Pavese nel libro “La luna e i falò” dice: “Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti…” ed io la penso proprio così!»

Greta; 22 anni; Siderno (RC)

 


«Ripensando, al materiale usufruito, alle sue lezioni, ma anche ai libri letti e alle notizie di questi giorni, la mia riflessione volge soprattutto su quello che oggi ci manca ma che un tempo, davamo per “abitudine2, mancanza di affetti, di attività che si facevano normalmente. È anormale pensare che fra pochi giorni ricorra la Settimana Santa e non poterla vivere, condividere con gli altri. Settimana di lutto, di dolore, di “canti” che è abitudine cantare in questo periodo, che “lacerano” il cuore, ma che terminano con la festa, con la gioia. Infatti, “Pasqua” sappiamo che è un termine (dall’ebraico Pesah) che vuol dire “passaggio”. Il passaggio dalla morte alla resurrezione di Cristo (per chi ci crede), ma che magari oggi, per noi, potremmo vivere come una vera e propria resurrezione, magari da una vita frenetica, dove non abbiamo dato peso alle nostre emozioni, ai nostri affetti, alle persone che abbiamo paura di perdere (oggi più che mai), a quel tempo sprecato per cose futili… e forse per riprendere quel tempo passato e riutilizzarlo al meglio e può essere la nostra occasione per conoscerci meglio (il famoso “nosce te ipsum“), che possiamo fare solo nel silenzio di noi stessi, nella calma, e dedicarci quel tempo necessario.

Io sono di Lungro, un paese della Provincia di Cosenza, italo- albanese, e il rito della nostra Chiesa è quello greco- bizantino. “La Chiesa Italo-Albanese celebra la Settimana Santa e la Pasqua secondo il Typikòn di Costantinopoli, a cui si aggiungono piccoli dettagli di antiche tradizioni locali” (testo preso da “Mistagogia della Vita Cristiana”, a cura di Sua Ecc. Mons. Donato Oliverio, a p.183, finito di stampare nel febbraio 2019 presso GLF Stampa). Ed è proprio la tradizione che “anima” tutta la Settimana Santa, a cui partecipano tutti, bambini, giovani ma anche (e soprattutto) anziani. I vari simboli, i vari canti, intonati da donne, – che cantano il dolore del Cristo in Croce o della Madonna Addolorata, ma anche lo spargere (al momento dell’annuncio della Resurrezione) foglie di alloro, fiori e profumo che come incenso si spargono per la Chiesa, insieme al famoso canto (che tutti aspettano, un intero anno) “Anàsta o theòs”, cioè Sorgi o Dio, e altri ancora- saranno momenti che vivremo via streaming (grazie al supporto della tecnologia), ma che saranno momenti che non tutti possono vivere. Come anziani, che non hanno computer, o telefoni; ma anche noi che possiamo assistere, saranno momenti che non vivremmo a pieno, perché non partecipi. Non saremo noi, coro o popolo che sia, a “cantare” il lamento funebre o la gioia pura della Salvezza, e sarà come esserci ma non esserci, quella “non-presenza”, dal momento che non siamo partecipi.

E ancora: “nella settimana dopo Pasqua in diversi paesi italo-albanesi si svolgono le “vallje”, tradizionali danze corali, eseguite nei tipici costumi albanesi, con varie coreografie, che ricordano la vittoria dell’eroe nazionale albanese Giorgio Castriota Skanderbeg sui Turchi” (testo preso da “Mistagogia della Vita Cristiana”, a cura di Sua Ecc. Mons. Donato Oliverio, a p.189, finito di stampare nel febbraio 2019 presso GLF Stampa).

