Memoranda. Memorie, riflessioni, racconti per il futuro (PAGINA 2)

Questa rubrica è coordinata dall’antropologo e scrittore Vito Teti e ha lo scopo di raccogliere le “memorie” della vita quotidiana delle giovani generazioni e delle persone di ogni età nel tempo presente.

PAGINA 2

La sezione si colloca nell’ambito del progetto “Il mio spazio vissuto”.

Tutte le immagini a cui i testimoni fanno riferimento nei loro testi sono disponibili nella sezione Memoranda – Media


-Niente sarà più come prima-

“Niente sarà più come prima”, è vero. Si parla dello stesso concetto diffidente che ha inaugurato fasi storiche come il dopoguerra, il post 11 settembre, e innumerevoli catastrofi reputate parte integrante di storia. Dovremo abituarci a scambiare tempo in cambio di sicurezza, anteporre il binomio diffidenza-distanza alle consuetudini giornaliere, convivere con mascherine e guanti. Anche questo sarà storia. Molta è e sarà la strada da valicare per riuscir a riedificare una normalità da essere definita tale. Un “nemico” non particolarmente usuale, ha sconvolto in un tempo così esiguo le nostre più piccole certezze e abitudini, incombendo nelle vite di ogni singolo appartenente alla collettività.
Durante queste settimane di pandemia, se avessimo affrontato con coscienza semplici passaggi, avremmo (come società) svolto un servizio pubblico ai fini di una più sicura salvaguardia e incolumità circostante (poiché molti si sono rivelati i conterranei cinici, che hanno reputato questa disgrazia mondiale un’assoluta corbelleria). Non bisogna, però, occultare, in ogni caso, coloro i quali invece, con il semplice gesto di non valicare il confine designato dalle mura domestiche, hanno contribuito ad una rispettosa convivenza comune. Da un giorno all’altro è come se il tempo, il mondo si fossero fermati, subentrato nella consuetudine di ognuno; il Coronavirus, ha costretto tutti, nessuno escluso, alla segregazione più assoluta se non per brevi uscite di prima necessità. Differenti sono state le modifiche apportate alla quotidianità di ogni singolo individuo, anche se potrebbe risultare banale il solo “rimanere a casa” ha scombussolato molto.
Internet, sms, il telefono di per sé ha ricoperto fondamentale rilevanza durante determinato periodo. I social diventano così anche uno strumento per riscoprire la vicinanza e la comunità: ormai diffusi e attesi gli appuntamenti per i flashmob che hanno reso meno drastica la reclusione e distanza con “l’altro” rendendo il globo compatto nonostante le distanze chilometriche senza distinzione di razza, ceto sociale o religione; infinite sono state le videochiamate con amici e parenti, molti sono ancora oggi gli episodi di solidarietà rivolti ai professionisti del settore sanitario, impegnati senza sosta per la società, immani le raccolte fondi avviate e condivise capillarmente: è così che la tecnologia ha contribuito riunendo virtualmente l’intera comunità.
Questa emergenza ci ha completamente ribaltato il quotidiano, «donandoci» molto tempo libero da passare a casa, cerco di trovare i lati positivi di questa quarantena e quello più lampante è la valorizzazione di ciò che prima davo per scontato: mi mancano i piccoli gesti a cui non attribuivo un grande importanza, le abitudini semplici ma piacevoli; al tempo stesso ci ha permesso di trascorrere parte di quest’ultimo a riflettere su noi stessi e sul mondo che ci circonda, a riscoprire l’importanza dei valori da condividere con le persone con le quali giornalmente viviamo e per via dell’abitudine e ovvietà non abbiamo mai rivolto particolare accortezza.
“Andrà tutto bene” come slogan nazionale grazie al quale si cercava di riporre un briciolo di speranza nel ritorno alla normalità, quella normalità che pian piano sfortunatamente abbiamo visto sgretolarsi con i nostri stessi occhi. Tanto strano è stato l’inizio della ormai famigerata quarantena, quanto il ritorno alla normalità: se prima ci interrogavamo su come avremmo provveduto ad abituarci alle nuove disposizioni, completamente estranee alle nostre abitudini, ad oggi ci si chiede se mai si assisterà alla “rinascita” di un paese, una nazione, un mondo paragonabile a quello di tre mesi fa: privo di distanze che impediscono i rapporti sociali, privo di barriere le quali ostacolano ogni singolo contatto, privo di mascherine che nascondono anche un semplice cenno di sorriso, privo di paura, quella paura che ad oggi ha portato molti ad essere diffidenti verso l’altro, paura che non facilmente sfumerà nel nulla, ma permarrà per molto.

Rebecca, 19 anni, Palmi (RC), Studentessa di Lettere e Beni culturali

 


 

NON SI FINISCE MAI D’IMPARARE
Capita a tutti di dare per scontato quello che si possiede, quello che ci passa tra le mani quotidianamente… capita a tutti di non essere mai contenti e soddisfatti, di desiderare sempre “quel di più”, di sottovalutare i valori principali che caratterizzano la nostra vita. Ecco, forse in questo periodo storico tanto delicato, in cui abbiamo dovuto fare i conti con un mostro “invisibile” ma potente, abbiamo potuto riflettere bene su quello che davamo per scontato. Sono una ragazza di 23 anni, appena compiuti, che così come tante altre persone, ha sperimentato il dover festeggiare il compleanno in una situazione “nuova”, “insolita”; menziono questo giorno perché è proprio quello che mi ha fatto riflettere maggiormente in questo lungo periodo di lockdown, un giorno dell’anno solitamente un po’ più prezioso rispetto agli altri. In genere mi capita di festeggiarlo soprattutto con i miei amici, di trascorrere questo tempo maggiormente con loro; quest’anno, invece, ho avuto l’occasione di approfittarne e condividere questo momento con la mia famiglia, di sentirli sempre presenti, vicini, premurosi nel farmi sembrare tutto normale, tutto tranquillo e sereno. Ho avuto ancor di più la conferma che basta poco per essere felici, che l’essenziale a volte è invisibile agli occhi e che chi ti vuole bene sa sempre come dimostrartelo e sa essere presente anche quando fisicamente non può farlo. Di mio sono una ragazza molto ansiosa, mi preoccupo troppo per le cose, mi faccio mille paranoie e purtroppo tutto ciò, nell’arco del tempo vissuto chiusi in casa si è amplificato; ho cercato di cogliere sempre il lato positivo, di concentrarmi sulla mia routine, di occuparmi il tempo e soprattutto la mente. In queste giornate di quarantena ho sperimentato diverse sensazioni ed emozioni, sempre tutte contrastanti e alternate tra loro; pensavo a studiare, ad allenarmi, ad essere in qualche modo il più produttiva possibile visto il drastico cambiamento subito nello stile di vita. Nonostante tutti gli aspetti negativi, ad oggi sono contenta, però, di aver acquisito maggiori consapevolezze, di aver imparato sempre più a pesare il valore delle cose e delle persone, di essere stata in grado di gestire meglio l’ansia. Mi ha aiutato in qualche modo in questo percorso “l’immaginazione”, pensare il giorno in cui avrei potuto tornare a fare una semplice passeggiata, ad incontrare e salutare la gente per strada, vedere un panorama diverso da quello che potevo vedere ogni mattina affacciandomi sul balcone. Poter anche solo immaginare quanto sarebbe stato bello ritornare a vivere a pieno la mia vita apprezzando le piccole cose, è stato fondamentale per me; credo fortemente che la vita sia imprevedibile, che è difficile essere pronti ad affrontare correttamente tutto quello che si presenta, ma a volte bisogna armarsi di forza e cercare di essere in grado di cogliere anche solo il più piccolo spiraglio di luce in fondo alle cose.

Alessia, 23 anni, Serra San Bruno (VV), Studentessa in Scienze dell’educazione


Riflessioni sul COVID-19

Ricordo quando stavo ore e ore sui libri di storia a imparare date, scoperte ed eventi che hanno cambiato la storia dell’umanità, chiedendomi se sarebbe mai potuto accadere qualcosa di così importante durante il mio arco di vita, a tal punto da far trascorrere a tanti altri ragazzi come me pomeriggi interi sui libri.
Il COVID-19 comunemente definito come CORONAVIRUS, ha stravolto non solo l’economia di tutti i Paesi del mondo, ma soprattutto lo stile di vita di ciascun individuo e in maniera particolare le relazioni sociali.
Ci ha obbligato a stare chiusi in casa lontani dalle persone che amiamo, ha annullato il contatto fisico riducendo la comunicazione ad un rapido scambio di sguardi colmi di angoscia e disorientamento.
Io ho vissuto la quarantena a casa di mio fratello Gianmarco di 22 anni che ormai da qualche anno vive solo; la mia è stata una scelta molto dolorosa perché mi ha portato a essere lontano dai miei genitori, a non avere il loro conforto, e con la costante preoccupazione che questo mostro avrebbe potuto colpire anche loro; tuttavia, il pensiero di lasciare mio fratello solo per tutto questo lungo arco di tempo ha prevalso.
Questo lunghissimo periodo trascorso insieme ci ha permesso di riscoprirci e di conoscerci più a fondo; abbiamo entrambi appreso l’uno dell’altro ciò che amiamo e ciò che invece non sopportiamo, abbiamo avuto modo di riscoprire le nostre passioni, di confrontarci su particolari argomenti, ma soprattutto di vivere insieme, cosa che per molto tempo non abbiamo avuto la possibilità di fare.
La mia routine consisteva per buona parte nel seguire le lezioni online, nello svolgere i compiti assegnati dai docenti e alla cura della casa; di conseguenza, il tempo che restava era davvero ridotto, ed era per lo più dedicato alla lettura di libri che da tempo aspettavano di essere letti, o a guardare film e serie tv con mio fratello.
Questo periodo è stato molto difficile da affrontare; ciascuno di noi lo ha vissuto con angoscia e melanconia, sentimenti che crescevano in maniera direttamente proporzionale alla curva dei contagi e al numero di morti che appariva sul bollettino delle diciotto. Abbiamo assistito al collasso non solo dell’economia mondiale, ma anche e soprattutto delle nostre certezze.
Tuttavia, ciascuno di noi ha voluto manifestare il senso di appartenenza alla madre patria: l’Italia con diversi gesti, cantando alle sei in punto di ogni pomeriggio l’inno di Mameli con la mano sul petto, o affiggendo al proprio balcone o finestra un cartellone con la scritta “CE LA FAREMO”.
Abbiamo avuto modo di vedere come diversi personaggi influenti hanno promosso campagne di raccolta fondi destinati ai diversi ospedali più colpiti e alla ricerca di un possibile vaccino, medici infermieri e tutte le altre figure professionali sono diventati i protagonisti della lotta contro il COVID-19.
Tutto questo ha permesso di riscoprire un’Italia unita da forti valori quali la solidarietà, il senso di responsabilità e l’amore per noi stessi e per le persone a noi care che ci ha spinto a essere prudenti per tutelare noi stessi e gli altri.
L’annuncio fatto il tre maggio durante le ormai quotidiane dirette del presidente del consiglio Giuseppe Conte, diventato per molti un paladino, per altri una sorta di carceriere, prevedeva l’inizio della tanto attesa FASE 2. Questa notizia ha diffuso molta speranza in quanto anche il solo fatto di potersi recare dai propri congiunti (sempre con le dovute cautele), ha alleggerito la pesantezza di quella quotidianità divenuta oramai insostenibile. Ma una svolta più concreta è avvenuta con la FASE 3 che ha portato alla riapertura delle attività commerciali e allo spostamento senza autocertificazione. In quest’ultima fase ognuno ha provato a riappropriarsi di quella che precedentemente era la sua “normalità”.
L’unica cosa che mi sento di dire è che spero che tutti i sacrifici compiuti finora non vengano vanificati dall’imprudenza che, ormai, da qualche settimana, regna sovrana, con l’augurio di non vedere comparire nuovamente sul bollettino il numero di contagiati in Calabria a causa delle persone che scenderanno al Sud per godersi le vacanze estive.
Mi piacerebbe concludere dicendo che anche questa, come ogni altra esperienza che abbiamo vissuto, avesse frutti buoni e acerbi; sta a noi scegliere quali raccogliere.

In allegato inserisco la foto del mare, il luogo che mi è mancato più di tutti durante la quarantena.

Valeria Maria, 20 anni, Montepaone Lido (CZ), studentessa di Scienze dell’Educazione

 


 

L’eco del pericolo

In Calabria, banalmente da noi, il contagio ha fatto appena capolino, ha “bussato” alle porte dell’Università di Reggio, ha spaventato un po’ il comune di Rosarno, qualche comunità del cosentino, del vibonese, ma nulla di più che flebili accenni ad un altrove lontano, indistinto. Ancora banalmente, da noi, il famigerato Covid-19 ci ha visto rappresentare la paura, ma non viverla fino in fondo, calati in una sorta di scenario pirandelliano con personaggi di fatto presenti, ma “smascherati”, latenti.
Se non occupiamo la piazza, la strada, le aule, gli uffici, se non veniamo inchiodati dagli sguardi, se non ci confrontiamo, la nostra stessa identità qual è, cos’è? Questo il dubbio, o la certezza di essere ridotta ad un pensiero pensato da altri, spersonalizzata dietro una mascherina, uguale a mille altre facce, senza difetti, dolcezza, durezze, impressioni, nulla. Dentro una massa indistinta sotto pressoché totale controllo.
Dalla mia stanza ho ascoltato un eco di un pericolo imminente sì, forse, probabilmente, ma affatto indistinto, lontano. L’ho percepito nelle telefonate di mia zia da Cremona, dalle pagine di necrologi dell’Eco di Bergamo, ma non mi è mai completamente appartenuto. Se non nei termini di un dispiacere general-generico, per così dire, per la sofferenza altrui.
Osservavo mentre studiavo, o magari dopo aver preso un caffè, la piazza, luogo di incontro, di sguardi non sempre discreti, occupata da un cagnolino, talvolta più d’uno in disinvolti branchi che si prendevano il loro spazio con grande naturalezza. È stato divertente pensare come loro, a differenza degli “umani”, potessero muoversi con tanta facilità, magari col capobranco in testa ad impartire indisturbato, accanto alle panchine, le sue istruzioni a neo esploratori di spazi riconquistati.
Chissà se in qualche modo loro sono stati, sono più coscienti di noi della situazione. Nella nostra visione antropocentrica ci vediamo al centro di tutto, ma forse dovremmo imparare qualcosa da loro. Mi chiedevo se, forse, la coscienza fosse qualcosa di più grande della formulazione di un pensiero, o della fede nella scienza, messa in ginocchio da un “bacillo”. E fosse la prima volta.
Scienza, del resto, è anche la sismologia, in grado di misurare l’intensità di un terremoto, ma non di prevederlo, né tantomeno di limitarlo. Come il sisma del 1908, che dopo quello del 1783 ha distrutto la mia Seminara, e ad avvertire il mondo solo un telegramma da Nicotera Marina, come si usa fare con i defunti lontani. Come non associare la virologia -mi sono chiesta- alla sismologia? Come non affratellare le due impotenze?
Dalla mia camera posso osservare un tratto di strada distante poche decine di metri dalla Chiesa principale di Seminara, e ho avuto diverse volte il dubbio, la paura, che il flusso di gente durante la processione, nella festa patronale, non potesse essere più quello di un tempo. La devozione per la Madonna dei Poveri è attuale, è sentita da tutta la comunità e non solo. Il 14 agosto, da oltre 1000 anni, si venera la Madre Nera. Quest’anno sarà strano, diverso, non poterla ammirare presso le strade millenarie della sua amata Seminara. Questo senso di preoccupazione mi rende triste, ‘spaesata’ riprendendo le parole di De Martino.
Personalmente non ho avuto l’esigenza di affidarmi troppo alla memoria, alle foto di momenti passati, perché ho la fortuna di avere due fratellini molto più piccoli di me, che con la loro vivacità rinnovano la quotidianità di continuo. Sono sempre sorpresi, desiderosi di giocare. So che per loro, se l’emergenza finirà presto, non rimarrà che un gioco, e questo un po’ mi rassicura, mi consola.
Ad acuire ancora di più lo stato di sospensione la mancanza della Santa Pasqua. Anche qui, sentire il Papa dalla TV senza potere accedere, assistere direttamente alle funzioni religiose, avvertirne la “presenza”, è stata una esperienza che difficilmente potrò dimenticare. Quasi destabilizzante.
La Pasqua è forse la festa più importante della cristianità, che con il “suo anelito alla tomba”, come ebbe a dire W.B. Yeats, il famoso poeta irlandese, vivifica il mondo in un ciclo vitale nuovo, pieno di fecondità ritrovata.
E, in questo senso, ho avuto modo di riscoprire, nelle parole di mia nonna, il rito della Corajisima di Seminara, una bambola di pezza di colore nero coi piedi confitti in un limone o in una patata, trafitta a sua volta da sette penne di gallina. Simbolo della sessualità femminile, il frutto così trafitto simboleggiava l’astinenza dal piacere canale nelle sette settimane precedenti la Pasqua, così come dal consumo della carne.
L’inquietante bambolina veniva esposta dai balconi delle case il Martedì Grasso e si usava recitare questo verso: “Nesci tu porcu mangiuni ca trasu eu sarda salata”.
Veniva poi tolta una penna alla volta e bruciata. Questo assicurava la protezione dagli spiriti maligni… Sino al Sabato di Pasqua. La Domenica decretava la fine dell’ultima penna, accompagnata da un verso eloquente: “Nesci tu sardeja sicca, ca trasu eu la ‘rricriata”.

Alcune volte, ritornare indietro, avere memoria di ciò che c’è stato prima è un “rifugio” per non pensare ai momenti sospesi. Lo definirei un ‘viaggio’ introspettivo, ho riscoperto mondi e argomenti che avevo precedentemente abbandonato. Ripenso al mio paese pieno d’incertezze, un po’ come i giorni che stiamo vivendo. A vederlo oggi pieno di silenzio e di angoli spenti, di strade dove non si intravede l’ombra di una persona. Cos’è un paese senza la gente? Un museo a cielo aperto, ma senza visitatori verrebbe da dire. La domanda che mi pongo quotidianamente è: ma tutto tornerà come prima?’ C’è chi crede di no e chi lo spera. Forse perché le città e tutto ciò che ci circonda meritano di più. E se c’è qualcosa che ho imparato in questo momento della storia dell’umanità, è che ho perso di vista certe cose: il tempo e come lo si può vivere, come si può rendere ogni attimo unico e lo si può vivere “qui e ora” non nell’ennesimo appuntamento del nostro calendario. Proprio per questo quando tornerò a vivere il mio paese mi prenderò il giusto tempo, creerò un ritmo nuovo, diverso, più umano. Questo per sentire le città in vita attraverso i mercati, il traffico, i commercianti. Viva con i suoi dettagli, momenti, rumori. A osservare il sole che filtra sul mare, all’anziano che si trova fuori la sua bottega. Torneremo tutti insieme a respirare lentamente e a goderci una giornata di sole, perché sì, tutto questo finirà.

Giovanna, 19 anni, Seminara (RC)

 


“La ripartenza può e deve convivere con la prudenza”
Il 4 Maggio è iniziata in Italia la cosiddetta “fase 2”. Dopo il lockdown in tutto il paese, sono state allentate alcune misure di distanziamento sociale che, in questi due mesi, hanno ridotto la libertà di spostamento e di interazione sociale per limitare la trasmissione del virus. Sono riprese alcune attività: coltivazioni agricole, pesca e aperti i parchi pubblici dove è possibile fare attività fisica singolarmente rispettando tutte le norme di sicurezza (mascherine e guanti). Inoltre, sono state aperte le chiese, ma solo per celebrare i funerali con massimo 15 persone e i matrimoni con solo gli sposi e i testimoni. Il prossimo passaggio è legato ai risultati che si avranno nelle due settimane successive all’inizio della fase 2. Se la linea del virus avrà una discesa ci saranno, in modo graduale, altre riaperture fino ad arrivare ad una normalità della vita quotidiana di ogni cittadino. La speranza è che il tutto avvenga al più presto, ma se dovessero esserci dei nuovi focolai di contagio e un peggioramento della situazione di emergenza sanitaria, il governo interverrà con nuove restrizioni.
In questo periodo così triste non posso non mettere in moto la memoria e, quindi, ricordare la vita precedente. In questi mesi il mio paese è stato travolto da una silenziosa e fatiscente solitudine. I suoi borghi hanno perso il chiacchiericcio dei suoi abitanti e per me e per i miei compaesani sembrava di vedere San Giovanni in Fiore quasi malinconico e piangente. Dopo una lunga quarantena sono uscita e attraversando le strade silenziose e solitarie mi pareva di trovarmi in un luogo sconosciuto. L’assenza del popolo, l’assenza delle urla dei bambini, del ridere dei ragazzi, dei ritrovo degli anziani, dei locali vuoti. Le certezze di prima non sono più quelle di oggi… Ho allegato queste foto del mio paese mettendo a confronto la vita di oggi, nella più totale solitudine, e quella di anni fa nella più totale gioia e armonia durante il periodo natalizio… Tutta questa situazione mi ha causato:
Tristezza… Vedere l’Archicenobio Florense, fondato da Gioacchino da Fiore (di spirito profetico dotato Par. XII, 139-141 DANTE ALIGHIERI) deserto e desolato senza il contorno dei suoi tanti visitatori, e dei suoi orgogliosi cittadini che, come un gioiello prezioso la adorano e la amano per la sua maestosità e bellezza, mi ha fatto scendere una lacrima dagli occhi ma anche dal cuore.
Ma anche speranza e fiducia che tutto questo finirà Voglio rivedere l’ABBAZIA FLORENSE viva. Voglio rivederla colma di gente che festeggia felice e allegra e soprattutto LIBERA. Voglio vedere la gente che si tiene la mano e si abbraccia senza avere paura. Spero che tutto torni al più presto alla normalità.

Michela, 19 anni, San Giovanni in Fiore (CS)


 

FASE 2 (Maggio/Giugno 2020)
Tornerà tutto come prima. (Ma ne abbiamo davvero bisogno?)
“Fu l’anno più piacevole che passai sull’isola”.
Questa frase viene pronunciata da Robinson Crusoe in seguito alla conoscenza e subitanea amicizia con Venerdì; infatti egli dopo aver “vissuto” come un eremita per 25 anni non appena vede un’altra persona, immediatamente, sente una vicinanza emotiva necessaria alla sua vita.
Seneca diceva “L’uomo è un animale sociale. Le persone non sono fatte per stare da sole”.
L’uomo ha bisogno di sviluppare rapporti con gli altri, è nella sua natura e quando ciò gli viene negato si sente fortemente a disagio e non in pace con se stesso.
Dopo questo lungo periodo di chiusura forzata, da qualche giorno, si può finalmente uscire, e ciò è sicuramente molto importante. Ma è la stessa cosa salutare un familiare con la mascherina o tenersi a debita distanza con un amico per paura di questo terribile pericolo invisibile?
Dobbiamo imparare a conviverci per forza di cose, ma non poter distinguere un sorriso sul volto di un caro è, di sicuro, una cosa che ci mette molto a disagio e che prima, invece, ci pareva talmente scontata che non ce ne ravvedevamo neppure.
Questo ci fa capire quanto l’epoca da poco terminata (poiché in bene o in male d’ora in poi cambierà tutto) sia stata in realtà una falsa concezione delle reali necessità per via soprattutto di due cose dal mio punto di vista, ovvero: la virtualizzazione di massa che in realtà ci ha sempre di più allontanato gli uni dagli altri e il rapporto irrispettoso e cruento nei confronti della natura.
Virtualizzazione perché la società(ma cos’è questa entità sovrannaturale se non noi stessi?) ci ha costantemente imposto un progressivo –e celere- smarrimento della relazione fra noi esseri umani a vantaggio di uno schermo.
Mentre alla Natura abbiamo arrecato dei tali e repentini danni come disboscamenti ingenti di foreste, in pratica i nostri stessi polmoni e un uso spropositato di energia (soltanto negli ultimi 50 anni, ad esempio, abbiamo sfruttato metà del petrolio di cui la Terra dispone e che ci mette milioni di anni per ricrearsi) che essa, ad un certo punto, non potrà più sostenerlo. Tutto ciò ovviamente non solo influisce sulla nostra vita, ma anche e soprattutto su quella di migliaia di animali che sono sempre più a rischio estinzione.
Perciò, o ci si rende conto che siamo tutti membra dello stesso corpo e che a qualsiasi azione corrisponde una reazione o l’uomo cancellerà ogni forma di vita dal pianeta e lentamente si estinguerà per sua stessa mano.
La speranza è l’ultima a morire e in un’ottica fiduciosa si può immaginare di cambiare, anche radicalmente, ma come si dice al mio paese “A malerba un mora mai” perciò “se uno nasce tondo non può morire quadrato”.