Ecco che in questo periodo vien meno la tradizione e quei momenti storici, che fanno la tradizione. Ovviamente, abituati a questi momenti culturali, dispiace non poter adesso festeggiare tutti insieme, come nei nostri paesi, si usa fare e dispiacerà non poterci abbracciare e cantare insieme, ma sarà ancora più emozionante, a fine di tutto questo, festeggiare la nostra “Pasqua”, il nostro passaggio da ciò che oggi è “anormale” a quella normalità che tanto, oggi, ci manca, condividendo la nostra vittoria su questa malattia e insieme, abbracciandoci, balleremo, canteremo, gioiremo. Ma è importante non dimenticare mai il dolore di quelle persone, che, a causa di questa pandemia, hanno perso amici o parenti e in qualche modo piangere insieme a loro, come avremmo fatto in questa Settimana per la morte di Cristo.

Il loro dolore, il loro lutto è il nostro»

Rachele; 19 anni; Lungro (CS)

 


«Marquez scriveva dell’amore ai tempi del colera, io parlerò del mio desiderio di essere un pesciolino rosso all’alba di quella che sembra essere una vera e propria catastrofe. Ormai sono sola con me stessa da giorni, ed inizio a provare una certa antipatia per questa mia ostinata positività. Quello che pensavo essere un rifugio, la mia casa, il mio piccolo posto nel mondo, circondata dall’amore della mia famiglia, negli ultimi ventidue giorni si è trasformata in una prigionia. L’insofferenza nasce dalla staticità in cui si scandiscono le giornate, dal susseguirsi fitto e veloce di piccoli rumori secchi, decisi e insistenti delle lancette dell’orologio, che ti ricordano che il tempo passa, ma a quanto pare non si può dire lo stesso di te. Le ore si trasformano in giorni, ed i giorni si trasformano magicamente in settimane e allora pensi che l’unica cosa che vorresti essere è un pesciolino rosso. Si dice spesso che il pesce rosso abbia una memoria limitata a pochi secondi, ma questo non è completamente vero. La memoria dei pesci rossi può essere definita selettiva, vale a dire hanno una qualche coscienza di ciò che è accaduto in precedenza, ma non sanno esattamente che cosa. Ora come ora potrebbe tornare utile possedere una memoria selettiva, in modo da non credere di ripetere quotidianamente le stesse cose. Ma essendo che ciò non è possibile, ho deciso di reinventarmi, riprendermi quel tempo di cui io stessa mi ero privata e di cui avevo privato chi mi sta intorno. Mi sto dedicando allo studio, alla lettura e ho scoperto di quanto bene mi faccia scrivere, mettere su carta i miei pensieri, le mie paure. Se qualcuno dovesse chiedermi perché scrivo, risponderei per paura che si perda il ricordo della vita, per paura che si perda il ricordo dei luoghi che mi appartengono, a cui appartengo, una memoria che va preservata, riservata. Quello che differenzia il luogo dallo spazio sono le reti di relazioni che si costruiscono, il rapporto che viene a crearsi tra gli individui e quegli stessi spazi. Il luogo rispetto allo spazio è relazionale, fatto da persone, storia, memoria, tradizioni, incontri, scambi e ostilità. In questi giorni che abbiamo dato il via alla didattica a distanza, sento un senso di vuoto e spossatezza, e mi mancano tanto le aule dell’università. Mi manca la mia quotidianità, la sveglia che suona alle 06:00 in punto, e fuori è ancora tutto buio e si intravede la luce dei lampioni, ormai anziani, che per citare Venditti, come i pini di Roma, la vita non li spezza, il cappuccino consumato insieme ad una buona dose di ansia, il treno preso al volo, le chiacchierate in stazione con delle persone a me sconosciute, ma nelle quale ti rifletti e attraverso le quali costruisci la tua identità. Mi mancano i miei colleghi, parlare con loro guardandoli negli occhi, mi mancano le corse da una lezione all’altra, e mi manca poter interagire concretamente con i miei insegnanti. Erroneamente gli studenti credono di dover combattere quotidianamente con i loro insegnanti, ma questo rovesciamento della realtà, evidenzia come invece ci si batta ogni giorno per un obiettivo comune, la conoscenza, la libertà. Siamo facce diverse di una stessa medaglia, significanti differenti di uno stesso significato. Improvvisamente il docente veste i panni dello psicologo, riuscendo a ritagliare dei momenti di colore, di spensieratezza, e si intravede la presenza, in questa assenza assordante. La presenza è presentificazione, è sempre in decisioni e situazioni, ci pone il problema di essere nel mondo. È cambiato il modo di comunicare, perché questo ci è stato chiesto, un cambio di passo, e non è più tempo per la superficialità, non c’è mai stato. L’uomo ha iniziato ad interrogarsi su di sé e sul circostante, prendendo nuovamente in considerazione la vecchiaia e la morte. Troppo impegnato a dedicarsi alla società dell’utile, si finisce per credere di poter comprare tutto, persino barattare la morte, in cambio di una nuova vita.