Catastrofe tra (ir)realtà e (in)coscienza
“Forse traverso una catastrofe inaudita prodotta dagli ordigni ritorneremo alla salute. Quando i gas velenosi non basteranno più, un uomo fatto come tutti gli altri , nel segreto di una stanza di questo mondo, inventerà un esplosivo incomparabile, in confronto al quale gli esplosivi attualmente esistenti saranno considerati quasi innocui giocattoli. Ed un altro uomo fatto anche lui come tutti gli altri , ma degli altri un po’ più ammalato, ruberà tale esplosivo e s’ arrampicherà al centro della terra per porlo nel punto ove il suo effetto potrà essere il massimo. Ci sarà un’esplosione enorme che nessuno udrà e la terra ritornata alla forma di nebulosa errerà nei cieli priva di parassiti e di malattie”. (Italo Svevo, La coscienza di Zeno).
97 anni fa Svevo concludeva così il suo capolavoro ammonendo l’intera umanità che l’uomo ucciderà se stesso, avvelenandosi progressivamente e senza alcun limite.
Scenario apocalittico, distopico e tragico senz’altro. Ma davvero così lontano dalla realtà e impossibile?
Spero vivamente che cambi drasticamente tutto e che ognuno se ne renda conto al più presto.
Sogni e bisogni
Ma a me piace tuffarmi in quel barlume di speranza e cercare di vedere la luce in mezzo a tanta oscurità e la gioia in mezzo a tanto dolore.
E questa speranza e positività mi ha fatto subito pensare ad una scena di Velluto Blu in cui si parla di un sogno, perché forse è ciò di cui abbiamo più bisogno tutti.
“È uno strano mondo […] Non lo so. Sai, ho fatto un sogno. L’ho fatto la notte che ti ho incontrato. Nel sogno vedevo il nostro mondo e questo mondo era buio perché non c’erano più pettirossi. I pettirossi rappresentavano l’amore. E per un lunghissimo tempo ci fu soltanto… soltanto oscurità. Poi ad un tratto migliaia e migliaia di pettirossi tornarono sulla Terra e il loro ritorno portò finalmente la luce accecante dell’amore. E sembrava che quell’amore fosse… fosse l’unica cosa veramente importante. Ed era così. Io credo che questo significhi che c’è solo oscurità finché non arrivano i pettirossi” (Blue Velvet , David Lynch).

Giuseppe, 19 anni, Sersale (CZ), Studente di Lettere Moderne

 


Il mondo che verrà. Non so dire per qual motivo io abbia aspettato così tanto a mettere in fila queste parole, questi pensieri, queste frasi. E altrettanto mistero è ciò mi guida a farlo proprio oggi: giorno martedì 9 giugno 2020, esattamente un anno dopo aver finito le superiori e dopo che (quasi) tutto è accaduto, ora che la quarantena sembra sia diventata un pallido ricordo, uno strano incubo, reso reale solo dalle mascherine che siamo ancora obbligati a indossare. Io, che nella scrittura e nella carta bianca ho sempre trovato conforto e amicizia, per qualche ragione, pur se incoraggiato a farlo, non l’ho cercata. Forse un eccesso di pigrizia, data da questi giorni passati in totale anonimato come fossero delle lunghissime ore, scanditi solo dalla sveglia e dal caffè mattutini e dalla sonnolenza della tarda sera, figli silenziosi di un ladro di vite ancor più silenzioso e subdolo che si è introdotto, senza essere visto, nei confini del nostro Paese, del nostro mondo. O forse l’inconscia consapevolezza di essere fin troppo “piccolo” e insignificante rispetto alle immagini e le parole trasmesse dai telegiornali: “pandemia”, “lockdown”, “il mondo si ferma”, “fosse comuni e cordogli militari” e chissà quante altre cose in questo istante mi sono sfuggite dalla mente . In ogni caso, non credo qualcuno possa biasimarmi o darmi torto per questo mio sentire, penso anzi che tutto il globo abbia provato questa sensazione. Poiché in poco tempo ogni cosa aveva perso di senso, a partire proprio dalle notizie, sempre più assurde, criptiche e contrastanti fra loro, così come le comunicazioni del governo. Tutto improvvisamente comincia ad apparire sfumato, capovolto, privo di ogni senno e logica, tanto che perfino la concezione di realtà (che da sempre impariamo a scindere da quel che vediamo in film e romanzi) diventa quanto più di aleatorio, mobile e insicuro esista su questa terra. Confondendosi ai sogni, alle storie vere e presunte che leggiamo in giro nei momenti di noia o lavoro e a ciò che sempre abbiamo bollato come impossibile, improbabile o più semplicemente come lontano da noi. Nascere nell’emisfero giusto ci ha da secoli illusi di essere immortali, ineluttabili, intoccabili; convincendoci che guerre, carestie, pandemie, rovine e catastrofi di qualsiasi genere possano appartenere solo ai libri di storia, tanto da pensare di poterle addirittura spettacolarizzare. Ma così non è. Non siamo immuni da nulla che sia presente o compaia in questo universo, e in tutte le storie che ci raccontiamo per dormire di più o di meno durante la notte c’è un fondo di verità o quantomeno plausibilità. E questa orribile verità ora si palesa di fronte al nostro mondo, che solo adesso può dire davvero di aver fatto questa scoperta. E insieme al mondo, lo scopro anche io. Io che spesso, in passato ( un po’ come tutti), ho avuto l’impressione di non trovare un mio posto in questo caos che chiamiamo esistenza; di non avere una direzione o una bussola che me la indichi.  Direzione che probabilmente è solo immaginaria o inesistente, ma che non possiamo far altro che cercare, ancora e ancora. E forse questa tragedia, che ha reso comuni tutte le mie, vostre (nostre) piccole tragedie quotidiane, tracciando una linea indelebile nelle menti di milioni di persone, come fossero dei puntini da unire, può incredibilmente divenire qualcosa di più: un simbolo di rivalsa e unità in una Terra sempre più martoriata, individualista e inospitale, oltre che inquinata. Certo, sembrerà strano che quei giorni fatti di noia, estraniamento dal mondo circostante divenuto d’improvviso deserto, e finestre come siepi leopardiane che nascondono l’orizzonte fino ad allora conosciuto trasformandolo in un’unica distesa sconosciuta priva di qualunque suono ed emozione, possano in futuro essere ricordati come un’esperienza (anche solo lontanamente) “positiva”. Ma, in fondo, si sa: come insegna la storia non è mai chi la vive a poter trarre le dovute conclusioni, noi non siamo altro che pionieri, con visioni limitate, buttati in mezzo al mare dell’avvenire senza salvagente. E un giorno saremo ricordati da coloro che saranno i veri protagonisti di questi tragici eventi: ovvero, chi avrà l’onere di preservare le nostre memorie racchiuse in parole fugaci o pagine eterne e l’onore di poter giudicare le nostre azioni, i nostri rimpianti e le nostre promesse. Perché di questo siamo fatti e di questo viviamo: promesse e rimpianti. Respiriamo per piangere e rimpiangere ciò che viene prima di noi e per prometterci un futuro migliore abbastanza bello da poter essere in egual modo rimembrato con rammarico. Che si faccia la guerra o l’amore, che si parta o si rimanga, che si rida o si pianga, l’uomo non può che essere malinconico. Forse è parte del nostro DNA o del nostro sangue essere degli eterni Ulisse e insieme degli eterni migranti. Forse lo siamo anche senza mai andarcene davvero, restando nel medesimo posto indifferenti del tempo che passa, viaggiando frattanto solo nei nostri ricordi e sogni. Si possono così raggiungere luoghi inesplorati e altrimenti irraggiungibili? Piazze e strade sempiterne ricolme di gente o sperduti paesaggi naturali incorruttibili da qualsiasi tipo di palinsesto umano? Oppure, ipotesi altrettanto affascinante, non siamo che vagabondi in continua ricerca della nostra America, della nostra terra promessa. America che, come diceva Guccini in una sua canzone, si trova sempre nella nostra città tanto “triste”, sotto i nostri piedi, in ogni istantanea creata dalla nostra mente e in qualsiasi via in cui ci ritroveremo a camminare (non quindi in qualche mondo immaginifico fatto di mirabolanti avventure). Ma se è vero che il centro del mondo è la nostra prospettiva, allora perché proviamo il desiderio di andar via? Sarà che non è il luogo in cui ci troviamo  quello che fuggiamo, bensì il nostro stesso destino? Il nostro presente? Mi pongo spesso questa domanda e spesso arrivo a questa conclusione: l’istante in cui viviamo è impervio; appare ai nostri occhi come una montagna da scalare, un nemico da abbattere. Perciò battiamo in ritirata, allontanandoci da ciò che stiamo vivendo, rinchiudendoci in qualsiasi altro pensiero che non riguardi “l’oggi“, ma ieri o magari se si è coraggiosi il domani. Parlando di questo potrei anche scrivere decine di pagine, ma non sarebbe opportuno continuare a descrivere l’indescrivibile e a narrare l’inenarrabile pretendo di poter arrivare a un fine, uno scopo, anche se sarebbe in qualche modo poetico. Quel che resta, dunque, è la consapevolezza del divenire, della linea su cui ci muoviamo giorno dopo giorno. Tutti insieme, all’unisono. Perché non c’è creatura che si sottragga a questo disegno (o scarabocchio) universale che ci tiene legati l’uno all’altro. Siamo tanti battiti d’ali di un’unica farfalla che genera cicloni in qualunque luogo esistente. E dobbiamo collaborare, cessare ogni guerra e violenza, buttare ogni casacca che ci faccia scordare il nostro essere umani e approdare finalmente sull’isola che non c’è dimenticandoci della parola “utopia”. O quantomeno fare finta che non esista. Per poterci un giorno (spero non troppo lontano) imbarcare su un’unica nave e andare a colonizzare insieme questa “America”, ingannando questa vita fatta di ingiustizie e mancanze. Facile è ovviamente dirlo, più difficile farlo, ne sono consapevole. Ma siamo in fondo anche questo: parole, su carta bianca o per aria. È necessario e lo dobbiamo prima di tutto a noi stessi. Ma soprattutto, al mondo che verrà e a chi erediterà quel che lasciamo oggi.
Antonio, 19 anni, Rossano (CS), studente di Lettere e beni culturali

Dal cielo e dai campi spuntano, come per incanto, splendidi fiori e magnifiche farfalle che rallegrano le anime tristi di molti bambini. Al tramonto un sole arancione splendeva sull’azzurro mare attraversato da bellissimi gabbiani.
Chiudo gli occhi e respiro questa libertà. Provo a immaginare tutto ciò. Brividi invisibili mi attraversano, sensazioni, profumi, il meravigliarsi davanti a un tramonto, ma mi accorgo che tutto ciò, in questo periodo difficile, può essere solo un sogno.
Vorrei svegliarmi e dire: “È stato un incubo, ora siamo ritornati alla normalità”.
Pensare troppo fa male, ma in questo difficile periodo è ciò che ci tiene vivi, la nostra testa naviga, fa dei viaggi, delle scoperte e molto spesso ci riporta nel passato.
Proviamo nostalgia, dolore, angoscia per quel passato, per quella quotidianità che ora più che mai ci manca.
Proviamo a tenere la mente occupata, ma a molti di noi viene difficile.
Ci distraiamo leggendo un libro o guardando per ore episodi di serie tv per evadere da questa realtà che ci spaventa.
Vorremmo solo guardare avanti, al futuro e dimenticare ciò che è e che è stato.
“La libertà è come l’aria: ci si accorge di quanto vale quando comincia a mancare”.
Quella che sembra la massima di una saggezza arcana, è in realtà una frase tratta da un’appassionata difesa della giovane Costituzione Italiana che Piero Calamandrei giurista, padre costituente e appassionato uomo politico, pronunciò davanti agli studenti milanesi nel 1955.
Mi ha colpito veramente tanto e penso che non c’è cosa peggiore di essere privati della propria libertà che potrebbe essere di varia natura e quella che stiamo vivendo noi, oggi, è forse quella che ci rende fragili, vulnerabili ed è difficile da dominare, a volte ti sembra di soffocare, vorresti uscire dalla gabbia in cui ti trovi.
Il “mio” 2020 avrebbe dovuto essere l’anno dei viaggi, delle nuove conoscenze, dei nuovi orizzonti, avrei voluto arricchire il mio bagaglio culturale, ma alla fine i miei progetti sono svaniti, sostituiti da un perfetto sconosciuto che l’ha fatta da padrone nella vita di tutti gli abitanti del pianeta.
Questo “mostro” ha portato tanto dolore, tanta sofferenza, ma sono certa che sia stato un periodo utile per riflettere e che sotto alcuni punti di vista ci abbia cambiati.
Saremo diversi, cambieremo modo di guardare le cose e le persone, daremo un altro valore al tempo e lo apprezzeremo di più, osserveremo ogni dettaglio, ogni particolare e sapremo ancora meravigliarci e magari noteremo cose che prima non avremmo notato.
Vivremo in modo diverso e sarà più bello di prima.
“Finirà anche la notte più buia e sorgerà il sole” (Victor Hugo).
La speranza che tutto possa ritornare meglio di prima Victor Hugo, con questo pensiero, lo esplicita nel miglior modo possibile.
Io lo vivo osservando i miei nipoti, la dolcezza dei loro occhi che si riempiono di gioia quando incontrano i miei, mi stringono forte forte e i pensieri negativi si estinguono. Sono offline e respiro di nuovo.
Eliana, 19 anni, Sant’Onofrio (VV), Studentessa di Lettere e Beni Culturali

 

È la sera del 9 marzo e ci ritroviamo tutti inermi davanti a un televisore; il premier Conte enuncia che è arrivato il momento di chiudere, l’Oms dichiara l’emergenza sanitaria. Siamo costretti a rinchiuderci nelle nostre case senza avere contatti con gli altri; le luci dei negozi si spengono tranne quelle dei servizi di prima necessità. Fa paura anche solo guardare fuori dalla finestra, fa paura il contatto, un abbraccio, fa paura la vita. Ci continuiamo a ripetere “perché proprio a noi?”, consapevoli inconsciamente di doverselo aspettare l’imprevedibile. Sono giorni in cui il terrore fa da sfondo, idee, confronti, verità amare, bugie e giudizi si scontrano, si punta il dito verso gli altri, “sbaglia chi gestisce la situazione” , “sbaglia chi governa” , “si doveva fare altro e meglio” sento dire da chiunque, anche da chi non ha un minimo di competenza per poter parlare. È tempo di partire da noi stessi. Noi potevamo fare altro nel nostro piccolo, noi che abbiamo dato per scontato quel tempo mai abbastanza, quell’abbraccio che a volte quasi infastidiva, le chiacchiere e il caffè che ormai erano abitudine. La nostra casa che ha sempre rappresentato il nostro posto sicuro, oggi non è altro che una casa, quasi estranea, riscopro oggetti, cuscini, fotografie sempre stati nello stesso posto a cui non avevo mai fatto caso, ogni angolo diventa una scoperta. Il tempo sembra essersi fermato, eppure questo lungo tempo ci ha reso coscienti delle cose importanti e ha eliminato il superfluo. Mi chiedo “quando torneremo alla normalità, cosa cambierà?” e non riesco a trovare una risposta a questa domanda, cambierà tutto, cambierà poco o forse niente. Questa pandemia mi ha tolto ma ha dato tanto, mi ha dato il tempo di riflettere sui miei valori e ribaltare finte certezze, passare il tempo con la mia famiglia, riscoprire passioni, imparare cose nuove. In questo momento così delicato il ricordo è importante, da tutta questa situazione dobbiamo imparare a ricordare per non permettere che riaccada e ci trovi impreparati, per dare importanza a quel passato che, purtroppo, o, per fortuna, fa parte di noi e ci ha portato alle persone che siamo oggi. In questo periodo ho pensato molto ai miei nonni paterni che non ci sono più, alla loro presenza così importante per me, ai loro sorrisi, consigli e aneddoti, al loro entusiasmo in ogni cosa che facevano, alla loro ospitalità e al loro farsi volere bene da tutti. In questo periodo ho sentito parlare molto di presenza e ho capito che la presenza la si può trovare in qualsiasi forma e aspetto, in un paesaggio, in un oggetto, in una foto, in un luogo, in un ricordo. La vita dà e toglie e da qualsiasi esperienza dobbiamo imparare a cogliere il meglio, anche quando non si intravede quella luce in fondo al tunnel.

Chiara, 19 anni, Bisignano (CS), studentessa di Lettere e beni culturali

 


Ho sempre amato il mio piccolo paese. Fin da piccola ero certa, sicura, che il mio mare, il mio sole, i miei colori fossero inimitabili e inconfondibili. 

Vedevo la gente gioire in piazza, passeggiare per i mercati settimanali, lavorare i campi sotto al sole, ho sempre pensato che uno scenario così non potesse morire facilmente. 

Mi ricordo da bambina quando mi svegliavo la domenica mattina alle sei per accompagnare mia nonna e mio nonno al mercato. Loro vendevano le olive e i formaggi e io facevo finta di aiutarli, perché sapevo che la nonna mi avrebbe regalato uno di quei giochini che si vendevano alle fiere. Ed io ero davvero tanto felice, così come loro. Per loro vendere qualcosa fatto con amore e dedizione a casa non era solo proficuo, ma gratificante. 

Ricordo quando qualche anno fa mia nonna mi disse: “Marì io e nonno siamo vecchi ormai, la gente non compra più, è tempo di chiudere”, queste parole mi hanno stravolta, forse non le capivo, forse non me le aspettavo. 

E da quel giorno tutto è cambiato. 

I mercati si prosciugavano lentamente, fino a diventare oggi sei o sette bancarelle e vedevo a stento la domenica poche persone che giravano per la piazza. L’unica cosa che ancora oggi riesco a vedere, sono le famiglie che lavorano con fatica la terra sotto il sole, non è uno scenario fantastico, ma ha il potere di farmi ricordare quei momenti del passato che non torneranno più, un po’ come la pasta patate e “vajane” del mio bisnonno, quanto mi manca.

Cos’è successo? 

Sono partiti tutti, chi parte in Canada, in Germania, in Svizzera e chi rimane qui partendo lo stesso, perché è come vivere in un posto che non senti più tuo. 

Mio zio e tutta la sua famiglia vive in Ontario, in Canada, io e mio fratello due anni fa, abbiamo preso per la prima volta un aereo e siamo andati a trovarli. Vi sembrerà strano, forse lo è, ma appena siamo arrivati a casa di mio zio Nicola mi sembrava di sentire l’odore di casa. Due paesi così lontani, eppure con una cosa importante in comune, i paesani. Ne ho incontrati tanti, che nemmeno ricordavo, che forse non avevo mai conosciuto. 

La cosa sorprendente è che tutti quelli che abbiamo incontrato ci hanno raccontato di quanto gli mancasse l’Italia, la Calabria, i fichi e le salsicce, ma anche di quanto si fossero straordinariamente adattati in un nuovo mondo, ormai loro. 

Dopo un po’ di anni continuo ad amare il mio piccolissimo paese, lo continuo ad apprezzare, a coccolare, a volta in cuor mio spero di poter rimanere qui, a volte spero che un giorno ritornino le olive della nonna e i suoi mercati. 

Amo restare, ma vorrei partire. Amo partire, ma vorrei restare.

Maria Carmela, 19 anni, Longobardi (CS), studentessa di Lettere e Beni culturali. 

 


 

La pandemia che ci ha colpito in questi primi mesi del 2020 ha inevitabilmente cambiato le nostre vite, le nostre abitudini. Il Coronavirus è un nemico invisibile che si trasmette a una velocità incredibile e non risparmia nessuno. Questo nemico ha portato effetti negativi sulle nostre economie, niente più scuola, lavoro, niente assembramenti per paura del contagio, è stato vietato incontrarsi, uscire dalle proprie case e anche un semplice abbraccio è stato negato.

 In questi mesi abbiamo lasciato alle spalle il freddo inverno e la natura ha cominciato a sbocciare scaldata dal tepore della bella stagione, ma fino a poche settimane fa non abbiamo potuto godere delle tiepide giornate primaverili. Io sono stata chiusa in casa dal 22 febbraio e non sono mai uscita se non dopo il 18 maggio, per incontrare i miei familiari e qualche amica.

Durante la quarantena le mie giornate erano tutte uguali: sono una ragazza che preferisce organizzare nel dettaglio cosa fare, quindi ogni giorno seguivo le lezioni on line; nelle ore libere sistemavo i miei appunti e la sera mi rilassavo guardando un film. O meglio, tentavo di rilassarmi. Da qualche anno soffro di ansia e di attacchi di panico e questo virus mi ha anche creato dei disturbi del sonno. Io non ho un buon sistema immunitario, sono soggetta a prendere le infezioni più facilmente rispetto ad altre persone e questo virus maledetto mi ha portato a stare ancora più attenta all’igiene, ormai sono quasi ossessionata.

Osservavo le strade del mio paese da dietro la finestra e sentivo un silenzio che mi rattristava. I giorni passavano e io mi sentivo sempre più vuota. Il sentimento prevalente era la mancanza, mancanza della mia libertà, dei miei colleghi, delle mie piccole abitudini. Vero è che ci si accorge della bellezza delle piccole cose quando non le si hanno più.

Ogni giorno aspettavo con ansia la comunicazione del bollettino regionale sui nuovi positivi, decessi e guariti e li segnavo su un quadernino. Volevo avere la situazione sotto controllo. Quando i numeri erano alti mi abbattevo e ripetevo sempre che non ne saremmo mai usciti, quando i numeri finalmente iniziavano a scendere era la speranza a prevalere. Ricordo che il primo giorno che la Calabria ha registrato 0 casi positivi, ho pianto perché non avevo mai considerato quel numero importante, ma in questa situazione è il numero più bello da leggere e pronunciare.

Unica nota positiva delle settimane di quarantena è stata la famiglia. Io vivo con mia madre e mio fratello ma studio a Rende e mio fratello lavora a Reggio Calabria, quindi non ci vediamo molto. Abbiamo approfittato della convivenza forzata per stare vicini alla nostra mamma e molte ore le abbiamo passate in cucina a fare dolci, pizze. Era un modo per passare il tempo e per coccolarci un po’.

La fase in cui siamo adesso ci ha in parte restituito la nostra libertà, ci ha permesso di uscire e passare del tempo con i nostri amici, di prendere un caffè al bar, di poter andare a vedere il mare e a fare una passeggiata. Io ad oggi, sono uscita 2-3 volte, ancora ho molto timore, pur usando la mascherina e mantenendo il distanziamento sociale. Mi sono accorta che le relazioni sociali sono cambiate, una conseguenza inevitabile dopo essere stati isolati in casa senza rapporti con il mondo esterno.

Vivo nella speranza che questo virus possa renderci persone migliori, che ci abbia insegnato che dobbiamo apprezzare le cose belle quando le abbiamo e non quando non le abbiamo più. Che ci abbia insegnato che dobbiamo fare nella nostra vita ciò che ci piace, che riteniamo giusto. Che dobbiamo fare quel viaggio, comprare quella cosa che tanto ci piace, prendere quel caffè con un’amica che non vediamo da tempo, chiarire un litigio col fidanzato, perché il tempo è prezioso per sprecarlo e non si sa mai quello che può succedere da un giorno all’altro.

L’augurio che ci faccio è di riuscire a riprendere in mano la nostra vita e abbandonare la paura, rispettando tutte le disposizioni; ce la faremo.

Maria Teresa, 31 anni, Girifalco (CZ), Corso di laurea in Scienze dell’educazione


 

Provengo da un paesino in provincia di Reggio Calabria, ovvero San Nicola dei Canali.
Anche qui, purtroppo, stiamo affrontando una crisi senza precedenti, un periodo che porta a perdere le certezze, a temere l’altro, visto come un pericolo, un qualcuno che può contagiarci e renderci vulnerabili.
Io, come molti altri miei coetanei, sto trascorrendo questi mesi a casa, con la mia famiglia, nel mio piccolo paese, di appena 300 anime, privo di supermercati, eccetto un minimarket ed un bar di proprietà della mia famiglia. Spendo qualche parola per descrivere il luogo in cui vivo e al quale sono particolarmente affezionata; è un tipico borgo di collina, dal paesaggio erboso, distante dal mare 9 km; la chiesa è situata al centro, e circondata da case attaccate l’un l’altra, qui ci si conosce tutti, ed è impossibile non sentirsi al sicuro; se si nota un qualcosa di anomalo, viene avvisato ogni abitante.
Da quando, però, la pandemia ha avuto inizio, parecchie cose sono cambiate, non ci sono più i pranzi della domenica durante i quali tutta la famiglia si riuniva a consumare un corposo pranzo, e gli anziani, che sono presenti in gran numero, sono soli, non potendo vedere i figli, o i nipoti, che temono di contagiarli, mettendoli in pericolo. Risulta doloroso non poter più udire le campane festose della domenica mattina, non potersi recare in piazza, specie in queste prime giornate di sole e non vedere i vecchietti fare la partita al bar il pomeriggio. Ma ciò che mi è mancato di più, a causa di questa crisi senza precedenti, è stata la Pasqua, poter partecipare ai riti della Domenica delle Palme, durante la quale vengono benedetti i ramoscelli d’ulivo, che verranno conservati per tutto l’anno liturgico; respirare la particolare atmosfera della Settimana Santa, un periodo di forte lutto per i cristiani, che porta a riflettere, a ricordare chi non c’è più. Ma ci siamo rifugiati nella memoria, nel ricordare quei riti a noi tanto cari, la Lavanda dei piedi del Giovedì Santo, e la Via Crucis il giorno seguente, che coinvolge tutta la comunità in una processione solenne, avvolta nel silenzio ed illuminata dai ceri accesi di ciascun partecipante, che si recherà verso il calvario, dove, mentre il sacerdote, aiutato da un megafono recita le vicissitudini dell’ultima stazione, Gesù verrà messo in croce. Passeranno due giorni, durante i qual i fedeli sono invitati alla riflessione e all’introspezione, e arriverà Pasqua: una giornata particolare, un giorno di rinascita, l’inizio di un nuovo anno liturgico.
Sin dalle prime luci del mattino, è possibile udire le melodie festose emesse dalla banda del paese, che percorre le vie del borgo, fino alle 10:30, quando ha inizio la Santa Messa, con conseguente “Affrontata”. Quest’ultimo è un rito durante il quale le due statue, della Madonna, avvolta da un manto nero (simbolo di lutto) e di Cristo Risorto, si ritrovano dopo la crocifissione e conseguente morte di Gesù, avvenuta il venerdì precedente. Le due statue, inizialmente lontane, vengono fatte riavvicinare dagli uomini che le caricano sulle proprie spalle, e con passo svelto, le portano l’una verso l’altra a suon di tamburi, creando un’atmosfera magica. Durante la corsa, alla Madonna viene levato il manto nero, mettendo in risalto il suo maestoso abito celeste, e i due si incontrano al termine della corsa, e vengono incoronati da un fedele molto devoto, tra lacrime, applausi, e a suon di trombe e tamburi, che accompagneranno la processione, fino al suo termine, con il rientro in chiesa. Dopo la celebrazione ognuno si recherà dai propri parenti, consumando un pranzo abbondante, al seguito del quale vengono scambiate uova di Pasqua, dolciumi vari, e soprattutto le “Gute” un dolce tipico, la cui assenza non è ammessa.

Tutto ciò mi è mancato, il calore delle tradizioni, e soprattutto la paura di perdere queste, di non tornare presto alla normalità e dover far a meno di tante altre festività. Nel mio piccolo, però, mi ritengo fortunata perché, dietro casa mia, vi è un piccolo sentiero isolato, grazie al quale posso dedicarmi a lunghe passeggiate tra grandi distese di terreno. In casa cerchiamo di tenerci tutti occupati, io preferisco mettere in ordine, leggere, studiare e sperimentare nuove ricette con mia madre e le mie due sorelle, tra pane, pizza e torte varie.
Anche se all’interno del mio comune non vi è alcun contagiato, uscire non è sicuro: il mondo esterno, il mio luogo, che prima sembrava il più sicuro e amabile, è oggi temibile, rischioso, e in casa non si parla d’altro: “quando finirà tutto?” “Quando riapriremo il bar?” “Chissà con quali restrizioni!”
Con gli amici, i parenti, comunichiamo tramite smartphone, videochiamate, chiedendoci quando sarà possibile riabbracciarci senza paura.
Ma la paura svanisce, quando sento il profumo del pane che cuoce nel forno a legna, o guardo il mare lontano nelle giornate di sole, capendo che ho la ricchezza più grande, i miei genitori e le mie sorelle, un pasto caldo fa consumare, e nessun contagiato in famiglia. Questa situazione ci mette di fronte alla vera fortuna: non dover provare l’angoscia di separarsi da un proprio caro senza alcuna cerimonia funebre, senza una degna sepoltura, o una benedizione; poter gustare i pasti in armonia, senza doversi preoccupare di non aver del cibo per il giorno successivo.

Giusy, 19 anni, San Nicola di Canali (RC), studentessa del corso di laurea in Lettere e Beni Culturali

 


 

Questa quarantena ha suscitato in me parecchie emozioni, che credo abbiano reso questi mesi costruttivi per l’animo; è stato meraviglioso riassaporare l’amore per le cose fatte con calma, passare interi pomeriggi a curare il giardino, e ad impastare la pizza per la sera, senza curarsi del tempo che scorre, o della fretta, che ci rende schiavi e impedendoci, talvolta, di godere di quei preziosi attimi in compagnia della famiglia.

Il ritorno alla ‘normalità’ sarà difficile su diversi piani, ci sarà timore, paura dell’altro, e contemporaneamente si spererà di uscirne migliorati, più maturi, pronti a vivere nel rispetto degli altri e di noi stessi.

Il Coronavirus, oltre ad interessare gran parte delle nazioni del nostro Pianeta, ha colpito l’Italia in maniera energica, causando enormi conseguenze sul piano economico, sanitario e sociale.

Le misure poste in essere dal Governo Italiano, al fine di contenere il contagio, hanno dato origine a forme di socialità del tutto differenti, a modi di vivere che hanno subito profonde modificazioni rispetto a prima che si manifestasse e propagasse il Coronavirus: l’esigenza di evitare incontri e assembramenti, il ricorso alla tecnologia per favorire le comunicazioni e continuare, per quanto possibile, con le attività lavorative tramite Smart working, l’impossibilità di spostarsi e di circolare sul territorio nazionale da cui consegue inevitabilmente la relativa limitazione delle libertà individuali, hanno in pratica cambiato la nostra vita e il nostro modo di interagire con gli altri. Naturalmente anche io non sono stato immune dalle conseguenze derivate da una tale pandemia.

In qualità di studente universitario, ho sostenuto esami e seguito lezioni “a distanza”, attraverso un semplice computer, rinunciando così al confronto diretto con i docenti e con i colleghi; ma ho dovuto fare a meno di uscire con gli amici, di incontrare gli affetti più prossimi, lontano quindi da una stretta di mano, un abbraccio, un bacio, un sorriso e spostando i miei sentimenti online, sulle chat, in videoconferenza. Ci sono stati anche momenti socialmente unificanti, abbiamo cantato e suonato sulle terrazze delle nostre case, ho riscoperto il piacere di suonare uno strumento, cosa che non facevo da quando suonavo nella banda del mio paese.

In altre parole, ho vissuto e provato il senso della solitudine, ma anche dell’insicurezza e della fragilità. Il Coronavirus mi ha privato della mia passione, la fotografia, che da sempre mi accompagna e che mi consente di esprimere me stesso attraverso dei semplici scatti, dal virus “rubati”, insieme a tutti i momenti che difficilmente riuscirò a recuperare.

L’esperienza della pandemia, tuttavia, mi ha fatto molto riflettere e portato a diverse considerazioni: in primis ho rafforzato l’idea secondo cui l’essere umano, dinanzi alla potenza della natura, si mostra in tutta la sua fragilità. L’uomo non è in grado di poter controllare e dominare ogni cosa.

È bastato un “essere invisibile” per mettere in ginocchio l’intero sistema economico e sociale del nostro Paese, per cambiare radicalmente la nostra vita e le nostre abitudini. Ho compreso, inoltre, che siamo tutti nella stessa situazione, nessuno escluso.

E ancora questo virus ci ha ricordato che occorre avere più rispetto dell’ambiente in cui viviamo e, soprattutto, ci ha insegnato che esistono dei limiti oltre i quali non si può andare, ossia è inconcepibile che gli interessi economici possano prevalere sulla salute e sopravvivenza umana, nonché sul rispetto dell’ambiente che ci circonda.

Gianluigi, studente di Lingue e Culture Moderne

 


 

IL MONDO SI FERMA: TRA PAURE E OPPORTUNITA’

In questi mesi siamo stati colti alla sprovvista da questa epidemia di cui ancora disconosciamo l’origine certa. In tutte le reti televisive si parlava del Covid-19, contagi, morti, di supermercati presi d’assalto, scaffali vuoti, quasi come in un bollettino di guerra… non c’era spazio per altro in tv , un bombardamento psicologico, con lo scopo sì, di fare informazione, ma, a mio avviso, questo giornalismo non ha tenuto conto delle conseguenze: penso alle persone anziane che abitano da sole, che lottano ogni giorno contro gli acciacchi del tempo e che guardano e ascoltano la tv come momento di svago, quasi come un modo di rilassarsi dopo una vita colma di sacrifici e fatiche, anziani che apprendono notizie di cronaca nera in modo amplificato, le novità che oggigiorno la nostra società apporta, in  modo diverso, più diffidente, rimanendo legati e “intrappolati” in un’ottica del passato. Penso che, per loro, non sia stato per niente facile ascoltare notte e giorno notizie di questo nuovo, pericoloso virus, considerando il fatto che loro rientravano nella categoria dei più esposti al rischio, dei più vulnerabili… anche se onestamente, non lo è stato neanche per me. Ogni giorno, con la mia famiglia, con i miei amici, si parlava solo e soltanto di questo, dell’aumento dei contagi, delle cosiddette “zone rosse”, “zone gialle”, con la paura che l’indomani potesse toccare a noi. Penso che tutto questo ci cambierà in modo del tutto irreversibile; costui, il coronavirus, ha già cambiato le nostre abitudini, costringendoci, anche per paura, a prestare sempre più attenzione all’igiene perché tutto quello che tocchiamo, i luoghi che visitiamo, possono essere pericolosi e/o portatori di contagio. Penso, ma non esistevano mica nei periodi di pestilenze e pandemie del passato gli igienizzanti per le mani?!

Certo, i tempi cambiano, per fortuna e non.

Cambierà anche il modo con cui ci relazioneremo agli altri, con l’obbligo di rispettare le distanze tra le persone e per noi, gente del sud, che siamo calorosi, affettuosi con tutti, ci costerà tanto non poter dare un abbraccio, il contatto umano che rasserena, che ti scalda il cuore perché a volte è meglio un abbraccio piuttosto che mille parole… questo sembra oramai esser diventato un tabù!

Le misure di contenimento sociale hanno limitato anche le nostre libertà personali: posso, possiamo uscire di casa solo in caso di necessità; devo, dobbiamo lavorare da casa in modalità smart working, così le occasioni di socialità e convivialità sono solo un ricordo del passato. Penso anche alla celebrazione dei riti funebri, che qui da noi sono considerati, anche se con dolore, dei momenti per stare insieme, per unirsi alla famiglia del defunto e condividerne il dolore e al solo vedere in tv quelle salme trasportate sui carri armati,  mi rattristo, penso al dolore dei familiari che non potranno dare l’ultimo saluto ai propri cari, alla cicatrice che questo lascerà nel loro animo.  Sento il suono delle campane della chiesa del mio paese, campane che con i loro rintocchi  rappresentano gioia, dolore a seconda delle circostanze, che richiamano i fedeli alla preghiera, fedeli che ora si sentono delle pecorelle smarrite perché non possono recarsi nel luogo di culto.

Abbiamo, tutti noi, dovuto riorganizzare i nostri tempi e i nostri spazi, personalmente ho provato sentimenti contrastanti: da un lato un senso di angoscia, di prigionia che mi opprime e mi costringe a stare recluso in casa, ma d’altro canto mi sento tranquillo perché sono a casa mia, con la mia famiglia ed è quello che tutti vorrebbero e che purtroppo per svariati motivi, non possono avere. Sento per telefono i miei amici che abitano fuori regione, da soli, costretti a stare in una casa che non è per loro, la “vera” casa ed io mi ritengo fortunato, non posso lamentarmi. In questa condizione di “reclusione forzata”,  riscopro il valore di stare in famiglia, apprezzo il silenzio che ascolto dalla mia finestra e apprezzo anche la noia che mi costringe a escogitare modi per trascorrere le mie giornate.

Prima andavo sempre di fretta, ora il tempo sembra essersi fermato, paralizzato…ma in questo, ho riscoperto però, il piacere di leggere un buon libro, di frequentare le lezioni universitarie, seppur a distanza, come mai prima avevo potuto fare perché il mio lavoro non me lo permetteva. Ho riscoperto anche i sapori di un tempo, preparando insieme a mia madre ad esempio, il lievito madre, il pane,  rispolverando l’antica ricetta dei nonni.

In conclusione, questo periodo drammatico per l’intera umanità che mai nessuno scorderà, ci ha forse dato anche una lezione di vita, per ricordarci, citando Seneca, che il tempo è prezioso e noi uomini non siamo abbastanza consapevoli di questo; dovremmo sforzarci, quindi, di utilizzarlo in modo tale da viverne veramente fino in fondo ogni singolo istante.

Nicola, Colosimi (CS), studente del Corso di laurea in Scienze Turistiche

 


 

Mi affaccio dal balcone di quella che era  la casa di mia nonna e della sua famiglia. Guardo i terreni messi a coltura tinti di  giallo e verde,  le stradine che li attraversano, i casolari in pietra abbandonati, il nuovo abitato “alla marina” e il mare all’orizzonte. Un mare così azzurro che si confonde quasi con il cielo se non fosse che per quelle poche nuvole bianche. Mi era mancato tutto questo. Il lockdown è finito da un po’ e mai come in questo periodo ho sentito il bisogno di tornare in paese. Catanzaro è bella, c’è la mia casa, i miei genitori, i miei affetti… ma non è come Cropani. A volte mi chiedo quale sia davvero la mia casa. Penso alla casa in paese alla quale sono molto legata, a quella casa di Catanzaro che, in questi mesi, mi è sembrata una prigione più che un posto dove riposarmi una volta tornata dall’università, e alla casa di Cosenza che condivido con un’altra persona. Per me casa sono tutti questi luoghi perché casa è qualsiasi posto in cui mi senta a casa. Cropani, ad esempio, è il mio luogo della memoria delle cose passate e di quelle future. Penso all’infanzia e alle feste a casa dei nonni con tutti i parenti e i cugini, ai giochi in strada, alle esplorazioni, all’odore del caminetto e delle crespelle, agli amici, alla morte, agli amori estivi, alle cene nei magazzini, al restare in giro fino a tardi, alle campagne, alle chiese, ai pettegolezzi, alle albe e ai tramonti, ai vicini, alle Madonne nelle “vinelle”, alle campane, all’odore di casa di mia nonna, alle polpette fritte nel magazzino…

Quando sono qui riesco a ricordare e a far rivivere nel luogo della mia memoria queste cose e subito vengo rapita da una sorta di nostalgia. Lo stesso accade quando sono lontana da qui e cerco di rimettere insieme i pezzi per ricordare e per creare nuovi ricordi.

Questi ultimi mesi sono stati davvero difficili per me. All’inizio non riuscivo a mettere a fuoco la situazione ed era come se nella mia testa stessi rifiutando l’idea di una catastrofe mondiale. Dicevo solamente a me stessa di stare a casa. Una volta finita la reclusione ho avuto paura di uscire e di incontrare persone a me care senza poterle abbracciare. Lì ho capito di quanto fosse grave quello che stava succedendo e quanto ci stesse toccando da vicino. In città ho visto tanta incoscienza, tanto disinteresse e menefreghismo. Piano piano ho cercato di superarla, ma in città è tutto diverso da qui. Oltre al luogo in sé, ai ricordi e alle esperienze e ai rapporti con le persone, anche il modo di vivere queste situazioni di emergenza. Il paese è sempre una grande famiglia, un posto in cui ci si aiuta anche quando ci sono antipatie e altre invidie. A volte mi sembra di vivere tante vite quante sono le persone e i luoghi che ho frequentato e abitato. Nel periodo storico che stiamo vivendo, qui a Cropani mi sento protetta, al sicuro. Certo, è stato bello rivedere gli amici e andare in giro per la città a vedere quanto tutto fosse cambiato, ma qui mi sembra tutto come lo avevo lasciato anche se non è così, anche se sono consapevole di essermi persa tante cose. Non riesco a pensare ad un futuro senza questo posto fisico e della memoria, senza queste persone, senza queste terre e senza quello che provo quando sono qui e quando sono lontana da qui. Questo periodo mi è servito veramente per capire qualcosa in più di me stessa e dei posti ai quali appartengo, degli affetti e di tutte quelle piccole-grandi cose che appartengono alla mia vita.

Valentina, 19 anni, Cropani, studentessa di Lettere e beni culturali

 


 

TEMPESTA INASPETTATA

‘Spirutu Santu meo datimi aiutu
mu mi risvijjiu stu senzu nzenzatu’

Così reciterebbero le vecchiette del mio paese, riprendendo un antico canto dialettale; un inno che consiste in un’invocazione dello Spirito Santo al fine di dare la forza a tutti noi per risvegliarci dall’incubo che ormai – da alcune settimane – è dominante e presente nella nostra vita.  Le sensazioni vissute durante il periodo di quarantena sono state le più svariate; infatti, ho alternato da una parte, momenti di sconforto e di negatività; dall’altra, invece, momenti di positività e di forza interiore. Ho trascorso la maggior parte del mio tempo in casa con i miei genitori e le mie sorelle, ho scambiato diverse opinioni e ho riflettuto molto; prima questo non accadeva con frequenza, dal momento che, tutti, io compresa, eravamo proiettati su una vita frenetica e caotica. Questa situazione, però, ha creato in me diverse preoccupazioni: sono una persona particolarmente ansiosa, ho paura fortemente della morte e mi spaventa un sacco il futuro e, pertanto, il non poter uscire da casa, neanche al fine di fare una passeggiata, mi ha creato angoscia. È un momento molto difficile e particolare per la Storia del nostro Paese, un momento che sicuramente nessuno di noi se lo aspettava perché la nostra generazione non è abituata a questa tipologia di eventi, però sicuramente potremmo raccontarlo e farne memoria per i nostri figli e per i nostri nipoti e dire loro quanto abbiamo sperato e pregato affinché questo dolore passasse. In questi giorni mi sono venuti in mente i miei nonni – la parola “ricordanza” del libro ‘Pietre di Pane’ è stata fondamentale per evocarli -, i quali hanno sopportato la guerra; soprattutto sto ricordando i racconti tragici su ciò che ha vissuto mio nonno “Ciccio” in Germania e capisco che, ancorché questa situazione di isolamento non sia facile, sicuramente è molto più semplice di quello che ha vissuto lui. Quello che ci viene chiesto è di stare a casa, di fare uno sforzo per riabbracciarci più forti che mai un domani e dobbiamo rispettarlo tutti, perché solo uniti possiamo farcela.

Durante la giornate, ovviamente alterno momenti sì e momenti no. Il periodo per me più tragico è sicuramente la notte, in quanto è il momento della giornata in cui i pensieri riaffiorano e si fanno più vivaci rispetto a quanto ascoltato durante la giornata. I telegiornali molte volte evito di guardarli perché ormai non trasmettono altro che notizie negative; dall’altro canto, quando sono curiosa di capire che sta accadendo nel mondo, accendo la tv e spero sempre che il giornalista mi guardi e con un sorriso mi dica che i contagi siano finiti e che non ci siano più morti. I morti sono tanti, troppi. È ingiusto tutto ciò che sta accadendo al nostro popolo, è ingiusto ed amorale una morte di tale genere. La morte è il momento più brutto della vita soprattutto per i propri cari ed impedire – seppur al fine di evitare ulteriori contagi – di dare una giusta sepoltura, un giusto cordoglio ed un giusto rito mi rende molto triste. Penso che non si possa e non si debba morire così, spero che tutto ciò finisca sia con l’aiuto di Dio che con quello dei medici ed infermieri. Non ricordo precisamente il giorno, perché ho perso la contezza in questo periodo, ma la scena che racconterò ai miei figli e che mi ha fatto commuovere è stata vedere la colonna dei mezzi dell’esercito portare via le bare dal cimitero al limite della capacità; penso che una scena del genere non la scorderò mai più. Sarà altrettanto difficile da dimenticare la testimonianza di una nostra concittadina di Bergamo, che ha affermato che l’unico rumore che sente, ormai da troppe settimane, nella propria città è quello del suono delle campane a morte. Una scena molto triste e da brividi.

Sono demoralizzata, ma allo stesso tempo incoraggiata da mia madre – infermiera professionale presso l’ospedale di Vibo -, perché quando rientra da casa leggo nei suoi occhi angoscia e stremo, ma allo stesso tempo è proprio lei che mi incita a stare meglio e a pensare positivo, perché il lavoro dei medici, degli infermieri è fondamentale in un tale momento storico. Penso che siamo stati catapultati in un mondo diverso, credo che Dio, la natura si stiano ribellando: leggendo le svariate notizie, mi ha colpito particolarmente l’immagine dei Navigli – deserti- ma colmi di animaletti, nonché l’immagine delle acque di Venezia – cristalline – ma colme di delfini. Queste fotografie testimoniamo che, se da un lato, gli uomini hanno dato un freno alla propria vita caotica e movimentata; dall’altro, gli animali, invece, stanno cercando di riappropriarsi della natura e della quiete, che da tempo – presso le strade- non si sentiva più.

Da settimane sembra che sia scesa la sera, fitte tenebre si sono addensate sulle nostre piazze e città; si sono impadronite delle nostre vite riempiendo tutto di un silenzio assordante e di un vuoto desolante, che paralizza ogni cosa al suo passaggio: si sente nell’aria, si avverte nei gesti, lo dicono gli sguardi. Come i discepoli del Vangelo siamo stati travolti da una tempesta inaspettata e furiosa. Siamo smarriti e spaventati. Ci siamo resi conto di trovarci sulla stessa barca, tutti fragili e disorientati, ma nello stesso tempo importanti e necessari a remare e a confortarci gli uni con gli altri. Come quei discepoli che dicono, in preda all’angoscia, “Siamo perduti”, così anche noi ci siamo accorti che non possiamo andare avanti da soli, ma solo insieme e attraverso la fede.