Nel libro “Gli uomini non sono isole” Nuccio Ordine riprende un’importante tematica trattata da John Donne in – “Devozioni per occasioni di emergenza- ”  descrivendo che nessun uomo è un’isola, intero in se stesso; ciascuno è un pezzo del continente, una parte dell’oceano. Lo stesso autore tratta il tema della morte, descrivendo come la morte di qualsiasi uomo lo diminuisca, perché preso dell’umanità, e perciò ci invita a non mandare a chiedere per chi suona la campana, essa suona per ognuno di noi. Ci ricorda che siamo essere finiti, in un universo infinito e tutti, nessuno escluso, possono fare la differenza. La vita deve fare i conti con la morte e con i morti per continuare a essere tale. I morti sono i segni sotterranei della vita. “È un’incredibile ricchezza l’unità della vita e della morte, ben più ricca dell’astratto isolamento della vita che, se reprime o ignora la morte, è soltanto una traiettoria passeggera e destinata a svanire”. Vito Teti in “Quel che resta” descrive così il concetto di ombra e si occupa della sindrome del cuculo, distruggere il mondo quando lo si possiede e averne nostalgia quando non c’è più. Iniziamo oggi a costruire il nostro domani, perché il futuro arriva così presto, e facciamolo con una consapevolezza diversa, eravamo distratti alle lezioni del passato, cerchiamo di apprendere la lezione del presente, in modo da meritarci una bella promozione, e trovarci preparati per il futuro»

Mariella; 21 anni; Torano Scalo

 