Un silenzio assordante traspare dalla finestra della mia camera: le macchine non sfrecciano più con la stessa velocità e frequenza e l’unico suono che riesco ad ascoltare – seppure abito su una strada provinciale- è il cinguettio degli uccelli, l’ “ululato” dei cani ed il miagolio dei gatti. Ho iniziato a rendermi conto che si può ascoltare il silenzio ed imparare da esso; ha una qualità ed una dimensione tutta sua; infatti, il mistero del silenzio non fa mai lo stesso rumore. Cerco di concentrarmi su altro, in particolar modo, dedico molto tempo allo studio, alla lettura di libri, alla cucina, alla pasticceria e guardo anche serie televisive. La mancanza che sento maggiormente è quella delle mie amiche, mi manca la loro spensieratezza e la loro allegria, mi mancano le passeggiate, le uscite al cinema o al ristorante anche se tramite la tecnologia e le videochiamate accorcio fortemente le distanze. Non sono una persona molto espansiva; infatti sono sempre molto restia agli abbracci, ai baci ma non vedo l’ora che tutto ciò finisca per poter fare quello che di più semplice esiste: abbracciarsi e stringersi le mani. E come se la mia vita, quella dei miei genitori, quella dei miei amici, quella di tutti in generale si fosse fermata. Credo che la maggior parte delle persone vivono nella mia stessa situazione e penso che – anche se del futuro non vi è certezza – questo avvenimento ci cambierà particolarmente nella vita di relazione: avremo paura ad uscire di casa per un ritorno di contagi, avremo paura a fare le cose più normali, ad abbracciarci e a stare tutti insieme. Spero però che tutto questo, quando finirà rimarrà solo un brutto ricordo e mi auguro che quando questo nemico silenzioso e distruttivo verrà abbattuto, ognuno di noi riprenderà la propria vita in mano. La settimana Santa è stata vissuta con molta fede, ma al contempo con molta angoscia: quest’anno, infatti, per la prima volta non è stato celebrato il rito dell’ “affruntata” – che raccoglie molti fedeli di ogni paese della provincia e che viene celebrato in piazza, dove Maria Addolorata, Gesù, San Giovanni vengono trasportati a spalla per simboleggiare la resurrezione di Cristo. La Statua di San Giovanni fa la spola tra le altre due, con passo sempre più veloce, come messaggero della resurrezione. All’ultimo passaggio si incontrano correndo davanti a Gesù sia San Giovanni sia l’Addolorata e all’incontro il velo nero del lutto viene tolto dalla statua di Maria, concludendosi con “l’abbraccio”. Anche se quest’anno tale rito non avverrà, mi auguro che nelle menti e nei cuori di ognuno di noi ci sarà ugualmente la risurrezione, affinché Cristo ci dia la forza per superare tutto questo e per far sì che anche noi – così come Gesù e Maria – presto potremo riabbracciarci.

Jessica, 23 anni, studentessa di lettere e beni culturali, Vibo Valentia

 


 

Riaffiorare, insieme

Per chi suona la campana? Ascoltiamo, in silenzio, il melanconico suono che accomuna anime, vite vissute. Il suono è comune, anonimo, a stento si distingue l’identità di chi non c’è più. Si confondono corpi, vite non più in vita, si confondono lacrime in un cordoglio comune, si confondono speranze, profondi sospiri di sollievo per chi ce l’ha fatta, ma anche pietosi sospiri per chi invece ha perso, per chi è stato inghiottito dalla catastrofe. La morte è cieca. L’inatteso numero di luci che si spengono appesantisce l’animo di una collettività intera, unita nella distanza. Che tempo è questo? così ostile?
La nozione di ‘tempo’ è una delle nozioni più complesse da chiarire. Il tempo è immateriale, è astratto, è una variabile che si sviluppa lungo una traiettoria continua, lineare, senza ritorno, in avanti, verso ‘quel che accadrà’; noi viviamo in funzione del tempo, oltre che dello spazio – con il quale familiarizziamo, rendendolo luogo -, il nostro essere è totalmente radicato nel tempo. Due sono le relazioni che si possono instaurare con quest’ultimo: o una relazione di armoniosa convivenza, un rapporto bilaterale, pacifico, di intesa, una relazione in cui il tempo è inteso come principio vitale; altrimenti una relazione unilaterale, ‘egoista’, scontrosa, detestabile, in cui la vita diviene pasto del tempo, un tempo in cui esistiamo solamente, un tempo che ci trascina nel suo increspato ondeggiare. In quest’ultimo caso il nostro essere si de-spiritualizza, rimaniamo corpo, pura materia; o meglio, il nostro essere intimo è annientato, ridotto al mutismo, all’apatia, a mero meccanicismo, è immobilizzato, incastonato in una tana quasi anacronica. Chissà che senso ha il tempo per un prigioniero, rinchiuso nell’opprimente spazio grigio, scuro, claustrofobico e che costantemente deve fare i conti con la pena di cui si è macchiato? Chissà che senso ha il tempo per le torturate vite nelle asfissianti gabbie, quell’innocenza invano implorante libertà, quelle creature avidamente desiderate dall’insaziabile ed egoista appetito capitalista? Chissà che senso ha il tempo per un’anziana, sola, tra le mura testimoni della sua giovinezza perduta, del tempo perduto? respira ancora la brezza del passato, degli affetti nella rimembranza dei ricordi, ma i respiri rinnovano l’amarezza, il rimpianto, o la nostalgia? Chissà che senso ha il tempo per un folle, per chi è solo, per chi si è “perso”, per chi si illude di abbracciare il cielo, per chi, rattristato o gaio, è all’ultimo respiro? Chissà che senso ha il tempo per chi, nemico del presente, con gli occhi rivolti al passato ripete ossessivamente “se solo…”? e invece per chi, nemico del presente, con lo sguardo rivolto al futuro, spera che “un giorno…”, senza affrettarsi a vivere oggi “quel giorno”?
Chissà che senso ha il tempo per noi, oggi? Per alcuni lo scorrere del tempo è una melodia, per altri è un rumore, per altri ancora è soltanto silenzio che alimenta uno stato di prostrazione. Il tempo e lo spazio interagiscono, convivono, si influenzano l’un l’altro: lo spazio cambia la percezione del tempo e, allo stesso modo, il tempo cambia la percezione dello spazio. Come viviamo lo spazio in questo tempo? E invece che valore avrà lo spazio e il luogo dopo questo tempo? Lo spazio è quello che al momento contempliamo soltanto, lo inquadriamo con gli occhi e con l’immaginazione. Il luogo è quello intimo, familiare, è nostro, ci appartiene; è quello che più ci manca quando siamo lontani e diventa, paradossalmente, il più detestato quando è imposto, quando dobbiamo rimanergli costantemente fedeli. Impariamo a convivere con lo spazio e con il tempo. Il “con” implica una relazione, ma precisamente, che tipo di relazione instauriamo noi, ora, soggiogati da questa imperturbabile catastrofe? Questi due fattori, apparentemente esterni, sono imprescindibili; soltanto ora ci rendiamo conto della loro inestricabile essenza, ora, nel momento in cui “dobbiamo fare i conti” con loro. Li organizziamo, li schematizziamo secondo ordinate precise, li analizziamo, li approfondiamo, li giriamo e li rigiriamo, ma soprattutto conferiamo loro un nuovo valore. Tutto ciò che “vive” nello spazio, ora, annienta qualsiasi coordinata temporale, improvvisamente fluttuiamo su uno spazio lineare, in cui presente-passato-futuro confluiscono in un presente senza inizio né fine. Questo accade grazie al potere della rievocazione che fa rivivere i momenti passati, ma allo stesso tempo anche dell’immaginazione e della speranza, che ci proietta oltre l’orizzonte presente, in un futuro presumibilmente confortante e non utopico, ma potenzialmente realizzabile, insieme alla sua carica propiziatrice.
La nostra attuale quotidianità si volge ad uno sguardo più attento, che penetra nella realtà delle cose, degli eventi, degli affetti, delle relazioni. Non ci si limita più ad osservare passivamente gli oggetti, a posizionarli in un posto casuale e ad abbandonarli alla polvere del tempo. Con lo sguardo del Fanciullino, di colui che vede il tutto per la prima volta, con la curiosità della prima volta, ci si immerge dolcemente nel microcosmo di ogni realtà; realtà che, se non più vista superficialmente, ha un passato, una vita dietro, esattamente come ognuno di noi. Un ricordo sul comodino della nostra stanza non è soltanto il tempo, il luogo e la carica emotiva che a noi lo collega, è anche quel che era prima di conoscerci; vi rimane qualcosa anche di colui che è stato l’ideatore, di colui che gli ha dato vita, di colui a cui è appartenuto prima di noi, di colui che, toccandolo o semplicemente sfiorandolo, vi ha lasciato qualcosa di sé, di colui che si è preso cura, spolverandolo, in attesa che qualcuno lo scegliesse, in mezzo a tutti gli altri. Si può cogliere il momento per riflettere, per approfondire il resto, l’altro -anche se spesso, purtroppo, virtualmente-, per tentare di oltrepassare lo spazio circoscritto che la nostra debole fiaccola illumina, e con lo spirito di un Palomar ottimista di penetrare nel labirinto della conoscenza e della consapevolezza; si tenta di divenire più consci di noi, dei nostri temibili e detestabili limiti, che frenano la possibilità di realizzare a pieno le nostre potenzialità, ma anche dei nostri necessari e filantropici limiti che il vivere in una società richiede. Sogniamo anche noi le nostre città invisibili che, sulla base delle nostre personali esperienze e percezione, rendiamo più o meno utopiche o distopiche, più o meno realizzabili, più o meno nostalgiche.
Anche se ‘viviamo nascosti’, chiusi tra le pareti del nostro ‘nido’, il contatto con il resto del mondo non finisce qui, ma inizia da qui, per tutti. Inizia da qui perché siamo compartecipi di una condizione comune, collettiva, senza eccezioni, al di là dei confini. In realtà la situazione, seppur generatrice di un livellamento sociale che non conosce distinzione e che non può essere neutralizzata dalla presunta forza salvifica del denaro, crea disuguaglianze, sbilancio: c’è chi è ancora più solo, chi sopravvive a stento -sia psicologicamente che materialmente-, chi non conosce differenza tra il prima e l’ora, chi vive in uno spazio confortevole, chi invece vive in uno spazio avverso. Instauriamo una nuova relazione con l’esterno, con l’ambiente circostante, con l’altro; ma allo stesso tempo rivalutiamo il nostro essere interiore, il nostro rapporto con noi stessi, la percezione che abbiamo di noi stessi, oltre che degli altri. Questa circostanza ci offre uno spunto di riflessione, uno spunto per un’analisi introspettiva, di ricerca dell’io. Potrebbe essere considerata questa la situazione, da tanto attesa, che potrà finalmente annientare le maschere che noi stessi forgiamo -paradossalmente anche con lo sguardo degli altri-, a volte inconsciamente, quasi spinti da una sorta di automatismo? E’ giunto il momento in cui chi è debole non può più nasconderlo, chi si finge misantropo non può più pretendere di esserlo, chi invece è filantropo di dimostrarlo, chi può, di aiutare, chi invece non può, di farsi aiutare…È necessario coltivare umanità, seminare speranze ed empatia, rinunciare all’egoistica forma mentis dello “homo homini lupus”, all’individualismo, che altrimenti rischierebbe di sgretolare il tessuto sociale.
Vietiamo che la nostra memoria volti le spalle, che ripudi questi momenti, anzi, sono anche questi i momenti che ci ordinano di adattarci, di ‘stringere i denti’, di ‘crescere’. Non imploriamo cecità: anche se la cecità non vede, sente; piuttosto possibilità di filtrare quel che di buono c’è. Bisognerebbe capovolgere prospettiva, trarne vantaggio, migliorarci, perché in fondo non siamo che piccoli, ma preziosi tasselli di un inestricabile e necessario tessuto di legami, di relazioni, di socialità, di affetti. Migliorando noi stessi, miglioriamo gli altri. Conservando la memoria di oggi, valorizziamo quel che verrà, quel che c’è stato e che al momento non c’è. Che non sia soltanto ombra, che sia momentaneamente uno sguardo che contempla da lontano tempi e luoghi, e che si abbandona con leggerezza ai luoghi immaginari del tempo passato e del tempo che verrà.
Concludo con il pensiero alla palese contraddittorietà che lo stesso fenomeno causa da una parte all’umanità e dall’altra all’ambiente naturale. Quel che fa star bene l’una, fa star male l’altra, e viceversa, quasi agissero in una sorta di antagonismo. Il cielo è più blu, l’erba è più verde, il cinguettio degli uccelli è più ilare, l’aria più fresca. Quando non soggetta alla nostra incurante manipolazione e dispotismo capitalista, la natura respira e vive, insieme a tutte le meraviglie che ingenuamente ci offre e che noi, con ingratitudine e avidità, sfruttiamo. Al termine di questa situazione ci si può risvegliare con una consapevolezza diversa, volta a raggiungere un compromesso, una convivenza bilaterale, ma soprattutto una nuova sensibilità, un nuovo approccio, riconoscente e amorevole questa volta. La natura è maestra. Anche in un luogo abbandonato e “sterile”, segnato dall’assenza della “presenza”, la natura interviene con la sua preziosa maestosità a colmare il vuoto, a rendersi partecipe della melanconia dei luoghi; così, le macerie “riaffiorano” insieme a lei, prendono nuovamente vita, seppur attraversate da una vena nostalgica. Riaffioreremo anche noi, proprio come lei, accanto a lei, insieme.

Adriana Alexandra, 20 anni, Nicotera (VV), studentessa di Lingue e Culture Moderne

 


 

Il mondo, da qualche mese a questa parte, è un po’ cambiato. È cambiato esso, e siamo cambiati noi, suoi energici, invadenti abitanti. Circa tre mesi fa, i mass media, i canali di informazione, i giornali, le piattaforme internet, i social media, ci presentavano tutti, con estrema forza, le caratteristiche – ai tempi particolarmente confuse e a tratti opposte – di un evento che, già in quei giorni, si mostrava come di straordinaria portata. Eppure, esso si sarebbe presentato nelle settimane seguenti con una forza ancora più incredibile di quanto già non ci aspettassimo in quei momenti appena descritti. Un evento tanto grande e tanto unico da condizionare le nostre azioni, i nostri pensieri, le nostre scelte e, addirittura, i nostri sogni.

E mi permetto di dire che forse è proprio questo l’aspetto più incredibile, dal punto di vista puramente personale, di questo evento: decine di studiosi hanno cercato tra le vie dei sogni più strani fatti in questo periodo, una sorta di spiegazione all’inconscia ansia che sta imponendosi in questo periodo. La scienza, ma anche tutte le semplici conversazioni che abbiamo quotidianamente con parenti e amici mettono in mostra proprio questo stravagante, ma delicato aspetto delineato da questa epidemia: ne consegue che ognuno di noi sta vivendo questa quarantena forzata in modo totalmente diverso, eppure qualcosa di così inconscio e misterioso come il fenomeno del ‘sognare’ ci rende tutti incredibilmente simili e, in tal senso, vicini. Tutti, semplicemente, vulnerabili.

Ma forse occorre fare un passo indietro: è il 31 Dicembre 2019 quando per la prima volta si sente parlare di ‘polmoniti anomale’ a Wuhan, città cinese tra più popolose al mondo. Soltanto il 30 gennaio 2020 viene invece dichiarato dall’OMS lo stato di emergenza sanitaria mondiale, quando si inizia già a capire che, probabilmente, quel virus minaccioso e misterioso che ha caratterizzato questi ultimi 3 mesi potrebbe essersi espanso già da molto, troppo tempo. E da Wuhan parte un’epidemia che colpisce a macchia d’olio ogni zona del mondo, un virus che ci rende tutti uguali. La scienza fa ciò che può per affrontare un pericolo che, per un attimo, pareva già essere arrivato al punto di non ritorno: quando il virus si “presenta” in Italia con il primo focolaio accertato nel Lodigiano (era il 21 febbraio), già circolano teorie complottiste e numeri allarmanti.

Ed è da qui che parte tutta la mia riflessione, dal momento in cui ci siamo imbattuti nella paura. Da quel preciso istante, le nostre vite sono cambiate: di pari passo con l’emergenza sanitaria che avrebbe colpito il nostro Paese nel giro di pochissimi giorni, andava avanzando un velo di irreprensibile terrore che, quasi, si sarebbe trasmesso più rapidamente del virus stesso (il quale, proprio per la sua enorme velocità di contagio, ha reso questa pandemia un evento di portata storica). Proprio quella paura, per un po’, ci ha reso vicini come poche altre volte, in totale paradosso con le incredibili (ma necessarie) restrizioni applicate dal governo: abbiamo così dovuto rispettare divieti su baci, abbracci, strette di mano, vicinanza ma, nonostante questo, ci siamo sentiti tutti parte di un unico grande destino e, per amor patrio, abbiamo deciso consapevolmente di cambiare le nostre vite, adeguandoci alla storia che stava mutando intorno a noi. Tutto ad un tratto, ci siamo trovati lontani dai nostri affetti, chiusi nelle nostre case a trovare i modi più disparati per non pensare a ciò che stava accadendo fuori dalle nostre porte. Tutto ad un tratto, abbiamo iniziato a provare paura nel fare le cose più semplici, nell’avere un banale contatto umano. All’improvviso abbiamo combattuto con i nostri sentimenti, non ci siamo più ritrovati nei nostri sogni agitati, nelle nostre paure più infondate; abbiamo avuto paura di qualcosa di invisibile, abbiamo subito un’assuefazione alla negatività in cui ci avevano immerso. Abbiamo messo in pausa, per un tempo che diveniva sempre più esteso, la nostra quotidianità. Abbiamo quasi dimenticato come ci si presenta all’altro, come si sta seduti ad un tavolo, abbiamo dimenticato cosa significa condividere un pasto, e che emozioni regala uno sport di squadra.

È stato difficile, ma non impossibile: forse ne siamo usciti più forti, forse abbiamo scovato qualità che non credevamo di avere, forse abbiamo dato valore alle cose più semplici e, forse, abbiamo finalmente imparato che siamo tutti parte di una stessa storia e che, di fronte alla natura e ai suoi eventi inaspettati, noi esseri umani non possiamo far altro che esser più uniti e pronti ad affrontare tutto, insieme.

Questo male invisibile, che ci ha colpiti duramente, che ha preso con sé la vita di molte, troppe persone, che ci ha inginocchiati e sottomessi non è ancora finito. La nostra normalità manca più che mai, mancano gli amici di sempre, l’affetto umano, gli abbracci, la vicinanza. Tutto questo, manca. Ma non si deve mollare adesso, ora che questa esperienza ci ha toccato, cambiato nel profondo, non si può mollare. Siamo stati incredibilmente forti, abbiamo percepito la dirompente forza della storia sulla nostra pelle e, dunque, adesso è arrivato il momento di essere ancora più resistenti. Con la speranza di uscirne migliori, ma soprattutto più uniti.

Marika, 19 anni, Cosenza, studentessa di Lettere e Beni Culturali

 


 

Il 31 Dicembre del 2019 i giornali iniziarono a parlare del Coronavirus o COVID 19, un virus potente e talvolta anche letale, soprattutto per coloro che hanno patologie regresse e per gli anziani, sviluppatosi per la prima volta a Wuhan in Cina. In Italia, inizialmente, non ci si preoccupò più di tanto per questo virus e la vita andava avanti come sempre: ne parlavano solo i giornalisti e noi credevamo che fosse una calamità che non ci avrebbe mai interessato. Ma ecco che il 30 Gennaio del 2020, in Lombardia, abbiamo il primo caso di Coronavirus e, a questo punto, il problema era anche nostro. Dopo pochi giorni, il virus si estese a macchia d’olio in tutta Italia, poi in tutta Europa e, infine, in tutto il mondo. A Marzo fu dichiarata la pandemia mondiale. Il governo italiano a Marzo decise, data la gravità della situazione, di dichiarare zona rossa tutta la penisola. Da quel momento la vita di ognuno cambiò radicalmente: oltre al fatto di non potersi spostare da una regione a un’altra (salvo che per motivi di estrema urgenza o per lavoro), furono vietati gli assembramenti e qualsiasi tipo di incontro sociale con i propri parenti, i propri amici, la propria fidanzata, i propri nonni ecc.. Si poteva uscire dalla propria abitazione solo per l’acquisto di beni di prima necessità e per lavoro. Era come uno stato di guerra, solo che ad uccidere le persone non erano (e non sono) i bombardamenti, ma questo nemico invisibile, con cui dovremo ancora convivere finché non si troverà un vaccino per debellarlo. È  chiaro che in queste situazioni la paura è tanta: ognuno è diffidente verso l’altro. Prima che le regole del contenimento del contagio  fossero meno ristrette, ma un po’ anche adesso, il primo pensiero che veniva in mente quando si incrociava qualcuno per strada era: “questo\a potrebbe avere il Covid. Meglio stargli lontano”  o qualcosa del genere. L’unica vera e genuina relazione sociale la si aveva con i componenti del proprio nucleo familiare (per chi  aveva, appunto, un nucleo familiare). Infatti, la comunicazione virtuale, a mio avviso, non rappresenta  una vera e propria relazione sociale totale e genuina, ma solo una relazione parziale che non soddisfa a pieno le esigenze dell’uomo di stare in mezzo alla società. Anche la scuola, che è il luogo in cui dovrebbero avvenire le relazioni sociali più formative per gli studenti, ha dovuto adeguarsi alla comunicazione virtuale attraverso le piattaforme informatiche. Il mio auspicio è che si possa tornare subito alla normalità. Aristotele diceva che l’uomo è un animale politico: senza la società  non solo non può vivere, ma non può nemmeno sopravvivere. Abbiamo vissuto un periodo di paura e di isolamento sociale che talvolta ha portato a patologie gravi, come depressione, melanconia, stress ecc.. Uno dei pochi mezzi per contrastare quella noia che poteva trasformarsi in qualcosa di più grave consisteva nel dedicarsi ad attività a cui, prima dell’isolamento, non avevamo potuto dedicare tempo. Ma questo ha avuto anche i suoi limiti perché restava il problema dell’isolamento. Ecco, allora, che, per rimediare a questo fardello, si è istituito un appuntamento quotidiano (circa alle 18-19 della sera) sui balconi di casa, durante il quale si suonava e si cantava tutti insieme e per il quale noi italiani ci siamo distinti particolarmente: l’antropologo e psicologo evoluzionista Robin Dunbar ha concluso una sua intervista, in cui parlava di questo nuovo rituale, dicendo: “ma forse solo gli italiani possiedono il talento e la capacità di riuscire in un’impresa del genere senza risultare imbarazzanti”. Tra i pochissimi lati positivi di quel periodo io ho individuato questi:  1) La considerazione a la riconsiderazione di ciò che prima veniva reputato scontato e normale (in primis le relazioni sociali), 2) la possibilità di dedicarci ad attività per le quali prima dell’isolamento non avevamo il tempo da dedicare, 3) la forte diminuzione dell’inquinamento atmosferico, data l’impossibilità di circolare con i mezzi se non per motivi urgenti o lavorativi e anche grazie alla chiusura di alcune fabbriche, che ci ha fatto capire che ancora non è troppo tardi per salvare il nostro pianeta. Tuttavia, non penso che, quando tutto sarà finito e si ritornerà alla normalità, saremo delle persone migliori (salvo alcuni casi). Gli uomini tendono a dimenticare facilmente.