«R-ESISTIAMO. Gli ultimi scampoli dell’inverno, dissipati in gocce, martellano cadenzatamente sul lucernario, riecheggiando in trenta metri quadrati di vita, che mi gira intorno e mi attraversa. Sono seduta tra colori e strappi del tempo, ricordi, sogni, andate e ritorni. Si sono accomodati negli anni, a mettere insieme una vita, vissuta e immaginata, raccontandosi in tempo di quaresima.
Oggi piove dicevo, il terrazzo, i tetti di Roma, i vicini che scrutano il circostante a cui si agganciano, cantando, salutando, oggi è tutto interdetto. Ma non sono sola: poco più in là altri luoghi vivono degli stessi sentimenti, mentre le videochiamate mangiano rapide le ore, tanto che, ancora, il tempo non mi basta.
Sono felice di non rallentare nel traffico, di non scontrarmi con tanti come me che camminano e non vedono, di non ricevere sorrisi di ritorno.
Ma sento il respiro che si sospende ad ogni respiro che si spegne, di tante vite da raccontare che annegano sole e lontane. Mi sarei voluta fermare, ma non ad un prezzo così alto. Il collasso degli ospedali, l’angoscia della solitudine ingrata di chi muore e di chi, già succube di un isolamento sociale resiste ad una rafforzata disperazione, nel silenzio di questa casa, sono urla assordanti. Al costante e inaccettabile sacrificio degli ultimi, si aggiunge quello dilaniante, di gran parte di una generazione che scivola in silenzio, mentre la memoria, dissolvendosi a poco a poco, ci fa franare.
I letti delle case di riposo il sudario, l’attesa della morte il calvario; sacrifici senza salvezza, senza resurrezione. Quest’anno non è primavera, quest’anno non si risorge, quest’anno non si ritorna. Piovono le lacrime dei paesi che guardano immobili i loro figli allontanarsi senza un saluto, gli stessi che sono sempre rimasti a curare ogni angolo, di un luogo conosciuto e amato. Piovono le lacrime dei paesi che non possono essere consolati e riempiti dal rientro di quanti, sospendendo la corsa per il futuro, tornano, a casa, per Pasqua.
Le cucine dei nonni non vedranno riunioni di famiglia tanto attese e desiderate, tra i profumi dei piatti condivisi ed i giochi dei bambini; le strade, i “vichi”, le piazze si chiederanno se siano stati dimenticati.
E pure noi ci siamo dimenticati…  Siamo un popolo sfilacciato, stanco, distratto, a rincorrere falsi miti ignorando i propri, corpi disabitati sull’orlo del precipizio, una marcia affannata di tanti sradicati che non fanno moltitudine. È lontano il tempo della gioia che ci rapiva, nelle domeniche di festa, da bambini, quando lo stupore divorava storie, il sole cortili.
 Ma potremmo pensarci come quei vasetti di terra in cui il grano attecchisce e germoglia al buio, così diventa più bello per i “Sepolcri”, il giovedì santo. Potremmo sbocciare in questo tempo appeso, curando in silenzio, al buio, l’alterità. Potremmo poi piantarci nel mondo, sentire la terra che sosterrà peso e respiro, il profumo del vento giusto, la meraviglia che, libera, spalancherà i nostri occhi.
Le pietre, le strade dei nostri paesi, continuano a parlarci, non ci dimenticano. La loro voce, la voce della memoria del luogo, della storia, è la voce del ritorno, il sorriso negato per strada, la cura alla nostra malattia, la piantina che si apre il varco anche nell’asfalto, la primavera, la Pasqua. Quando si accoglie il tramandare, si leggono le istruzioni per un buon vivere, un vivere di gratitudine, cura, rispetto e ascolto.
 Per tutte le voci che gridano da anni, facciamo tornare il mondo nei nostri spazi e trasformiamoli in luoghi. Io lo sento questo mondo in trenta metri quadri: mi sembra di tenere la mano, di sorridere, di ascoltare storie e mi conforto così, mentre Roma, placida, si riposa.
Le pratoline non devono resistere alla pressione dei piedi, le macchine in doppia fila hanno liberato gli sprangati cancelli delle scuole e la natura si fa largo sotto la coltre di silenzio, che si adagia intorno, in questo regno della Bella Addormentata del nuovo millennio.
Da qui la libertà corre veloce, sento più forte l’amore per relazioni scelte e lo stesso, profondo, per chi non conosco. Oggi piccola, da un piccolo luogo, sono parte di un piccolo mondo che deve ricordare, lottare, sperare, mentre il nostro piccolo pianeta respira, dopo una lunga apnea, nell’immensità piena dello spazio che lo contiene.
Alzo lo sguardo: un gatto si spalma sul lucernario, il ragno continua instancabile a costruire, la pioggia, per poco, si sospende»

— Francesca, 37 anni, Roma

 


«La casa, il nido d’amore, il luogo verso cui ci affrettavamo a tornare durante i weekend in seguito alle nostre giornate piene a Quattromiglia, il luogo dove smarrisce il dolore e si arrestano ansie e paure, luogo che muta così come l’uomo divenendo una prigione, una sorta di orco che ci ha rapiti e non vuole più lasciarci.
Dalle battute di noi giovani talvolta incoscienti e molto positivi sul fenomeno che ad un tratto ha bussato a casa nostra, la nostra amata Italia, Nazione non particolarmente pronta ad accogliere una catastrofe di tale spessore, stanca di chiedere aiuto, un aiuto che tarda a venire. E ci si chiede, ma finirà? Risposta che nessuno è in grado di dare per evitare illusioni a chi ne ha avute già parecchie. Eppure è necessario credere nella luce in fondo al tunnel, è necessario per darsi e dare forza a chi ci circonda. Bambini che non riuscendo a comprendere quanto nefasto sia ciò che sta accadendo intorno a noi, chiedono ai genitori circa il perché non possono andare all’asilo, incontrare i compagni; genitori, alcuni costretti a lavorare che convivono con il terrore del contagio, altri che per la prima volta conoscono il senso di rimanere con la propria famiglia, trascorrere del tempo con i loro figli, che fino a questo momento vedevano solo durante l’ora di cena o alcuni che addirittura tornavano quando i piccoli ormai stanchi, dormivano.
Anche qui possiamo scorgere la differenza tra chi ha una grande casa e chi invece costretto a rimanere, soprattutto nelle grandi città in piccoli appartamenti, spesso privi di balcone. E gli anziani? Parte ad oggi più colpita dal Corona virus, che muoiono lontano dai propri cari, privati di quella che loro stessi definiscono “festa”, momento che li “accompagna verso il nuovo mondo”.
Anziani abbandonati nelle città, senza supporto da parte dello stato che spesso garantisce ma raramente mantiene. Non ci mancano le grandi cose, ci manca osservare l’azzurro del cielo, perché no!? Corse sotto la pioggia! Cosa vuole farci capire questo funesto momento? Non avevamo mai tempo e solo adesso ci accorgiamo di quanto lungo sia un giorno. Dimenticavo di parlare di me, di noi. I giovani. Quanto ci mancano quelle enormi aule all’interno delle quali: abbiamo pianto perché delusi a seguito di un esame andato male; riso, insieme ai nostri colleghi che coloravano quei giorni di lezioni senza fine, le battute dei professori, il loro supporto e/o le loro lezioni spesso anche di vita .

Per concludere poi, quarantena in Quaresima. Si potrebbe parlare di un momento di duplice riflessione e prospettiva. Il periodo che dopo le giornate sempre buie ,le giornate di pioggia, tra l’altro il periodo post sessione invernale lo avevamo immaginato in maniera differente.
Personalmente il periodo della Pasqua l’ho sempre vissuto come il momento di “resurrezione” che coincide con la stagione della rinascita , della fioritura. Un fiorire che tarda a venire, che non si può osservare se non da qualche foto, o da qualche viaggio mediante il ricordo nel nostro vissuto.
Vissuto che oggi ci riporta a quei momenti da tutti attesi. Sin da bambina aspettavo il giovedì santo, per l’Ultima Cena, la lavata dai piedi che mi ha sempre fatto comprendere l’umiltà.
Il giro dei “Santi sepulcri” del venerdì santo, giorno di lutto e di tristezza e poi la domenica. La nostra “Cunfrunta”, la Madonna che davanti al figlio sostituisce il velo nero, segno di lutto, e si riveste di azzurro, colore di rinascita, di festa. Immagini suggestive che mancheranno, non viverle sembra quasi non giungere alla Santa Pasqua. Non sentiremo più quelle parole di forza e gioia della Domenica di Pasqua: “Cristo è risorto, alleluia alleluia”. Tornando al colore nero del velo di Maria, quanto può sembrare strano pensare che molti dei nostri anziani, nel giorno della “temuta” morte non avranno quel rituale funebre a cui da sempre siamo stati abituati… pensare che nel momento del forte dolore, o come molti definiscono mediante l’ossimoro “dolce agonia” non possono essere sfiorati da nessuna mano amica o vegliati da alcun viso familiare ? [..Possono patire di angoscia..] Mi preoccupa cosa sarà di noi, chi saremo, come saremo, come ne usciremo se ne usciremo»

— Anonimo; Sant’Onofrio (VV)