Michele Ronaldo, 21 anni, Vibo Valentia, studente di Lettere e Beni Culturali

 


 

Come si sta svolgendo il nostro quotidiano?

Il nostro quotidiano si svolge nell’alveo del surreale, alienante rispetto a ciò che ci circonda e che più strettamente è “vita”, ma paradossalmente agli antipodi verso noi stessi, che vibriamo ai fremiti dell’animo ora pienamente ascoltati. Sembra di rappresentare noi stessi e il mondo, per una volta, all’unisono, nel tepore chiuso della nostra interiorità in un’espansione, che coinvolge tutti: un’espansione confinata.

Che interazioni abbiamo con i vostri coinquilini e con lo spazio?

È interazione familiare, dunque consapevole, condivisa, quasi forzata nella paradossale assenza di scelta. È unione nella disgregazione sociale dettata dalla paura, è focolare. Lo spazio è immaginazione, di ciò che attualmente non è e che normalmente è quasi non apprezzato a pieno. È natura , un dominio che non ha più i sapori del biunivoco.

Come osserviamo, consideriamo, descriviamo quello che “vediamo” dalla nostra stanza, dalla nostra casa?

Ciò che si vede è il movimento assente di un quadro mutevole. Il paesaggio fa il suo corso, il fiore solletica l’aria che di primaverile ha la sola definizione astronomica. Era necessario accorgersi di ciò che contempliamo, e per fare ciò che non è superficiale, spesso, abbiamo bisogno di ciò che non è immediatamente sotto il nostro controllo.

Che legame stabiliamo tra dentro e fuori?

Come detto è un legame che, paradossalmente,  parte da una separazione: fra ciò che adesso è altro rispetto a noi e noi stessi, sostanzialmente mente che non ha però bisogno di confini per agire. La cosa importante sarà trasportare fuori quello che si ha dentro. E sarà ver legame.

In che modo lo sguardo e l’udito ci fanno “uscire” dal nostro “rifugio”?

Lo sguardo e l’udito raccolgono gli stimoli di un richiamo che non può avere risposta. Sono sensi che hanno senso, adesso, solo se trasportati altrove dalla mente.

Come usiamo gli strumenti tecnologici per la comunicazione?

La tecnologia è ancora di salvezza contenutistica e visiva: lì dove i sensi non possono, arriva l’arte dell’arrangiarsi dell’interiorità. Vedere e sentire le persone care, oltre all’intrattenimento di varia natura, è pregio della modernità. A discapito di qualche libro, ma verrà voglia anche di quelli.

Di cosa parliamo con gli altri che abitano con noi?

Si parla del tutto che scaturisce dall’unico tema, inevitabilmente. L’attualità si consuma in sé stessa, è non tempo, è uno stato d’eccezione. Una inconsueta normalità.

Che sogni facciamo?

Di tornare alla vita di prima, con la consapevolezza di sapere che non è tutto dovuto, che è un miracolo poter passeggiare in una giornata di sole e guardare il mare o un prato di fiori.

Cosa rimpiangiamo?

Non aver apprezzato il “dono” che tutti chiamavamo “normalità”.

Rita, 21 anni, Cariati (CS), studentessa di Lettere e Beni Culturali


 

Da qualche settimana le mie giornate sono cambiate all’improvviso, solo poco tempo fa mi alzavo presto e prendevo l’autobus per andare all’università, per seguire le lezioni insieme ai miei colleghi e, improvvisamente, ora mi trovo sola davanti ad uno schermo a  seguire le lezioni caricate online e ad ascoltare gli audio cercando così di tenermi al passo con le lezioni. Ci si svaga come possibile: sistemando la stanza, scaricando ogni serie tv possibile, ascoltando la musica, cucinando il mio dolce preferito e, nonostante questa reclusione forzata, non  ho abbandonato  le mie abitudini sportive. Anche se in questo momento non posso andare in palestra,  continuo a mantenere allenato il mio fisico senza problemi,  grazie al mio maestro di ballo che carica le lezioni due volte a settimana. In casa vivo con i miei genitori, mia sorella e i miei nonni e, vista la disponibilità di tempo a disposizione,  non mancano le possibilità infinite di litigare, anche se viviamo in una casa molto grande. Il problema non è stare tanto tempo insieme, ma cercare di convivere poiché i conflitti, che spesso sorgono,  richiedono uno sforzo di adattamento. Tutto ciò ha portato  a ridefinire gli spazi in comune; l’impossibilità di svagarsi con le uscite con agli amici, porta ad aumentare lo stress abituale. Abbiamo dovuto cambiare tutti il nostro  stile di vita e tra le occasioni di risse in famiglia, in special modo tra me e mia sorella, c è il bisogno di privacy, la rivendicazione dei propri spazi e il bisogno di fare le cose alla propria maniera. Ora capisco il mio vicino che ha montato il suo impianto stereo sul balcone e ci allieta, tanto per dire, con le canzoni anni 60, mi chiedo se sia  anche questo un modo per evadere  o semplicemente una forma di reazione di fronte alla paura. Certo che la solitudine si sente molto in questi giorni; tutti noi abbiamo una persona con la quale ci confidiamo o confrontiamo e con la quale ci piace stare in compagnia, è proprio questo quello che mi manca di più, anche se riesco a percepire  di essere presente nei pensieri degli altri, di esistere al di là dei limiti fisici; per fortuna che tra skype e whatsapp riusciamo ad avere almeno dei contatti visivi. La nota positiva in tutto questo è l’arrivo della primavera, la natura sboccia, rinasce e si presenta con tutta la sua forza e la sua grandezza; si sentono gli  inebrianti profumi  dei fiori e questo ci regala emozioni e ci infonde speranza. Ci porta a viaggiare con la mente facendo diventare nostri pensieri positivi aiutandoci a non perdere la fiducia e a nutrire la mente di cose belle e a custodire la speranza. Mi ritorna in mente una frase di Fiorello che diceva: “Eravamo felici e non lo sapevamo”. Eravamo felici perché eravamo liberi di passeggiare all’aria aperta, potevamo condividere una pizza con gli amici, potevamo festeggiare con i nostri cari, bere un caffè con un’amica, trascorrere un sabato sera fuori casa, prendere un gelato, andare al cinema o semplicemente andare al supermercato liberamente. Ora non posso neanche accompagnare mia madre al supermercato e decidere insieme,  tra gli scaffali, cosa cucinare per cena perché bisogna uscire una persona per famiglia. Tutto questo mi fa rabbia perché mi è stato sottratto a causa di un mostro invisibile e non mi è mai sfiorato alla mente che potevo rimpiangerlo. Guardavo con superficialità le cose intorno a me, non le apprezzavo, ed invece ora eccomi qui, chiusa in casa a meditare sulle cose non fatte.  Ricordi angosciosi acuiti da queste bellissime giornate di primavera. Ora vivo da reclusa, cercando una boccata d’aria uscendo nel cortile, evitando i vicini e salutandoli da lontano.  Qualcuno ha già scritto che siamo i partigiani di una Nuova Resistenza, questo mi fa  sentire  partecipe di questa battaglia, individuale e collettiva nello stesso tempo, uniti nelle regole, nella solidarietà e nella consapevolezza, battaglia contro un nemico che sta mietendo tantissime vittime. Vittime che sono state private anche di un ultimo gesto d’amore. Il divieto di riunirsi ha cancellato, tra le altre cose, i rituali della cerimonia funebre e la sepoltura che da sempre sono serviti all’uomo per elaborare il dolore e accettare il distacco. Così alcune chiese sono state trasformate in camere mortuarie, le panche sono state rimosse per far posto ai corpi; alcuni centri funerari  hanno predisposto dei collegamenti video per permettere alle famiglie di assistere alla benedizione dei defunti. Oggi  non c’è l’addio, non ci sono le visite al defunto, non c’è la vestizione, non ci sono abbracci e preghiere condivise e non ci sono lacrime asciugate da chi ci sta vicino,  manca “la sacralità” dell’addio. L’approssimarsi della domenica di Pasqua, si collega perfettamente a tutte le riflessioni che  stiamo facendo in questi ultimi tempi sulla tragedia  che il mondo intero sta attraversando. Vedere ieri il vuoto di Piazza San Pietro mi ha ricordato che non sono i corpi a riempire i luoghi, ma sono bastate le meditazioni dei detenuti,  dei poliziotti, dei familiari di vittime, degli educatori del carcere di Padova e le immagini di Papa Francesco  solo e sofferente davanti alla Croce, per riempire tutta la piazza, illuminata dalla luce delle fiaccole come segno di speranza,  nel buio della nostra sofferenza.  Il virus in questi giorni  ha abbattuto tutte le nostre barriere di razza, religione, ricchezza, potere e ci ha fatto vedere l’uguaglianza nella  morte e nel  dolore,  facendoci soffermare sulla speranza di risorgere al più presto per uscire dai sepolcri che sono ora le nostre case, per tornare alla nostra nuova vita fatta più di sostanza e meno di apparenza.

Beatrice, 19 anni, Rogliano (CS)

 


 

Dal Lockdown alla Fase 2.

“Lockdown”

Era il 9 marzo quando dopo settimane che si sentiva parlare di Coronavirus ed emergevano cittadine fino a prima sconosciute, come Codogno, alla sera giunse la notizia che l’Italia intera sarebbe diventata zona rossa.

Quella sera mi trovavo a Cosenza, nella mia casetta in affitto, e la paura iniziò a salire, così decisi di tornare dalla mia famiglia, prima dell’avvenuta chiusura.

Da quel momento quella che poteva sembrare la soluzione al male della solitudine si trasformò “in prigionia”.

Vivo in un piccolo paese della provincia di Cosenza, Pedivigliano; all’indomani delle comunicazioni governative il paese si svuotò, come se un uragano avesse spazzato via dalle strade quei pochi abitanti che fino a qualche giorno prima riempivano gli spazi comuni.

Impauriti e quasi increduli dell’emergenza ci siamo rintanati nelle case, tutti uniti contro un nemico comune ed invisibile, comunemente chiamato “Covid-19 o CoronaVirus”.

Il paese sembrava più morto del solito, per la strada passavano solo coloro che andavano a fare la spesa, muniti di autocertificazioni, mascherine e guanti e quasi diffidenti verso il prossimo.

I giorni, se dapprima sembravano non passare mai, con l’angoscia dei contagi, dei positivi, dei morti, e degli interrogativi: quale mascherina usare? come? che distanza mantenere?;

poi iniziarono a passare per inerzia, come a comporre un puzzle.

La casa si trasformò in un luogo angusto, e i familiari quasi insopportabili.

L’Italia colpita tra i primi paesi europei si contraddistinse per il suo animo combattivo, come a porsi da esempio per le altre nazioni che, pian piano, furono colpite dalla pandemia.

Gli italiani non si demoralizzarono e non mancarono a testimonianza di ciò slogan come “andrà tutto bene”, “ce la faremo”, “io resto a casa”, canti sui balconi, miriadi di videochiamate, senza mai dimenticare coloro i quali si trovavano in prima linea a combattere (medici, infermieri, farmacisti, forze dell’ordine, riders, protezione civile…).

Per far sì che lo stare chiusi in casa non diventasse tanto spregevole, tutti quanti ci siamo improvvisati cuochi, e nel mangiare abbiamo riscoperto quel senso della condivisione, dello stare insieme che, troppo presi dalla vita frenetica, avevamo dimenticato.

Se da un lato il virus ha creato molta debolezza psicologica, dall’altro lato ha ridato vitalità agli spazi personali non vissuti, come il parlare con il vicino di casa dal balcone, il viversi la famiglia, il valore delle feste non festeggiate, gli affetti dati quasi per scontato e la riscoperta di angoli della casa ignorati.

I supporti digitali sono stati una costante, hanno permesso, anche se con non pochi disagi, di proseguire le attività scolastiche ed universitarie, ma hanno svelato la cecità che si cela in essi; probabilmente senza, il tutto sarebbe stato ancora più angoscioso, ma nel contempo ci ha resi consapevoli che i rapporti non posso essere sostituiti da uno schermo.

Gli abbracci, i sorrisi, i baci hanno bisogno di un rapporto diretto.

In quei giorni tenebrosi, la mancanza di persone care si faceva sempre più nitida e alla sera facendo il resoconto della giornata e delle cattive notizie ingoiate, la vicinanza fisica con essi si proponeva sempre più distante.

La sera mi infilavo nel letto e come un atto di vicinanza più intima sfogliavo le foto, di chi più  mi mancava, certamente chiamate e videochiamate non mancarono, ma mi rendevo conto come tutto quello non mi bastasse.

Scienziati, storici, ecologisti già prima dell’arrivo del virus parlavano chiaro:  la situazione a livello globale non si proponeva favorevole per gli esseri viventi, ma non ci siamo mai lasciati prendere da questa paura, abbiamo continuato a vivere spensierati nel lusso e nel desiderare sempre più, con le nostre logiche produttive e di sfruttamento, come se le risorse naturali fossero illimitate.

Abbiamo lasciato morire l’uomo tradizionale ben consapevole della provenienza del cibo, delle ricchezze, esso badava bene agli sprechi, era consapevole delle fatiche che comportava la vita.

Così arrivò la pandemia, trasformò il tessuto sociale, e provocò la perdita della memoria culturale del paese, gli anziani, che ben avevano sperimentato sulle loro spalle le fatiche e il sudore per guadagnarsi da vivere.

Dopo tanti giorni di notizie terribili è arrivata, anche se molto discussa, la possibilità di andare a far visita ai nostri congiunti e la riapertura di alcune attività. L’emozione fu tanta, ma questa fu accompagnata dalla paura di un possibile ritorno della bestia invisibile.

“Fase 2”

Non appena misi i piedi fuori tutto mi risultò strano e mi sentivo smarrita, la realtà è cambiata, sono poche le persone in giro e tra di loro prevale solo silenzio.

La natura si è ripresa i suoi spazi, l’unica ad aver tratto beneficio dalla nostra mancanza. Gli alberi sono fioriti come non si vedeva da anni, le acque del mare, dei fiumi e dei laghi hanno ripreso un aspetto limpido e cristallino, i pesci sguazzano indisturbati. Sembra quasi una sfida, un rivendicare una riappropriazione di qualcosa che c’era e che non c’è più.

Come per darci una lezione di vita, la natura ci ha mostrato com’è possibile prendere spunto da essa per un mondo diverso, per recuperare un tipo di economia che si basa sul rispetto della stessa.

Il 5 maggio 2020, sono ritornata al lavoro, ma non mi piace definirlo tale, sono la tata di due bambini da quando sono nati e per loro voglio essere un’amica e non una semplice baby-sitter da dimenticare quando diventano grandi.

Mi sono svegliata molto presto quella mattina, quasi come se avessi dimenticato tutti i rituali prima di uscire.

Arrivata, non mi sembrava vero poterli riabbracciare e le emozioni erano palpabili, loro mi aspettavano già dalla sera prima quando gli dissi che sarei andata.

Quasi con le parole non riesco a spiegare le emozioni vissute, ero incredula, con il cuore pieno di gioia.

I bambini non sapevano da dove iniziare a raccontarmi quello che avevano vissuto in due mesi, così iniziammo dalle cose fondamentali e il resto venne da sé.

Una sensazione strana ad averli di nuovo al mio fianco e la percepivo anche nei loro sguardi, ma eravamo felici di poterci, di nuovo, abbracciare e giocare insieme.

La pandemia ha insegnato a grandi e a piccini ad apprezzare anche i gesti più semplici, e consuetudinari, ha dato la consapevolezza per una formazione diversa per un uomo sempre più solidale e rispettoso.

Ora bisogna ripartire, responsabilmente, e consapevoli che niente ancora è finito, che l’”asintomatico” potrebbe essere un nostro familiare, chi ci precede al supermercato o il nostro migliore amico, purtroppo o per fortuna, la realtà è cambiata e noi dobbiamo cambiare insieme ad essa!

È una partita ancora da giocare, ma insieme…

Vanessa, 22 anni, Pedivigliano (CS), studentessa di Scienze dell’Educazione

 


 

“E ora viaggi, ridi, vivi o sei perduta”. 

Cantava così Fabrizio de André nella canzone “Hotel Supramonte”, scritta successivamente al rapimento del cantautore insieme alla compagna Dori Ghezzi. Questa frase si addice molto al periodo appena trascorso, sembrato quasi un sequestro; essendo l’uomo abituato alla libertà, è stato costretto ad obbedire ad un ordine non poi così duro: stare in casa.

È proprio lo stare in casa a rendere difficile il primo punto: il viaggiare.

Viaggiare è diventato ormai fondamentale e particolarmente utile per “fuggire” temporaneamente dalla superficiale e monotona società attuale. Si tornerà a viaggiare, ridere e vivere con la stessa serenità di prima?

Eppure, io sono riuscita a farlo in casa, insieme alla mia famiglia. Il mio è stato un lungo viaggio nel tempo in cui ho conosciuto persone, luoghi, racconti e, in particolare, le mie radici. Io, una foglia di un grande albero, che ha radici lunghe più di due secoli. E proprio oggi, 3 maggio 2020, festeggerò col pensiero il 137esimo anniversario di matrimonio dei miei trisnonni Pasquale e Maria Rosa.

Considero la conoscenza delle proprie radici un elemento fondamentale del nostro essere; solo con un confronto con gli antenati possiamo capire chi siamo e cosa viviamo realmente. La quarantena mi ha sicuramente giovato, poiché mi ha permesso di fermarmi e riprendere i miei ritmi con quelli del resto della mia famiglia, che non accadeva da quando ho iniziato a frequentare l’università, allontanandomi dal “nido”.

Ho sempre ascoltato con attenzione e curiosità le storie delle mie nonne, provando ad immedesimarmi in loro, in quei personaggi da loro menzionati, o semplicemente ad immaginarmi tra loro e vivere i momenti di comunità della Siderno Superiore di quei tempi.

Il viaggio nel tempo, il contatto con gli antenati ed i loro luoghi sono elementi evidenziati anche nel più grande capolavoro di Cesare Pavese, “La luna e i falò”. Sono proprio la nostalgia e la volontà di trovare un equilibrio nella sua vita a spingere Anguilla a tornare nel suo paese natale ed è Nuto, suo amico di infanzia rimasto in paese e avendone vissuto tutti i cambiamenti, a far rievocare i suoi ricordi.  Ma Anguilla, dopo aver conosciuto i tragici destini di persone a lui care, va via dal paese per non tornarci mai più.

Ritornare a Siderno Superiore mi riempie sempre il cuore di forti emozioni come se, d’improvviso, tornassi la me stessa di 15 anni fa: è proprio su quei due gradini in cemento davanti al portone di mia nonna materna che ho trascorso gli anni più felici e spensierati della mia infanzia insieme alla mia famiglia, ai miei cugini, a giocare tutti insieme o semplicemente a chiacchierare durante le calde serate estive di festa. Perché, per noi, era festa non solo il 12 Agosto (il giorno della festa della Madonna dell’Arco), ma anche soltanto il ritrovarci lì, in quel “salotto” significava festa.

L’avvicinamento ai vecchi luoghi, che possono sembrare “lontani”, in realtà sono più vicini di quanto pensiamo ed è proprio attraverso il costante confronto con le persone che li abitavano e le loro vicende, è possibile comprendere ogni cosa del nostro presente: per definirci, per capire ciò che è rimasto e ciò che col tempo è andato perduto o, in particolar modo, ciò che ci sembra di avere e ciò che abbiamo realmente.

Quella di una volta era una società molto semplice, legata alle sue tradizioni, all’anno calendarizzato principalmente secondo i momenti giusti per la coltivazione, le festività religiose e le tradizioni culturali. Nonostante i vari problemi dell’epoca, i nostri antenati vivevano e sono vivi tutt’ora grazie alle tradizioni che abbiamo mantenuto, al loro ricordo che continuiamo a tramandare di padre in figlio, di nonno a nipote. Ma quanto si è conservato di tutto ciò che ci raccontavano i nostri nonni?

È quasi come se oggi i miei coetanei ed il resto della società attuale si sia dimenticato di vivere. Il concetto di Bauman di “società liquida” non è errato, in quanto il crescente individualismo è in netto contrasto con il senso di comunità di un secolo fa, in cui anche il più povero dava un pezzo di pane ad uno sconosciuto. Nessuno è un “compagno di strada”, ma ognuno è antagonista dell’altro, rendendo fragile la modernità, che si dissolve. Il consumismo è diventato l’unico fenomeno a reggere le varie economie; questa è una società che ha come unico valore l’apparire, un consumismo tanto malsano quanto privo di scopo, che rende obsoleto subito ogni cosa.

L’unico modo per vivere è avere consapevolezza di ciò ed agire di conseguenza. Gli uomini fanno la propria storia, ma non in modo arbitrario, bensì determinati da fatti e usi e delle tradizioni: la tradizione rimane il punto di partenza. Talvolta può accadere che venga destrutturata, ricostruita, aggiornata, ma non è altro che il progresso realizzato dai nostri antenati, reso attuale.

Quello di oggi deve essere un progresso sano, che potremo tramandare fieramente ai nostri discendenti; ed io sarò contenta di raccontare la nostra storia su quel cemento, il solito luogo di ritrovo da più di duecento anni dei miei antenati.

Nelle foto: casa dei miei nonni (foto personale), Siderno Superiore “Piazza San Nicola”

Emilia, 21 anni, Siderno (RC), studentessa di Lettere Classiche

 


 

È sera tarda. Sono fuori ad osservare le stelle. Negli ultimi mesi le osservo sempre. Mi ricordano che ci può essere anche speranza per l’uomo, per noi. “Dopo tanta nebbia, ad una ad una si svelano le stelle”, scriveva Ungaretti.

Molta nebbia c’è stata nella nostra vita ultimamente. Molta nebbia che, silenziosa e veloce, ha inondato tutto il mondo, ha colpito, ha ucciso, ha fermato la quotidianità.

Una pandemia ha bloccato tutto, il coronavirus ha portato dietro di sé una lista quasi infinita di morti. Uomini con una storia nel cuore che sono morti così, nel freddo di una stanza di ospedale soli, completamente soli.

Chissà quante volte avranno guardato, e tuttora guardano le stelle, le famiglie dei deceduti. Chissà cosa vedono, se scorgono anche loro speranza e rinascita. O solo dolore, infinito dolore.

Noi, abitanti di questo mondo, siamo stati colti da una forza imprevedibile, che ha, improvvisamente, cambiato le nostre vite.

Per questo l’uomo ha paura dell’ignoto: esso sfugge dal controllo umano. E l’uomo controlla, domina, calcola, prevede qualsiasi cosa. Tutto ciò che sfugge dalle sue mani è nemico.

Io medesima, ho sempre cercato di controllare la mia vita.

Ma l’imprevedibile non bussa alla porta, entra e scombussola i tuoi piani.

Da studentessa al primo anno di università, pronta per vivere completamente questo nuovo capitolo della mia vita, mi sono trovata ad essere catapultata in un mondo dominato dalla morte, dal dolore, dalla prigionia, dalla tristezza, dalla paura.

Paura soffocante e asfissiante. Paura che non ti fa dormire la notte. Paura che quello che succedeva ad altri, poteva succedere a te o a qualcuno a te caro.

In questo momento siamo tutti uguali. Poteva toccare a te.

Ma piano piano la paura stava iniziando a fare spazio alla speranza.

Al sogno di una rinascita. “Staremo più lontani oggi, per abbracciarci più forti domani” disse il nostro presidente del consiglio Giuseppe Conte.

La speranza è tipica dell’uomo. Se uno spera, combatte. Se uno combatte, vince.

E il mondo sta combattendo. Ne usciremo migliori? Cambierà il nostro rapporto con gli altri? La nostra mentalità?

Sono domande che mi attanagliano la mente. Domande difficili.

Certo, ad una realtà il cui l’uomo non aveva mai tempo per i suoi affetti, spinto dal lavoro, dalle continue occupazioni, dal denaro, preferisco qualcosa di diverso.