«CATASTROFE. Questo  è il termine purtroppo più appropriato per descrivere il presente, un presente che, forse, nessuno di noi avrebbe voluto vivere e probabilmente un passato che sarà difficile da raccontare negli anni che verranno.
Ad oggi, la sfida più temibile da affrontare è proprio quella di convivere con noi stessi.
Abitudini stravolte, legami spezzati, relazioni interrotte sono solo alcune delle conseguenze che siamo chiamati ad affrontare in un momento particolare come questo.
L’uomo è per definizione un animale sociale, non può vivere senza gli altri; eppure si ritrova, ora, ad affrontare la solitudine, la chiusura forzata, l’incapacità di intrattenere quelle relazioni che l’hanno sempre contraddistinto, la socializzazione caratteristica del suo essere ‘animale sociale’.
Sono tante le domande che ci poniamo, tante le probabili risposte, ma al quesito ‘come affrontare tutto questo?’ sono pochi coloro che avanzano ipotesi.
Lo spazio che prima coincideva con ‘mondo’ si è ristretto, così tanto da essere associato alla parola ‘casa’, che se prima aveva il significato di ‘luogo sicuro, in cui ritornare alla sera?’ ora assume la connotazione di ‘luogo in cui trascorrere la maggior parte del tempo’. Quelle pareti che, a causa delle attività quotidiane, sembravano una ‘vittoria’ alla fine della giornata, ora sembrano delle gabbie, pronte a non lasciarci andare in un mondo stravolto nel suo nucleo, le attività umane.
Il nostro quotidiano è monotono, il risultato di azioni meccaniche ripetute più volte; le interazioni scarne, prive di quella solita spontaneità; siamo chiamati ad affrontare noi stessi, le nostre emozioni, abitudini che non pensavamo potessero esistere.
Intrattenere una conversazione a un metro di distanza è diventato prassi, chi mai avrebbe potuto prevedere ciò? Se da un lato abbiamo l’emergenza sanitaria, dall’altro siamo chiamati a rispondere a dei meccanismi strani, complessi che ci rilegano al solo essere un individuo mortale.
Il mondo non ci è mai apparso così piccolo; mettere piede fuori dalla soglia di casa sembra l’obiettivo più ambito del momento, come se quelle vie di paese fossero strade del mondo.
L’unico mondo che possiamo esplorare è quello digitale;  creare legami esclusivamente attraverso uno schermo è, a mio giudizio, la cosa più devastante che un essere umano possa sopportare.
Nonostante sia una cosiddetta ‘nativa digitale’ e dunque la rete sia qualcosa a me familiare, non posso che rendermi conto della distanza fisica che questi social abbiano creato. L’aspetto paradossale della cosa è che, in momenti come questi, essi siano l’unico strumento a poter avvicinare le persone.
Se dovessi indicare un aspetto ‘positivo’ della situazione, parlerei sicuramente della consapevolezza che questa ‘chiusura forzata’ mi ha dato, la consapevolezza di quanto le piccole cose siano importanti, di quanto sia bella la famiglia e  gli amici.
Si avvicina la Pasqua, si avvicinano le feste di paese, si avvicinano quei momenti passati in compagnia e ciò non può che procurarmi tanta nostalgia. Mi accorgo solo ora della bellezza delle persone, del sentimento di appartenenza al mio paese, della vitalità delle piazze e delle aree verdi.
Probabilmente è proprio l’attesa della Pasqua che devi farci diventare persone migliori, individui che usciranno dalle loro case con la convinzione di quanto siano futili le cose materiali, di quanto sia eccessivo il consumismo del giorno d’oggi e soprattutto di quanto sia importante l’amore, l’amicizia e il rispetto. Se c’è una lezione da imparare, penso sia proprio quella di imparare a essere individui-persone , non solo fatti di materia, ma soprattutto di anima.
Cosa aspettarci dal futuro? Ad oggi, ritengo che la miglior cosa sia vivere il momento, non si può prevedere cosa accadrà, soprattutto in un mondo incerto come il nostro, un mondo che ci mette continuamente alla prova,  lo stesso mondo che fatto perdere a intere famiglie persone care.
Che sia da lezione a tutti! Si vive per essere genuini, spontanei, per abbracciare i nostri genitori oggi, piuttosto che piangerli un domani.
Siate più forti e soprattutto siate umani!»

—  Valeria; Rocca di Neto (KR)

 

 


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Notes:

  1. FRANCESCO GUCCINI, “Autogrill”, “Guccini”, EMI 1983
  2. FRANCO CASSANO, “il pensiero meridiano” LATERZA 2007, p14
  3. FRANCO CASSANO, “Il pensiero meridiano”, LATERZA 2007, pp13-14

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