Questa quarantena mi ha portato, appunto, tempo. Tempo da passare con mia madre e mio padre. Tempo da dedicare alla mia famiglia. Dai racconti di mio nonno, al preparare i nostri tradizionali dolci pasquali “le cullure”. Dall’aiutare papà a raccogliere le fragole e le ciliegie. Dal capire che sono le piccole cose, le lunghe giornate, che rallegrano il cuore.

Pensare al futuro in questo periodo tempestoso è molto probabilmente la cosa meno opportuna da fare. Riuscire a porre attenzione agli obiettivi, ai progetti, ai sogni in un momento in cui ‘l’adesso’ non esisteva più, era qualcosa di non fattibile. Non si aveva più certezza.

Ma pensare al futuro, pensare che l’indomani sarebbe arrivato, ci ha fatto indubbiamente  andare avanti. Iniziare a rivivere la nostra quotidianità. Ovviamente sì, una nuova quotidianità. Ma con la quale stiamo iniziando, almeno spero, a rapportarci. Cercando, in ogni modo, di essere il più responsabili possibile.

Ma nel futuro ci dovrà sempre essere il ricordo di questo presente. Dovremmo portare nel nostro bagaglio personale la consapevolezza di ciò che è accaduto, di ciò che abbiamo passato. Racconterò ai miei figli che bisogna credere nella speranza, bisogna  portare avanti le tradizioni così da unire intere generazioni, bisogna soffermarsi ad ammirare i tramonti, a rispettare il proprio luogo, la propria casa, tutto ciò che ci circonda e a non considerarlo estraneo.

Forse credo in un futuro migliore, in cui l’uomo capisca realmente che, per essere definito umano, deve portare avanti rapporti duraturi e concreti. Essere in contatto con gli altri, entrare in sintonia, provare le stesse cose che provano gli altri abitanti della terra.

Cercare di capire che non esistono “gli altri”. Perché siamo tutti un grande unico continente…

Forse ne usciremo migliori, o forse no.

Forse saremo in grado di rialzarci e progredire. Forse ritornerà tutto come prima. Forse l’uomo non imparerà mai dall’imprevedibile.

Invece, credo che l’imprevedibile è ciò che ci serve per cambiare.

Perché, per quante volte esso ci farà a pezzi, noi affronteremo la difficoltà di costruire, di rimettere insieme i cocci, di tornare ad alzare lo sguardo e guardare le stelle.

 Mariarosaria, 19 anni, Acri (CS), studentessa di Lettere moderne

 


 

“C’è un nuovo pericoloso virus proveniente dalla Cina”. “Potrebbe arrivare in Europa, con effetti devastanti”. Ma sì, dai, soliti allarmismi che si leggono su Internet. Non sanno più come dominarci, ora fanno leva sulla paura della morte.

22 febbraio 2020. Stadio “San Vito-Gigi Marulla”, si gioca Cosenza-Frosinone, match valido per la venticinquesima giornata del campionato di Serie B. L’aria che si respira in tribuna stampa è di quelle terribili, si parla solo del nuovo Coronavirus che a breve imperverserà anche in Italia. “E se arrivasse anche qui in Calabria? Ti immagini che casino”.

3 marzo 2020. Stadio “San Vito-Gigi Marulla”, si gioca Cosenza-Cittadella, match valido per la ventisettesima giornata del campionato di Serie B. Presenti poco più di 2500 spettatori (minimo stagionale), ai tifosi ospiti è stata vietata la trasferta per l’emergenza sanitaria. È una notte surreale, il nemico invisibile balena con fastidiosa insistenza nelle nostre menti.

Di rientro dallo stadio, mi siedo cinque minuti sul divano per riflettere. “Forse questa era l’ultima, chissà per quanto non rivedrò il prato verde – penso inorridito – però ora bando alle ciance. Confidiamo nel futuro, io voglio continuare a scrivere di calcio”.

Accendo la tv, leggo le prime pagine dei giornali. “Virus, l’Italia si blinda”, ”Siamo i più contagiati d’Europa”. Spengo immediatamente. Il sonno non copre l’immensa paura di vivere un evento epocale con poche armi a disposizione per affrontarlo.

Passano lentamente i giorni. Prime sommosse nei supermercati, comportamenti psicotici, caos. E in più, il calcio che si ferma. Nel mio cervello frulla la convinzione di accantonare lo sport e cimentarmi nel racconto dell’emergenza Covid ai calabresi. D’altronde, ambizione e desiderio di migliorarsi fanno parte del DNA dell’uomo.

Sento la necessità epidermica di dar voce ai diretti interessati. Il mezzo di lavoro, naturalmente, diventa Skype. Parte la registrazione, cinque minuti di intervista e poi un veloce ringraziamento nella speranza di incontrarsi presto. Abituato all’aria da stadio da ormai diversi anni e costretto ora a dovermi relazionare attraverso un telefono. Entusiasmo alle stelle, con un pizzico di indiscutibile amarezza: il giornalismo è adrenalina, voglia di viaggiare, emozioni davanti alla telecamera. E invece, ai tempi del Covid, una piccola stanza da letto diventa magicamente lo studio di registrazione più attrezzato che possa esistere. Con la fioca luce della lampada, un sordo rumore dei tasti del pc e l’accartocciarsi dei fogli di carta a far da compagnia.

Son venuto a contatto con molte realtà, sia a livello locale che nazionale. Mi sono spinto, addirittura, in un collegamento oltreoceano per rendermi conto di quanto un minuscolo virus sia stato in grado di sconvolgere gli equilibri del sistema mondiale. Ho ricevuto testimonianze di coraggio, paura, disappunto, inettitudine di fronte alla nuova situazione.

La triste verità è una sola, molto chiara: siamo esseri umani, tutti indistintamente accomunati da una natura effimera e capricciosa. Dove sta, dunque, la nostra salvezza, dove il senso del nostro vivere? Semplice. Basta praticare il bene verso il prossimo, tendere una mano in segno di aiuto, coltivare amore e rispetto.

La società contemporanea è contrassegnata dalla cosiddetta crisi delle evidenze etiche comuni: in soldoni, la rincorsa al successo economico ci ha condotti a sentimenti di solitudine, vuoto esistenziale, profonda incertezza.

Antonio, 21 anni, Isca Sullo Ionio (CZ), Studente di Lettere Classiche

 


 

Leggendo il libro “Pietre di pane ” mi viene in mente mia zia e in ogni racconto del libro mi si delinea sempre di più la sua esperienza di vita. Come lei, molti dei suoi affetti e delle sue conoscenze sono in giro per il mondo, partiti con la speranza di una nuova vita, in un paese nuovo, in cui spesso hanno dovuto fare i conti con il razzismo perché provenienti dal Sud. Mia zia è partita per andare a studiare e, poi, per lavorare al Nord negli anni ‘80, anni durante i quali molti paesi della Calabria dovettero iniziare a fare i conti con lo spopolamento e l’abbandono. Ogni volta che andiamo a trovarla a Milano ci accoglie col suo sorriso e un fortissimo abbraccio caldo come il sole sulle spiagge della Calabria, i suoi occhi sono quasi commossi e si può cogliere la gioia di chi, seppur per poco tempo, ha la fortuna di avere un po’ della propria terra con sé. Senza neanche rendersene conto inizia a parlare nel nostro dialetto, beccandosi così la sgridata da parte di suo figlio, ma lei risponde dicendo che è una delle poche occasioni che ha per rispolverare la sua lingua. Puntualmente, le portiamo il pacco da giù contenente: salumi, l’olio buono, l’origano e tanti barattoli; zia dice che ogni volta che ne apre uno ricorda il sapore delle conserve che faceva la sua mamma, quando per mangiare durante l’inverno gli ortaggi bisognava metterli nei vasetti in estate e ogni volta dice: “Questa estate verrò giù ad aiutarvi anche io!”. Nel suo sguardo si può cogliere quella velata malinconia – che accompagna quotidianamente e in alcuni periodi si accentua ancora di più, chi come lei è andato a vivere a molta distanza dal posto in cui è nato – e allo stesso tempo la speranza di ritornare fisicamente nella sua terra, così prova a fare un patto con se stessa e col futuro. Quando vado a mangiare nel suo ristorante mi mostra orgogliosa il suo pane e dice: “Guarda che bel pane che abbiamo imparato a fare anche noi a Milano, però non è buono come quello che faceva nonnina al forno a legna!”. Così inizia a raccontarmi di quando lei era bambina e il pane lo si cuoceva ai forni a legna della comunità, quando fare il pane era un evento collettivo che consisteva in diverse operazioni: si iniziava con l’andare a raccogliere la legna per poi preparare tutto l’occorrente, al punto che fra preghiere, acqua, lievito, farina e sale si impastava e si lasciava crescere; tutto si svolgeva in maniera quasi religiosa. Zia mi parla di come era il paese in cui oggi vivo e nel quale ieri, in netta contrapposizione ad oggi, le case si contavano sulle dita della mano e i campi coltivati erano tanti. La mia attenzione viene catturata quando mi spiega come si svolgevano i momenti di aggregazione comunitaria, ai quali prendeva parte soprattutto da bambina e mi parla della festa del Corpus Domini durante la quale i bambini avevano un compito molto importante: andavano in giro tra i boschi e i campi a raccogliere petali dei fiori che sarebbero poi stati gettati sulla strada al passaggio del Santissimo. Poi ancora ricorda la festa della Madonna della Serra che era un importantissimo appuntamento comunitario di fine Luglio. Quando torna giù da noi è una festa, è sempre un’occasione per riunire parenti e conoscenti. Presto però, durante la sua permanenza viene presa dalla malinconia per ciò che ha lasciato dalla parte opposta dello stivale. Quando le chiedo se si sente più del Sud o del Nord ha difficoltà a rispondere, dice di essere a metà poiché è influenzata da diversi modi di vivere che si somigliano e si contrastano; quindi, è come se si dividesse in due rimanendo una sola.

Francesco Massimo, 21 anni, Montalto Uffugo (CS), studente di Lettere e Beni Culturali

 


 

21/05/20

Che anno il 2020! Quante problematiche abbiamo dovuto affrontare e quante ancora sulle quali si deve ancora insistere. Da pochi giorni è iniziata la “fase 2”, che non segna la fine di questa pandemia, ma ci permette di prendere un po’ più di aria, per uscire da quelle case che, per alcuni, sono diventate luoghi di riflessione, oasi di pace dalla frenesia di tutti i giorni; ma per altri queste sono state gabbie da cui non poter scappare. È ovvio che la quarantena ci abbia cambiati, che mi abbia cambiato sia dentro che fuori. Oltre al mio aspetto, la barba e i capelli lunghi, anche la mia percezione degli spazi è diversa. Il lockdown ha cambiato le persone, ma anche i luoghi. E di questo me ne sono reso conto quando, in quelle poche volte che uscivo per portare fuori il cane, vedevo che le strade erano occupate da cani randagi, che erano diventati i nuovi abitanti del mio piccolo paese. Vie, vicoli, corsi e piazze senza vita solo adesso, lentamente, iniziano ad essere ripopolate. L’uomo è un animale sociale, ed anche persone come me, che non escono con una certa frequenza, hanno sentito la mancanza, mancanza dei luoghi e delle relazioni sociali. Anche la mia casa, che è il luogo in cui ho vissuto fino ad adesso, è iniziata a starmi stretta. Ho provato nostalgia di quelle piccole cose alle quali non facevo caso, di tutto quello a cui prima non davo importanza.

Il virus ci ha allontanati, è vero, ma ci ha anche avvicinati. Ci ha avvicinato agli anziani, che sono stati e sono ancora in pericolo. Penso a mia nonna, che ha la bellezza di 89 anni ed è affetta dalla demenza senile. L’età e la malattia l’hanno resa ormai incosciente. Dico questo perché prima del confinamento, quando la guardavo, mi chiedevo fino a che punto avesse senso chiamarla per nome, parlarle o chiederle come stava. Fortunatamente la situazione in Calabria non è poi così critica ed adesso, sempre con le dovute precauzioni, posso farle visita e guardarla con occhi nuovi. Non tutti i mali venngono per nuocere. Certo, sta a noi rimanere vigili e pronti a cogliere quanto c’è di buono anche nei momenti più brutti. Io non so quando si troverà la cura e non so se il virus ritornerà prepotentemente. La mia unica speranza è che ognuno custodisca con cura tutto quello che è successo, sia le morti che le guarigioni, sia le vittorie che le sconfitte, perché solo la memoria può salvarci. La memoria ci permette di non commettere di nuovo gli errori fatti.

Pasquale, 21 anni, studente del corso di Lingue e Culture Moderne, Rizziconi (RC).

 


 

E poi tutto cambiò…

“Ma ve lo ricordate l’inizio? Sono realmente passati due mesi o forse due anni? Tutti i giorni uguali senza percezione del tempo, tutto amplificato: emozioni- felici poi tristi- un’altalena di stati d’animo. L’ importante è che finalmente vediamo un po’ di luce fuori dal tunnel”.

Lunedì 4 maggio 2020

Erano le nove in punto, quando improvvisamente mi svegliai colta da un rumore che proveniva dalla campagna circostante. Il sole era già alto nel cielo ed entrava qualche raggio dalla mia finestra. Mi alzai perché non avevo più sonno e mi misi a programmare la mia nuova giornata. Il 4 maggio era una data molto importante e tanto aspettata dagli italiani perché sanciva l’inizio della cosiddetta Fase 2, cioè la fase della convivenza con il virus. Dopo una Fase 1 molto difficile e molto sofferta a causa, appunto, del Covid-19, meglio conosciuto come Coronavirus, si poteva tornare un po’ alla normalità. Una normalità fatta di persone. Finalmente potevo andare a trovare i miei parenti che mi erano mancati tantissimo durante la quarantena. Ci eravamo solo visti e sentiti attraverso le telefonate e le videochiamate e quindi, per me era una gioia immensa tornare a rivederli dal vivo. Mi erano mancati, infatti, i miei cari nonni che sono la colonna portante di tutte le famiglie – credo- e con i quali non ti annoi mai per le belle storielle del passato che ti raccontano. Inoltre, ho potuto rivedere anche i miei zii e i miei adoratissimi cugini, che sono come fratelli.

Uscendo di casa, però, ho avvertito subito una strana sensazione di estraneazione, come se lo stesso paese che conoscevo prima dello scoppio della pandemia fosse in un certo senso cambiato. C’era, infatti, un’atmosfera diversa dal solito: non si sentivano e non si vedevano i bambini giocare nelle “rughe” come prima e non c’erano nemmeno le tante persone che camminavano a piedi o che si vedevano, comunque, in macchina.

Ma la cosa che mi è parsa ancora più strana, è stata quella di vedere in giro alcune persone che portavano guanti e mascherina (cosa che finora avevo visto solo in tv), e come io stavo per fare, entrando al supermercato. In quel momento, mi accorsi che tutto era cambiato: le persone, i luoghi non erano più quelli di prima. E allora, fui presa da una nostalgia angosciante per i tempi passati, quando si poteva uscire liberamente e senza alcuna costrizione. Ora, l’unica cosa da fare è ABITUARSI.

“La cosa più bella è tornare a sfiorarsi anche solo per un secondo, la cosa più bella è tornare a sentire il calore delle persone che amo e che mi sono mancate durante questi due mesi di lontananza” (Antonella Nirta, 04/05/2020) .

Antonella, 19 anni, San Luca (RC), Studentessa di Lingue e Culture Moderne


 

Diario di quarantena di una ‘’matricola spezzata’’

9 marzo 2020: questa la data del lockdown, data memorabile per l’Italia che, per la prima volta, nella storia, dopo la seconda guerra mondiale, si paralizza completamente. Non era mai successo che un’intera nazione e, successivamente, tanti altri paesi del mondo si bloccassero a causa di una pandemia, di un  terribile virus che ha portato alla morte centinaia di migliaia di persone e ha provocato la più grave crisi economica dopo quella del 1929. Chi avrebbe mai potuto pensare che un microscopico virus potesse mettere in ginocchio il nostro pianeta in così poco tempo? Eppure il Covid-19, comunemente chiamato Coronavirus, ha fatto ciò che mai nessuno poteva immaginare, cioè portare la civiltà della mobilità all’obbligo dell’immobilità. A questo punto, io tornerei indietro di circa due mesi, per poter raccontare la mia storia interiore e ciò che ho vissuto e che sto continuando a vivere, in questo tragico momento della nostra storia. Premetto che per me è molto difficile raccontare e soprattutto mettere per iscritto le mie sensazioni, le mie emozioni, ma anche le mie ansie e le mie paure, ma tenterò di fare un viaggio dentro me stessa con l’obiettivo di tirare fuori tutta la sofferenza, l’angoscia e il disagio che ho provato, soprattutto all’inizio di tutta questa storia e che, purtroppo, credo resteranno, in parte, dentro di me per sempre. Il mio sarà un vero e proprio ‘’diario segreto ’’, come quello che avevo iniziato a scrivere quando avevo 11 anni ma che, per paura che qualcuno potesse scoprire i miei piccoli segreti, interruppi solo dopo aver scritto cinque pagine. Per tale motivo il mio linguaggio sarà semplice e colloquiale, direi quasi intimistico, perché ciò che scriverò saranno appunti del mio quotidiano, bozze e schizzi dei miei pensieri, ricordi e riflessioni su me stessa, sulla mia famiglia e su tutto ciò che mi circonda. Sarà una sorta di dialogo con me stessa per avere memoria di ciò che sto vivendo in questo momento drammatico della nostra storia e, quindi, sarà anche per me come una terapia per superare, con più consapevolezza, lo stato emotivo di questo periodo catastrofico.

Tutto cominciò, per me, sabato 22 febbraio. Ricordo bene questa data, perché quel giorno avevo appena concluso l’esame di Letteratura italiana, superato brillantemente, ed ero al settimo cielo. Mentre mi stavo godendo quel momento di felicità, avendo appena concluso il terzo esame della mia prima sessione universitaria, mi accinsi a telefonare a mia madre per darle la bella notizia. Dopo averle comunicato l’esito dell’esame, mia mamma mi informò su ciò che stava accadendo in Lombardia e nel Veneto e mi spiegò che il famigerato ‘’virus cinese’’ si era diffuso, a macchia d’olio e in soli due giorni, proprio in quelle zone. Io che non avevo seguito nulla delle notizie nazionali, in quanto il mio pensiero, nei giorni precedenti, si era concentrato sull’esame che dovevo sostenere, in quel momento abbandonai quello stato di ebbrezza che mi aveva procurato il 30 appena ricevuto e ritornai con i piedi per terra, alla cruda realtà. Riflettei sul fatto che quel virus che sembrava così lontano, che si pensava appartenesse solo alla Cina e che da lì non potesse arrivare (almeno era questo che ci avevano assicurato i nostri governanti), in pochissimi giorni si era diffuso anche da noi. Chi poteva, però, immaginare che da quel momento sarebbe diventato il nostro peggiore incubo! Io però, rientrando da Cosenza a Vibo Valentia, ancora non mi ero resa conto della gravità di ciò che da lì a poco sarebbe accaduto. Fra me e me pensai che finalmente, dopo più di due mesi passati letteralmente chiusa a casa per studiare, avrei potuto godermi quei giorni di ‘’libertà’’, visto che avevo concluso la sessione invernale e per l’inizio delle lezioni del secondo semestre, ancora mancavano parecchi giorni. Arrivata a casa, quella sera non seguii i telegiornali; il mio unico pensiero fu quello di incontrarmi con il mio ragazzo, che non vedevo da parecchio tempo e quindi passai la serata con lui. Rientrata in tarda serata, dato che non riuscivo a dormire, decisi di leggere qualche articolo sul web, per informarmi su ciò che stava accadendo a Codogno e a Vò Euganeo e per avere qualche notizia in più su quel maledetto virus. A quel punto cominciai a realizzare quello che stava succedendo. Solo allora capii che quel momento sarebbe stato l’inizio della fine della mia vita da matricola universitaria, e per questo motivo io ora mi definisco ‘’ matricola spezzata’’ perché il virus ha spezzato la normalità del percorso universitario di una studentessa, al primo anno di Lettere e Beni Culturali. Realizzai anche che quel periodo tanto atteso di tranquillità e spensieratezza, molto desiderato dopo tanto stress e studio, non sarebbe mai giunto. In quel momento rammentai, tirando fuori i miei  ricordi scolastici, il pensiero di Leopardi espresso nel ‘’Sabato del villaggio’’ quando, concludendo la poesia, fa capire che la felicità è data solo dall’attesa di qualcosa che deve ancora arrivare. Ecco proprio questo capii quella sera e compresi anche che da quel momento tutto sarebbe cambiato per me, per la mia famiglia e per tante altre persone. Non posso dire di essere stata una veggente o di aver capito la gravità della situazione più degli scienziati, i quali, allora, dicevano si trattasse di un semplice virus influenzale, o ancor di più dei nostri ‘amatissimi politici’, che sin dall’inizio ci avevano illuso affermando che tutto fosse sotto controllo e che il virus sarebbe stato bloccato. Non ero e non sono una veggente, ma quando lessi che il Covid-19 colpiva soprattutto gli anziani e le persone con patologie gravi e immunodepresse pensai semplicemente a mia mamma e alla sua malattia. Pensai a come avremmo potuta proteggerla se il virus fosse arrivato anche qui in Calabria e in quell’istante mi tornarono in mente i momenti più bui della sua malattia e soprattutto la paura, già vissuta in passato, di poterla perdere. Fu allora che mi assalì un’angoscia terribile che nei primi giorni mi soffocò ma poi capii che se ero riuscita a superare, nella mia vita, momenti peggiori e mia madre era ancora con noi, sicuramente avrei potuto affrontare anche quest’altra durissima prova. Ho letto in questi giorni le parole del filosofo Galimberti il quale distingue l’angoscia dalla paura sostenendo che la gente, di solito, parla di paura, ma la paura ha sempre un oggetto determinato di cui spaventarsi. Galimberti afferma che il Coronavirus, invece, ha provocato, almeno nelle persone che non sono state colpite direttamente e non hanno perso i loro cari, l’angoscia che è un concetto differente perché non ha un oggetto determinato, non si sa da dove viene il pericolo e quindi si è sempre in uno stato di fibrillazione perenne. Qualcosa che assomiglia al terrorismo, in cui non si sa da dove viene l’agguato. L’angoscia è molto complessa da curare. Come dice Heidegger “non c’è nulla a cui agganciarsi” e allora si assumono atteggiamenti scomposti, pratiche e pensieri sbagliati. L’angoscia si può superare solo se si comincia ad accettare dentro di noi che la vita è precaria e incerta. Ed è quello che ho fatto io e in parte ho ricominciato a vivere considerando che questa ‘’pausa’’ dal mondo mi avrebbe consentito di curare la mia interiorità e soprattutto di apprezzare di più lo stare insieme ai miei familiari. Pertanto, la mia quarantena cominciò già parecchi giorni prima del blocco totale del 9 marzo. Ricordo solo due uscite prima di quella data ma, a scopo precauzionale, considerato lo stato di salute di mia madre, evitai di uscire. E quando mi capitava di vedere sui social gruppi di giovani che continuavano imperterriti a frequentare la movida notturna delle grandi città, nonostante le esortazioni a non uscire e a non fare assembramenti, io rabbrividivo e rimanevo allibita per le parole di questi ragazzi i quali dichiaravano, davanti alle telecamere degli intervistatori, che loro non si sarebbero mai chiusi in casa a vent’anni, perché quel virus non li avrebbe mai colpiti in quanto era un problema riguardante solo gli anziani e gli ammalati. Il solo pensare che tutti loro sicuramente avevano a casa nonni o zii o, comunque, parenti di una certa età e osservare la loro mancanza di umanità e affetto nei confronti dei loro cari, mi scioccava letteralmente! Era come dire “lasciamo morire gli anziani e gli ammalati, tanto loro non servono a nulla!’’. Tutto ciò mi fece pensare a ciò che avveniva anticamente nella città di Sparta dove un povero bimbo che nasceva malformato veniva buttato giù dal monte Taigeto o anche (e non credo sia un paragone azzardato) all’ideologia nazista che aveva portato allo sterminio di milioni di Ebrei, disabili, rom e omosessuali considerati come esseri inferiori. Ora, a distanza di due mesi, mi farebbe piacere risentire il parere di tutti quei ragazzi, alla luce del fatto che il Covid ha spezzato la vita non solo degli anziani e delle persone con patologie pregresse ma anche di tanti trentenni, quarantenni e cinquantenni in buona salute e persino di qualche ragazzino sotto i vent’anni. Per fortuna anche questi giovani ‘’incoscienti ed egoisti’’ il 9 marzo furono bloccati ed è ormai storia tutto quello che accadde da quel momento in poi. Io, a parte lo stravolgimento iniziale della mia quotidianità, cominciai ad apprezzare la mia vita dentro casa.  Non mi sentii prigioniera, anzi la mia casa, da quel momento in poi, divenne il mio rifugio dai mali del mondo, il mio ‘’nido caldo, raccolto in un’esistenza senza rapporti con l’esterno, ma brulicante di complici intimità e di affetti viscerali’’ (Bàrberi Squarotti). La  mia casa, per quanto già abbastanza spaziosa,  è come se si fosse dilatata. Per me è come se tutto lo spazio del mondo esterno fosse entrato in questi 180 mq. e anche l’aria, che normalmente dentro sembra opprimente, è come se all’improvviso si fosse purificata perché non contaminata dal virus. Per spiegare cosa rappresenta per me la casa, in questo momento, potrei utilizzare la locuzione latina di Orazio ‘’angulus ridet’’ che tradotta liberamente significa “’quest’angolo di terra più di ogni altro mi rende felice’’. Sì, mi rende felice perché ho ricreato il mio nuovo mondo. La casa è la mia università, rappresentata da un piccolo schermo del computer; è la mia palestra costituita dal tappeto rosso della mia stanza, dove ogni giorno mi alleno per tenermi in forma; è la mia biblioteca composta dai libri sugli scaffali della mia stanza e dalla mia piccola scrivania dove quotidianamente studio e prendo appunti durante le lezioni online. Per non parlare della cucina che è diventata la piccola pasticceria di famiglia e la migliore pizzeria di Vibo Valentia. Non avrei mai pensato in vita mia di saper cucinare qualcosa di buono! Non ho mai amato la cucina, diciamo che a Quattromiglia cucinavo l’essenziale per nutrirmi e sopravvivere. In questi giorni di quarantena, invece, ho scoperto di non essere negata per la cucina. Ho preparato dei dolci saporitissimi, che non avrei mai immaginato di poter fare, e poi ho impastato chili e chili di farina che hanno dato vita a pizze saporitissime. E poi il divano della mia casa, assieme allo schermo della mia TV, ultimamente sono diventati il cinema più accogliente della città perché la sera manda in onda i più bei film in prima visione e le più belle serie tv del momento. Infatti, quando arriva la sera è davvero piacevole ritrovarmi con mia mamma davanti alla TV, cosa che non avevamo mai fatto prima, e scoprire che anche lei ha i miei stessi gusti cinematografici scegliendo film romantici e strappalacrime che ci fanno tanto sognare. Ed è bello sognare davanti alla TV perché i sogni che ogni notte facciamo sono solo incubi. Invece, i primi giorni in cui si era diffuso il virus, passavamo le serate a guardare in TV tutte quelle trasmissioni che davano notizie sull’andamento del virus e ascoltavamo le parole degli scienziati, dei virologi e degli epidemiologi di turno, che affollavano e ancora oggi affollano, tutti questi programmi serali d’informazione. Potrei fare tantissimi nomi da Burioni alla Gismondo, da Galli alla Capua, da Bassetti a Ricciardi, tutti pronti a straparlare ogni sera per esprimere la loro ‘’illustre’’ opinione. Ognuno di loro, sin dall’inizio di questa storia ha potuto dire tutto e il contrario di tutto su questo virus, gettando noi che li seguiamo da casa, nello smarrimento più totale e nella consapevolezza che forse loro, assieme ai membri del nostro governo, avrebbero potuto attenuare, se non evitare, la catastrofe che poi è avvenuta. Per questo a un certo punto ho deciso di non seguirli più in TV  e optare per i film e le serie TV. La visione delle trasmissioni sul virus in TV era devastante per il mio subconscio. Ogni notte mi svegliavo gridando e con le palpitazioni, a causa di qualche incubo angosciante. La stessa cosa accadeva a mio fratello e a mia madre. Io non ricordo mai nulla dei miei sogni ma merita di essere raccontato quello fatto da mia madre, in una notte dei primi giorni di quarantena. Una mattina di metà marzo si svegliò scossa, venne da me e mi disse di aver fatto un sogno inquietante che l’aveva turbata parecchio anche perché non sapeva come interpretarlo. Mi raccontò che nel sogno si vedeva sdraiata sul suo letto perché in preda a dolori fortissimi, cosa per lei abituale. A un certo punto, i dolori si attenuarono ed ebbe la sensazione che dentro la sua pancia si muovesse qualcosa. Provò dei brividi perché quel movimento le ricordava le sue gravidanze e lo scalciare dei piedini di un bimbo nella pancia. All’improvviso, però, quella dolce sensazione si tramutò in terrore, perché osservando il suo ventre in continuo movimento ad un certo punto, proprio nel centro, in corrispondenza dell’ombelico, si aprì un foro che fece fuoriuscire dalle viscere di mia mamma una specie di tronco verde che cresceva su di lei velocemente, ramificandosi da tutte le parti e occupando tutto lo spazio sovrastante e l’intera camera, rompendo anche le pareti per insinuarsi nelle altre stanze della casa. Ascoltando quel racconto io rimasi pietrificata. Forse uno psicologo avrebbe dato una spiegazione più corretta a questo sogno ma anch’io ho cercato di dare due opposte interpretazioni al significato di esso. La prima spiegazione è pessimistica, anzi direi catastrofica. Ho inteso che quei rami che crescevano dal suo ventre potessero rappresentare il virus che prendeva il sopravvento sulla vita di mia mamma e non a caso tutto partiva dall’intestino, che è il suo organo compromesso. L’altra versione, diciamo positiva, dell’interpretazione del sogno, invece, è che alla fine, nell’esistenza di mia madre e della mia famiglia, abbia prevalso la vita, perché quell’albero verde e ramificato potrebbe essere il simbolo di una natura verde, rigogliosa e vigorosa, di una vita nuova che sconfigge il male, abbatte il virus e, pertanto, la morte.

Morte: che brutta parola! Eppure, se la interpretassimo in senso cristiano, essa rappresenterebbe l’inizio di una nuova vita, quella ultraterrena, quella che aprirebbe le porte delle tenebre, ma anche del regno dei cieli e quindi potrebbe diventare l’inizio di un bellissimo viaggio. Per me, però, essa rimane sempre il termine più orribile che ci sia. In questo periodo abbiamo imparato a convivere con quello che la morte rappresenta. Leggendo ogni giorno il bollettino della protezione civile mi sono resa conto che questa parola è stata mercificata, è stata ridotta ad un numero di vittime che il Covid ha mietuto in tutto il mondo quotidianamente. La cosa terribile è che chi ha perso la vita in questi mesi se n’è andato in solitudine, lontano dagli affetti familiari, senza il conforto di nessuno, senza una carezza, senza neppure un ultimo saluto e senza la celebrazione di un rito funebre. Il virus ha strappato vite, ha tolto la dignità di una sepoltura e ha fatto sì che ognuno piangesse in solitudine i propri cari. È stato straziante vedere in TV le immagini di tutte le chiese del bergamasco stracolme di bare adagiate per terra e poi portate via dai camion dell’esercito in luoghi lontani da quello dove si è vissuti sempre, per una cremazione sicuramente non scelta dalle persone decedute e né dai loro familiari. Con queste immagini, il ‘’dolore individuale’’ di ogni persona che ha perso i suoi affetti si è trasformato in ‘’dolore universale’’, come accadeva ai tempi dei due conflitti mondiali quando la tragedia accomunava tutti senza distinzione di razza, di religione, di condizione sociale. Quel dolore universale che in quel periodo ha unito una generazione di poeti i quali lo hanno urlato al mondo attraverso le loro strazianti poesie (solo per citarne qualcuno: Ungaretti nelle raccolte L’Allegria e Il dolore; Montale nelle liriche La bufera e altro; Saba in alcune poesie del suo Canzoniere). E anche oggi, questo maledetto virus ha annullato le differenze tra gli uomini e li ha uniti in un unico grido di dolore, ‘’perché il dolore è eterno, ha una voce e non varia ‘’( La capra – U. Saba). Ed è lo stesso dolore descritto da Leopardi nei suoi testi, il quale accusava la Natura di esserne la causa perché essa è una matrigna crudele che sottopone tutti gli uomini ad un perenne ciclo meccanicistico di distruzione e riproduzione, per consentire la conservazione del mondo. Del resto la Natura, nel corso dei millenni, ha dato sempre dimostrazione della sua potenza sull’uomo, attraverso  epidemie, terremoti, eruzioni vulcaniche, alluvioni e catastrofi naturali di ogni genere che hanno visto l’uomo sempre perdente, in questa lotta sbilanciata tra lui e la Natura. Certo, nell’ultimo secolo l’uomo ha raggiunto incredibili traguardi in ogni campo, ormai viaggia nello spazio ed è sceso persino sulla Luna, ma solo per questo si illude di poter dominare la Natura? E’ bastato un microscopico virus per far sì che l’uomo uscisse sconfitto, ancora una volta, da questa battaglia ciclica e millenaria contro di essa. Del resto la Natura non fa altro che ristabilire quell’ordine e quell’equilibrio compromesso dall’uomo moderno sempre egoista, calcolatore, superficiale, che è sempre convinto di avere il potere del controllo e di poter gestire eventi e situazioni. L’uomo è talmente egocentrico e si sente tanto onnipotente da non voler assolutamente capire che la Natura non va maltrattata e deturpata perché essa si ribellerà sempre e rimetterà sempre ogni cosa al suo giusto posto. Non è un caso che in questo periodo di immobilità per l’uomo ci sia stata una notevole riduzione delle emissioni di CO2 nel nostro pianeta e solo nella Cina siano diminuite del 25%. Non c’è neanche da stupirsi se alcuni animali selvatici, come i cerbiatti, si siano fatti vedere nelle città deserte o se fiori selvatici stiano crescendo ovunque provocando a loro volta un ritorno massivo di api. Il temporaneo blocco delle attività produttive e l’allentamento del ritmo di vita della società hanno permesso il recupero e la restaurazione di delicati ecosistemi minacciati da anni e anni di inquinamento e distrutti dalla ferocia dell’uomo. Credo quindi che la Natura, attraverso il virus, abbia voluto mandare all’uomo un semplice messaggio affinché capisca che questo pianeta va trattato diversamente per consentire la sopravvivenza di tutte le specie, compresa quella umana.  Mi auguro che in questa occasione l’uomo finalmente abbandoni l’ideologia della Scienza pensando che essa sappia fare meglio della Natura, perché la Scienza questa volta ha dimostrato di non avere armi per combattere questo virus, che ha seminato morte e dolore.

Ma che cos’è il dolore? è quella sensazione straziante avvertita da tutti gli ammalati di Covid, che è sia dolore interiore quindi dell’anima, sia dolore fisico  e quindi sofferenza, tribolazione ed affanno. Le vittime del Covid, e anche i loro familiari, sono stati costretti a sopportare il peso della Croce di questa terribile pandemia e il loro calvario ci riconduce a quello di Cristo che proprio nella Settimana Santa viene ricordato attraverso i riti pasquali che raccontano la sua Passione. Quest’anno però la Pasqua è stata diversa, è stata la Pasqua del silenzio, della riscoperta della preghiera recitata in solitudine, con le chiese vuote, le celebrazioni annullate e senza i riti secolari che ci hanno sempre accompagnato di generazione in generazione e che hanno sempre rappresentato per tutti il momento più atteso dell’anno a cui era vietato mancare. Qui a Vibo Valentia erano tre gli appuntamenti ‘’importanti’’ della tradizione pasquale: la processione delle ‘’vare’’, nel pomeriggio del venerdì santo, in cui venivano portate in corteo sei statue di Gesù Cristo raffiguranti i momenti più significativi della sua passione e morte, seguite in lutto dalle statue della Madonna Addolorata e San Giovanni; la processione della Desolata, che si svolgeva in tarda serata sino ad arrivare a notte inoltrata e che vedeva la partecipazione di un’enorme folla che accompagnava la statua della Madonna Addolorata; e, infine, la più importante di tutte, l’Affruntata che si svolgeva domenica di Pasqua e che proponeva il momento dell’incontro tra Gesù Cristo e la Madonna, con la partecipazione di San Giovanni che correndo, per tre volte, verso Maria le annunciava la resurrezione di Gesù. A quel punto alla statua della Madonna veniva sfilato il mantello nero( lo ‘’sbilamentu’’) segno di lutto, e si scopriva la veste celeste e bianca.  L’assenza di questi riti a causa del Covid ha reso la Pasqua sicuramente meno suggestiva e coinvolgente ma ha portato i fedeli alla meditazione e alla riscoperta di un sentimento religioso più intimo perché, a mio parere, la preghiera detta in silenzio è sicuramente più autentica di quella recitata in una chiesa affollata dove spesso si va solo per abitudine e dove ci sono persone che fanno ‘’vagare’’ i loro pensieri al di là della sfera religiosa. Anch’io quest’anno ho vissuto la Pasqua in modo differente. Di solito ero abituata a trascorrerla a casa dei miei nonni in compagnia dei miei cugini e dei miei zii. Ma quest’anno non è stato possibile. Ed è proprio in queste giornate di festa che allora ci si rende conto di quanto possano mancare determinate persone; ed è in questi momenti che la nostalgia prende il sopravvento. Guai se mancasse la nostalgia, perché essa è la più dolce di tutte le sensazioni che si possano provare. Essa è memoria, è ricordo struggente di cose passate, rimpianto malinconico di persone a cui vuoi bene ma anche di luoghi a cui sei affezionato. E devo dire che nonostante io, in casa, abbia raggiunto il mio equilibrio ora, dopo due mesi di chiusura totale, comincio a sentire la mancanza di tante persone, di tanti luoghi che frequentavo e di tante cose che facevo prima che arrivasse questo ciclone. Ciò che mi manca di più, in questo momento, è il contatto fisico con il mio ragazzo. Per fortuna, oggi, le videochiamate ci permettono di stare in continuo collegamento e di vederci sempre, ma la dolcezza di una carezza, il calore di un abbraccio, l’intimità di un bacio e l’intensità di uno sguardo ravvicinato non potranno mai essere sostituiti dall’immagine fredda di uno schermo, che ti impedisce di provare queste sensazioni che rendono l’amore qualcosa di speciale. Mi mancano anche i miei nonni che sono, come tutti gli anziani, le vittime della solitudine di questo momento. Mi mancano le risate e l’allegria delle mie carissime amiche con cui condividevo momenti di gioia e di spensieratezza. Mi mancano le passeggiate del sabato sera nella Vibo Valentia avvolta dalla nebbia e dall’umidità. Mi manca anche quella vita frenetica e stancante di Quattromiglia, a cui mi ero da poco  abituata, fatta di lezioni dal vivo, corse frenetiche per non perdere l’autobus, camminate sotto la pioggia per raggiungere i cubi più lontani dell’Unical. Mi mancano anche gli odori, come quello del legno bruciato emanato dal camino della casa dei miei nonni e l’odore fresco della scorza dei limoni che pendono dagli alberi del loro giardino. Mi mancano anche le urla fastidiose delle mie cuginette, che litigano sempre nelle domeniche e nei giorni festivi trascorsi in famiglia. E, infine, mi mancano pure i sapori dei piatti gustosissimi di mia nonna, sapori intensi che sanno di antiche tradizioni come quelli preparati nei giorni di festa, tipo l’agnello cucinato per Pasqua seguendo un’antica ricetta tramandata di generazione in generazione  o come le ‘’pitte pie’’ dolce tipico della tradizione pasquale vibonese, il cui nome richiama le figure delle tre Marie che accompagnarono Gesù sul Calvario.

A breve partirà la cosiddetta Fase 2 del coronavirus, che prevede la graduale riapertura delle imprese e dei negozi e consentirà di poter uscire, seppure con tante limitazioni. Quindi si proverà a ripartire ma con tanta ansia, perché sarà un periodo molto più pericoloso rispetto all’attuale fase in cui tutti siamo chiusi a casa e ci sentiamo più protetti. Sarà difficile ricominciare a vivere fuori dal nostro nido, perché ci sarà sempre la paura di poter contrarre il virus. E non sarà più come prima perché, con il distanziamento sociale, mancherà la libertà di abbracciare una persona cara, di starle vicino, di tenderle la mano e di toccarla e non ci sarà nemmeno la possibilità di vedere un bel sorriso sul volto di un amico, perché coperto da una mascherina. Pertanto la parola futuro attualmente mi genera solo ansia anche perché ancora non esiste un vaccino sperimentato sugli uomini o una cura efficace che consenta di guarire dal Covid. Sicuramente dovremo attendere parecchi mesi per poter stare tranquilli, mesi in cui tutto potrà accadere perché il virus potrà rallentare ma potrà anche scatenare una nuova ondata di contagi, peggiore della prima. Certo gli avvenimenti degli ultimi due mesi hanno lasciato un segno indelebile dentro di noi e ci hanno portato a riflettere sul senso della vita. Non tutto, però, è stato negativo in questo periodo perché sono emerse delle problematiche già esistenti, che la pandemia ha portato a galla, problematiche che se fossero state risolte prima avrebbero consentito una gestione migliore dei malati di Covid e si sarebbe evitata la morte di un gran numero di persone. Infatti, la sconvolgente situazione sanitaria che l’Italia ha vissuto in questi mesi, non è dovuta solo alla diffusione del virus, ma è da ricercare nei tagli sulla spesa sanitaria perpetrati negli ultimi anni che hanno portato alla mancanza di medici, di posti letto negli ospedali, soprattutto in terapia intensiva, e alla non reperibilità di materiale medico-sanitario come i ventilatori polmonari e i dispositivi di protezione individuale. Mi auguro che questa lezione possa servire per il futuro e che nei prossimi anni si possa investire molto di più nel settore sanitario. Spero soprattutto che si cominci a dare più valore al lavoro dei medici e degli infermieri, i quali hanno lavorato ininterrottamente per ore e ore, facendo straordinari non pagati e mettendo a rischio la loro vita e quella dei loro familiari solo per salvare quella dei loro pazienti. E spero che nella memoria per il ‘’domani ‘’ rimanga il ricordo del sacrificio dei 155 ‘’camici bianchi ’’ morti sul lavoro a causa del Covid. Inoltre, due momenti della storia di questo periodo rimarranno indelebili nella mia mente: l’immagine del Papa che durante la Settimana Santa attraversa una piazza San Pietro deserta e prega da solo davanti al Crocifisso, un’immagine potente e suggestiva, che racchiude dentro di sé il dramma di un’intera umanità e quella del Capo dello Stato, Sergio Mattarella, che, senza alcun seguito, rende omaggio ai caduti, all’Altare della Patria, in occasione della festa del 25 aprile, momento anche questo memorabile, perché simbolo dell’Italia che resiste e che anche questa volta non si arrende. E poi, per ritornare in ambito familiare, ricorderò sempre la dolce complicità ricreatasi tra me e mio fratello, in questo periodo di quarantena. Lui ha quasi 14 anni ed è di sei anni più piccolo di me. Ultimamente c’eravamo persi, vuoi per la mia assenza da casa a causa dell’università, vuoi per la mancanza di interessi comuni, dovuti alla differenza di età. In questi giorni mi sono resa conto di quanto lui fosse cresciuto e cambiato e di quanto abbia sofferto in questa delicata fase della sua vita adolescenziale. Ho notato la sua difficoltà ad adattarsi a questa nuova quotidianità dentro casa, che dimostrava nel non volere comunicare più con noi familiari e nel tentare di isolarsi dal resto della famiglia. Ho cercato di relazionarmi con lui e con il dialogo sono riuscita a capire il suo disagio nell’essere ancora considerato, da me, un bambino e non un ragazzo maturo, che ha bisogno del calore e delle attenzioni di una sorella maggiore, che non si era resa conto che il suo ‘’fratellino’’ era già cresciuto da tempo. È stato bellissimo ritrovare la stessa complicità che avevamo da bambini e questo è successo grazie a questa ‘’tempesta inaspettata e furiosa’’ che ci ha costretti in casa a ‘’ trovarci sulla stessa barca tutti fragili e disorientati ma allo stesso tempo importanti e necessari’’ (Papa Francesco).

Se tornassi indietro di qualche mese, quando ancora studiavo Letteratura italiana e leggevo le pagine del Decameron di Boccaccio, dedicate alla peste del 1348 a Firenze, sicuramente non avrei mai immaginato che anch’io, da lì a poco, mi sarei ritrovata nella stessa situazione dell’allegra brigata, chiusa in casa, per parecchio tempo, a causa di un’epidemia. Eppure il destino ha voluto che io vivessi un’esperienza simile, chiusa dentro casa ad ascoltare, nelle prime ore del pomeriggio, ‘’ i racconti’’ dei miei professori, mentre fuori imperversava la morte. Farò parte anch’io di una generazione ‘’ famosa’’, quella colpita dal Coronavirus, che ha dovuto lottare contro un nemico invisibile e tremendo, una generazione che finirà sui libri di storia e che, a distanza di secoli, verrà ricordata per questa terribile pandemia. Come ci insegna la storia, anche i momenti più bui servono per creare qualcosa di nuovo e di migliore. Infatti questa tragedia potrà essere un nuovo punto di partenza, un’occasione per trasformare una società, che si stava sgretolando, in un mondo migliore. Certo non sarà facile perché al momento il futuro appare incerto e non sappiamo cosa potrà accadere. Ma questi momenti di crisi insegnano che se non vivessimo le esperienze negative non riusciremmo ad evitarle nel futuro, né ad apprezzare quelle positive ogni giorno.  Concludo con le meravigliose parole del poeta Khalil Gibran: “Niente impedirà al sole di sorgere di nuovo, neppure la notte più oscura. Poiché oltre la nera cortina della notte c’è sempre un’alba che ci aspetta’’.

Valentina, 19 anni, Vibo Valentia, studentessa di Lettere e Beni Culturali

 


 

Fase 1

Sentirsi dire “Andrà tutto bene” spesso non rispecchia la realtà delle cose. Cantare l’inno sui balconi, non vuol dire che vada veramente tutto bene. Ultimamente ci sono davvero poche cose che vanno bene. Sappiamo perfettamente che, a Dicembre, un nemico invisibile ha messo piede sul nostro pianeta, appropriandosi poco alla volta di tutto ciò che ci appartiene da sempre: le nostre abitudini quotidiane, la nostra libertà… le nostre vite.
Cosa sarà mai? Un segno mandatoci dal cielo? O dalla natura ormai stanca degli abusi?
Da sempre l’uomo a causa della sua prepotenza sfida il potere di Madre Natura… irresponsabilmente manca di rispetto a tutto ciò che essa ci ha donato gratuitamente; dà fuoco a ciò che rappresenta i polmoni della Terra: alberi, piante, fiori; inquina le preziose acque indispensabili per la vita; uccide animali di un valore inestimabile agli occhi della natura stessa. È così che la ringraziamo?
Probabilmente è giunta l’ora del riscatto e noi paghiamo lo scotto del male fatto in passato, e chissà che non continueremo a pagarlo nel futuro.
Ma tutto ciò a cosa porterà? Esiste un obiettivo recondito di tutto questo sfacelo? Di certo, ci conduce ad una profonda riflessione e ci fa realizzare che siamo come la poetica Ginestra che subisce la superiorità del Vesuvio: Leopardi affermava che l’uomo non può far altro che piegarsi al potere della natura e accettare la sua prepotente superiorità.
Siamo ormai costretti in casa da giorni. Ognuno ha cercato di impiegare il proprio tempo nelle maniere più disparate: imparare a cucinare, dedicare più attenzioni ai bambini e molti, purtroppo, hanno dovuto scontrarsi con la perdita del proprio impiego e con la consapevolezza di arrivare con difficoltà alla fine del mese.
Negli ospedali, ci sono coloro, che paragonati a moderni supereroi, lottano ogni giorno per salvare vite umane; e poi ci sono quelli che, invece, combattono per restare in vita, come se camminassero lentamente sul filo di un rasoio facendo attenzione a non cadere giù.
È veramente toccante ascoltare il Telegiornale ed assistere a tragici scenari e in un contesto quasi surreale, annoverare ogni giorno numeri elevati di caduti a causa di questo orribile mostro.
La cosa più triste è sentire della morte di persone anziane da sole, senza aver avuto la possibilità di dare un ultimo saluto ai propri cari, senza avere diritto agli onori di una degna sepoltura. Per i più giovani, è altrettanto straziante non poter andare a fare visita ai propri nonni, ai propri zii, alle persone anziane a noi tanto care, per non rischiare di mettere a repentaglio la propria salute.
Proprio oggi ho assistito ad una scena davvero molto commovente: un bambino salutava la nonna dal balcone, augurandole una buona notte e dicendole di volerle bene. Quanto deve essere dura per un nonno poter godere dell’affetto del proprio nipotino solo a distanza e avere ancor meno tempo a disposizione, per fargli capire quanto bene provi per lui. Perché si sa, un nonno ti ama più degli altri, forse perché consapevole che ti dovrà lasciare prima di tutti.
“Bisogna mantenere le distanze” dicono, perché non bastava già tutto il male che c’era attorno a noi, adesso non possiamo neanche lenirlo con un abbraccio. “Bisogna indossare le mascherine” continuano a dire imperterriti. E dei sorrisi? Cosa ne faremo? Vedere i sorrisi di chi ci sta a cuore spesso cambia il nostro umore, ma adesso? Adesso non ci resta che sorridere con gli occhi. Non resta che guardarci da lontano e volerci bene anche così.
Mi mancano le mie lunghe passeggiate sul lungomare ascoltando musica, che rasserena l’anima, esplorando le strade più antiche, osservando le vecchie cabine della Telecom abbandonate a se stesse, quando invece un tempo ospitavano interminabili file di persone che aspettavano di poter fare “lo squillo” o la breve, ma intensa telefonata a qualcuno di importante.

Mi manca andare in spiaggia, mi manca la sensazione che si prova affondando i piedi nella sabbia. Abitando sul mare, godo però del suo profumo, del suono delle onde, balsamo per i miei pensieri più tristi; mi manca guardare i tramonti, leggendo sulla riva un buon libro. Assisto a questo miracolo dalla mia stanza, che ogni giorno sembra essere sempre più piccola e stretta. Avverto la nostalgia della mia città, delle sue case e delle sue straordinarie bellezze.

Mi mancano le mie compagne di vita, sempre presenti nella gioia e nel dolore. Mi mancano le uscite aspettando l’alba e le “sedute confessionali” nel nostro posto segreto quando siamo giù di morale.

In questo periodo pieno di ansie e paure, dobbiamo accontentarci della “presenza” virtuale: le videochiamate e i messaggi sono sempre all’ordine del giorno e migliorano le giornate lunghe e noiose, lasciando spazio ai sorrisi.
Abbiamo dovuto rinunciare anche al tradizionale rituale della Pasquetta con le amiche che ci voleva rigorosamente all’aria aperta. Stiamo trascorrendo più tempo con la famiglia, con una maggiore consapevolezza che le cose davvero importanti si trovino già al nostro fianco.
Quest’anno ho dovuto rinunciare al consueto “giro dei Sepolcri”… abitudine religiosa alla quale sono particolarmente affezionata e con esso son venuti meno i classici ironici commenti: “Bisogna visitare un numero di Sepolcri dispari, ne facciamo 5 o 7?” “Quello di Santa Chiara era più bello di quello del Duomo però” e tanti altri fatti anche solo per ridere.
Molti il Sepolcro lo hanno allestito a casa. La tradizione vuole che almeno un simbolo venga esposto. Tutto ciò perché le Chiese sono chiuse, ed è per me molto triste immaginarle desolate, specialmente nel periodo della Pasqua, un momento di festa tanto bello e pieno di gioia; chissà che quel “demone” a cui riserviamo tanta rabbia, voglia allontanare tutti i credenti dalla “Casa di Dio”, dimenticando che la vera Chiesa è edificata nelle nostre case e nei nostri cuori.
Un lungo periodo di reclusione che si spera abbia indotto ognuno di noi a riflettere sui valori più importanti della vita; che tanta sofferenza sia riuscita ad aprire i nostri cuori, proiettandoli verso un mondo nuovo fatto di bene.
Qualcuno ne uscirà cambiato, spaventato e allo stesso tempo consapevole. Consapevole di avere ciò di cui abbiamo bisogno intorno a noi; consapevole che il tempo sia l’unico bene davvero prezioso che possediamo e soprattutto capace di comprendere che il male fatto prima o poi tornerà indietro come un boomerang.

Libertà apparente
La fase 2 si può riassumere con la semplice espressione di un ritorno alla libertà, alla normalità e alla vita quotidiana, ma stiamo verificando che non sia così. Le persone sono sempre più spaventate.
La paura dell’altro prende il sopravvento. Sembra di trovarsi in un videogioco in cui sono tutti contro tutti.
Passeggiando per le strade del lungomare, ho avvertito un velo di tristezza nell’osservare tutta quella gente con le mascherine che cerca in qualche modo di proteggersi, ma da chi? Da cosa? Da qualcosa di invisibile. Mi sembra tutto così surreale!
L’angoscia aumenta quando vedo un bimbo di un paio di anni, che indossava la visiera protettiva. Lui come altri bimbi innocenti e inconsapevoli, non meriterebbero di assistere a questo scempio. Sono interrogativi che rimbalzano nella mia mente, mentre cerco di distrarre il pensiero ascoltando un po’ di musica.
Finalmente riesco ad andare in spiaggia a parlare con il mare… Ho respirato il suo profumo e mi sono sentita di nuovo a casa. La paura ha lasciato spazio alla tranquillità, mentre confesso alle onde quanto mi siano mancate in questi due lunghi mesi.
Andare a far visita alle “nonne” del quartiere mi era mancato tanto. Sentivo la forte nostalgia di poterle riabbracciare e poter ascoltare i loro racconti di gioventù. Mi era mancata in particolar modo nonna Lina, la “nonna della porta accanto”, con i suoi lunghi sfoghi e pianti per niente rassegnati per la non recente perdita, del suo splendido e giovane nipote; i suoi racconti sulla guerra e sul suo primo ed unico amore. A volte penso che mi piacerebbe rivivere gli anni Sessanta, quando l’amore cominciava e finiva… Ah no, non finiva mai.

E improvvisamente è giunta la Primavera e con essa il mese di Maggio tanto caro ai crotonesi, come me carichi di un forte sentimento religioso. È a Maggio che ricorre la festa della Madonna, patrona della nostra città.
L’Ufficio Stampa del Comune ha appena trasmesso la notizia che la “festa non potrà avere luogo”. Niente confusione, niente giostre, niente fiera, niente pellegrinaggio, niente di niente.
Un brivido mi percorre la schiena quando, malinconica, penso a quanta allegria portasse questa festa, che ora non potremo celebrare; a quanti portantini anziani desiderassero festeggiare questo rito, portando sulle spalle ormai da anni la Madonna. È una festa antichissima, della quale mia madre mi ha mostrato vecchie immagini con i portantini in cammino verso il santuario di Capocolonna, 14 km a Sud rispetto alla città. “Mamma, ma questo chi è, zio Cecè?”le domando. Zio Cecè, sin da piccolo, ha sempre portato sulle spalle la sacra effige e in quella foto era un
giovane uomo, ma la sua fisionomia è rimasta la stessa nel tempo. Mia madre sorride alla mia domanda, pensando a quanto lui avrebbe desiderato portare ancora per un po’ il grande quadro della Madonna, mentre oggi, probabilmente sta accanto a lei.

(Ieri) (Oggi)

Ripenso a quante cianfrusaglie abbia sempre comprato alla fiera; i giri sulle giostre più pericolose mentre osservavo mamma preoccupata che mi diceva “figghjcé, non salire, fallo per mamma tua!”. Ma gli adolescenti non ascoltano mai, hanno sempre voglia di provare la giostra nuova che produce tantissima “adrenalina”.
Un pensiero malinconico è rivolto al pellegrinaggio: tradizione vuole che ogni anno nella notte tra il Sabato e la Domenica della terza settimana di Maggio, il quadro venga accompagnato dalla Cattedrale fino al santuario di Capocolonna; nel suo cammino che segna anche il passaggio onirico dal buio alla luce, la Madonna è scortata dal suo popolo che in silenziosa preghiera cammina insieme a lei. Esperienza emozionante che almeno una volta nella vita tutti dovrebbero conoscere. Anche coloro ai quali questa tradizione non appartiene dichiarano che il pathos religioso che si respira in quella notte abbia qualcosa di irreale. Una fiumana di gente devota affronta la lunga strada fatta di interminabili curve, salite e quell’ultimo breve e al contempo interminabile tratto denominato “rettilineo”. Si giunge stanchi e nell’aria umida e rosata dell’Aurora, si scorge finalmente la meravigliosa chiesetta, che quasi come in un gioco magico, fa ritrovare l’energia che consente di affrettare il passo per poter arrivare alla agognata meta.

Quest’anno, per la prima volta, è stato diverso. Crotone non era in festa, nonostante fosse possibile uscire. Nessuna luminaria, nessuna bancarella con le caramelle e i tarallucci, nessun quadro trasportato dai buoi… solo deserto. Sono andata a toccare la porta della Cattedrale, come se fossi arrivata alla porta del santuario e ho chiesto la mia grazia, come tutti gli anni. Quest’anno, forse, più consapevole di ciò che stavo chiedendo.
Il pellegrinaggio è stato affrontato dal nuovo Vescovo che ha fatto le veci della popolazione tutta, desideroso di vivere in prima persona questo antico rituale. Diversamente dagli altri anni, l’immagine sacra, ha fatto visita agli ammalati, nell’Ospedale e si è poi recata in ogni quartiere e ogni strada, benedicendo tutta la città. Ad accoglierlo vi erano tutti i cittadini, chi affacciato al balcone, chi per strada, con tanto di mascherina e, come ogni anno, tanti biglietti colorati con su scritto “Viva Maria” svolazzavano nell’aria.
Sono state tante le preghiere, specialmente per tutti gli ammalati e soprattutto per porre fine a questo tragico periodo. La fase 2 non è ancora passata, probabilmente anche la fase 1 non è ancora passata, però basta alzare lo sguardo ed ecco che i primi locali iniziano ad aprire e la gente inizia a muoversi più liberamente per la strada, riprendendo in mano la propria vita. Alcuni timorosi, altri con molto coraggio e sfacciataggine si aggregano e circolano per le strade senza mascherina, senza addirittura preoccuparsi della propria incolumità e di quella degli altri. Questa è la conferma che l’uomo non imparerà mai, nonostante la pandemia, le morti e gli sforzi svolti dai medici e da tutti i servizi sanitari in questo periodo di “clausura” per poter evitare il peggio. E tra lo sbocciare di un Biancospino e di una Camelia, ecco che sta per finire un’altra meravigliosa primavera: le strutture balneari timidamente erigono gli ombrelloni in attesa di un’estate indimenticabile, ricca di luce, speranza e rinascita, proprio come i fiori in primavera.

Maria Francesca Pia, 19 anni, Crotone, studentessa di Lettere Moderne.


 

UN MONDO IN QUARANTENA

Siamo stati colpiti da una brusca ed inattesa pandemia che ci ha, purtroppo, costretti a rimanere chiusi dentro casa senza la possibilità di avere la libertà che ci appartiene. Non è stato semplice tentare di abituarsi ad una situazione del genere; inevitabilmente, è stato necessario riadattarsi e capire il meccanismo che è stato avviato. Senza dubbio, il tempo per fare tante cose che, fino ad oggi, non ho avuto tempo di fare, non manca, anche se, in fin dei conti, non mi avanza in modo eccessivo! Vivo con la mia famiglia e la convivenza non mi pesa troppo se non per il fatto che la mia famiglia comprende quattro maschi (ndr). Ho vissuto per cinque mesi a Rende per poter frequentare l’università, quindi, quando il fine settimana tornavo a casa era come se la mia camera mi sembrasse strana, distante ma, tuttavia, ciò è cambiato da quando sono stata costretta a viverci quotidianamente di nuovo.  Scrutandola con attenzione mi rendo conto di come in essa sia racchiusa la mia vita fin da quando ne ho memoria… La pandemia ci ha portato, in qualche modo, a distaccarci dal mondo esterno, perdere il contatto con ciò che è fuori dalle mura domestiche e le notizie che ci giungono sono sicuramente date dai mass media che ci permettono attraverso la televisione, il web e i social network di tenerci aggiornati sulla condizione in questo momento; alla positività di ciò si va, però, a legare anche qualche fattore negativo: i mass media trasmettono informazioni che, spesse volte, possono creare delle situazioni di panico che non tutti sono perfettamente in grado di gestire! Sicuramente, questa situazione ha permesso a molti di noi di riscoprirci, ritrovare il dialogo che alcune volte può mancare all’interno di una famiglia, andando, in qualche modo, ad allentare tensione che può essersi creata nel tempo così come, sotto alcuni punti di vista, ad aumentare questa tensione. Un ruolo fondamentale, certamente, è quello di internet, degli sms, delle e-mail e delle telefonate che hanno reso possibile la comunicazione con affetti che, purtroppo, erano lontani da noi, anche se di poco. Io, per esempio, ho avuto la possibilità di sentire spesso il mio fidanzato e le mie amiche più care proprio grazie ad essi. Sicuramente, il mio sogno in questo momento è quello che hanno tutti: riacquistare piano piano quella normalità e quella spensieratezza che ci è stata rubata da questa pandemia globale. Ho frequentato il primo semestre nella sede dell’università e ad oggi, costretta dalla situazione a frequentare le lezioni dietro lo schermo di un pc, capisco quanto mi manchi sedere tra quei banchi insieme ai miei colleghi; quanto mi mancano le corse per non perdere la navetta e fare ritardo, ma anche semplicemente una chiacchierata con i miei colleghi nell’attesa che il professori arrivi in aula. Il 2019 per me è stato un anno molto duro, ho dovuto affrontare una perdita importante e sicuramente stare chiusa dentro casa senza poter avere nemmeno un minimo di svago non aiuta assolutamente poiché i pensieri non si fermano un attimo! Ho sicuramente modo di pensare anche alle cose che rimpiango come, per esempio, l’aver perso tempo con alcune persone. Mi divora il pensiero che in alcuni casi avrei potuto fare di più, dire di più. Tuttavia, non sono tantissime le cose che rimpiango poiché in un modo o in un altro, tutto quello che ho fatto in venti anni di vita, tutte le decisioni che ho preso e le scelte che ho fatto, mi hanno portata ad essere ciò che sono oggi. Come ho già fatto intendere anche sopra, in questo periodo chi mi manca maggiormente è una persona che, purtroppo, non c’è più, ma non posso negare quanto mi manchi anche solo poter fare una passeggiata o andare a fare shopping in un negozio, mangiare una pizza insomma: delle piccole cose semplici quotidiane che nel loro insieme diventano importanti. Il fatto che il mondo fuori che mi circonda sia diventato così pericoloso mi spaventa sia per quanto riguarda la mia persona, ma mi spaventa tanto anche perché penso alle persone a cui tengo: non vorrei mai che le persone che amo soffrissero, per nessun motivo ma ancor di più quando si tratta di una cosa così grande che non può essere controllata in quanto non esiste una cura, non esiste un vaccino e in alcuni casi può risultare letale. Questa pandemia ha inciso tanto anche sulla Pasqua, festività importante e che ha grande considerazione nel mio piccolo paesino: ogni anno lunedì, giorno di Pasquetta, si svolgeva l’Affruntata che, purtroppo, quest’anno non è stato possibile svolgere, così come non è stato possibile partecipare fisicamente alle diverse funzioni della Settimana Santa. Un altro duro colpo, se così possono dire, è stata l’assenza dei funerali; è straziante il pensiero che ci siano state famiglie che hanno dato e che, purtroppo, ancora daranno, l’ultimo saluto ad un caro in solitudine senza poter nemmeno porgere un degno, ultimo saluto circondati dall’affetto dei propri amici, paesani e non solo! Si pensa che questa situazione possa, in qualche modo, rendere il genere umano migliore, ma io non ho molta fiducia in questo e il motivo può essere ben visibile nelle testate di cronaca che giornalmente pubblicano articoli di femminicidio, omicidio, truffe, rapine e tanto altro, poiché potrei continuare all’infinito. Non è concepibile che un uomo possa anche solo pensare di avere il diritto di togliere la vita ad un altro uomo. Non è concepibile pensare che si possa possedere qualcosa che appartiene ad un altro uomo rubandolo o prendendolo con la forza. Non ci sarà umanità migliore finché ci sarà tutta la corruzione che ci circonda, finché la politica non farà il bene del popolo, anziché il proprio. Può esserci un futuro migliore, ma non può esserci se un singolo uomo combatte contro un mondo intero. Non posso, però, non rivolgere un pensiero a coloro che, in questo periodo, devono lavorare per il bene comune come: medici, infermieri, protezione civile, tutti gli uomini che lavorano nell’arma indistintamente dal ruolo e dal grado, e anche coloro che lavorano nei supermercati e nei vari generi alimentari!

Vanessa, 20 anni, studentessa di Lettere e Beni Culturali

 


 

Il nuovo decennio è iniziato in un modo che, probabilmente, nessuno si sarebbe aspettato. A partire dai forti conflitti politici presenti in tutto il mondo che hanno rischiato di provocare lo scoppio di una guerra, passando al catastrofico incendio in Australia che ha stravolto interi equilibri di flora e fauna, per non parlare delle proteste civili di tanti paesi, come Hong Kong o Stati Uniti d’America, sfociate poi in veri e propri massacri. Per arrivare, infine, a quella che viene definita come ‘La’ catastrofe per eccellenza, lo scoppio del virus. Tra tutti questi eventi drammatici vi è, però, una differenza: il virus ha intaccato la nostra quotidianità. Fino a quando sentiamo notizie ai telegiornali o leggiamo articoli sul web riguardo ad avvenimenti a noi più o meno lontani geograficamente, ci sentiamo come protetti dalla nostra bolla, intoccabili. Poi, però, basta un niente per rompere tutti i nostri equilibri, per stravolgere completamente il nostro concetto di normalità. Mai ci saremmo aspettati, per esempio, di poter essere tutti obbligati a un domicilio forzato. Da quel momento in poi tutto quello che prima ci sembrava scontato o banale ha acquisito un significato maggiore, ha portato in noi una sorta di nostalgia. Molto spesso mi è capitato infatti, durante questo percorso di ‘confinamento’, di provare nostalgia per le cose più semplici: una passeggiata al mare, un’uscita serale con amici o un pranzo fuori con tutta la famiglia. Provare, dunque, un senso di malinconia verso tutte quelle cose che prima non consideravo particolarmente importanti, ma che in questi mesi lo sono diventate. D’altro canto è anche vero che io mi debba considerare estremamente fortunata, avendo passato questi mesi di chiusura in un clima, sia familiare che sociale, abbastanza sereno. A essere sincera, aver passato questo lungo periodo a stretto contatto con la mia famiglia è servito per ricordarmi quanto sia importante nella vita il concetto di ‘casa’ o ‘appartenenza’. Prima di tutto questo, spesso la casa veniva considerata soltanto come un luogo di riposo, in cui tornare la sera a ricaricare le forze per il giorno dopo nel mondo esterno. Ora invece, in questo momento di timore per ciò che è al di fuori, ‘casa’ è ciò che ci protegge. È il luogo in cui abbiamo proiettato tutte le nostre angosce e i nostri timori del momento, il luogo al quale, a partire da adesso, saremo ancora più legati. Ma importante è stato per me avere anche un luogo di sfogo, uno spazio in cui recarmi in un momento della giornata per staccare e respirare aria fresca: la mia terrazza. La vista dalla mia terrazza rappresenta un po’ l’elemento base del senso di appartenenza alla mia città, alla mia terra: il mare dello stretto. Il nostro non è un mare qualsiasi, non è aperto all’orizzonte e non trasmette un senso di vuoto o lontananza; al contrario esso protegge e abbraccia, proprio come ‘casa’. È sempre stato difficile per me rimanere a lungo lontana dal mio mare e dalla mia terra; proprio per questo motivo avere avuto la possibilità di rimanerci legata anche in questo momento di chiusura mi ha, in un certo senso, salvata.

Fondamentale è stata anche la tecnologia: essa ci ha permesso, infatti, di rimanere legati ad alcuni passaggi della nostra quotidianità. A partire dal cosiddetto smart working, uno degli elementi grazie al quale l’economia del paese non è caduta completamente nel collasso, passando alla didattica a distanza grazie alla quale siamo riusciti a non perdere il rapporto con i docenti o con lo studio, per finire, soprattutto, col mantenimento dei rapporti sociali con le persone a noi care. Queste interazioni telematiche con amici o familiari sono state utili, secondo me, non solo per il contatto con quelli che per noi erano rapporti quotidiani, ma anche per la riconsiderazione del valore dell’amicizia. Innegabile è, infatti, che anche l’amicizia rappresenti un elemento cardine del nostro senso di appartenenza, della nostra concezione di ‘casa’. Sicuramente, stare lontani dagli affetti stabili è stato difficile per tutti, non poter vedere coloro che consideriamo punti fissi della nostra vita, ma personalmente ritengo che questa lontananza sia stata anche essenziale per analizzare i nostri legami. Molto spesso capita di mantenere amicizie alle quali non siamo legati o che proprio non possiamo tollerare, ma l’essere obbligati a rimanere chiusi nel nostro spazio intimo ha portato, secondo me, a una rivalutazione del tempo. Tutti, almeno una volta, durante la quarantena ci siamo ritrovati a pensare a cosa sia realmente importante e cosa no, quali siano le persone con le quali desidereremo trascorrere il nostro tempo quando tutto tornerà ‘normale’. Anche in questo senso il domicilio forzato è stato relativamente positivo: quante altre volte ci è capitato o ci capiterà di avere così tanto tempo per riflettere su di noi e sulla nostra vita? Per analizzare i nostri comportamenti o per rivalutare il passato? Durante queste mie riflessioni è capitato, a volte, di rimpiangere alcune persone ormai distanti e quindi, di conseguenza, anche di rivalutare alcune persone a me vicine.

Insomma, il Coronavirus ci ha costretto a fermarci, a bloccare la nostra vita frenetica e a recuperare valori ormai distanti, ci ha donato, quindi, una maggiore consapevolezza del passato. Allo stesso tempo, però, ci ha caricato di una forte incertezza sul futuro, ci ha resi più timorosi sia del domani che degli altri. Adesso, infatti, la parte difficile sarà tornare alla vita di tutti i giorni, dovendo convivere con questa costante ombra che incombe su di noi. Come sarà il rapporto con gli estranei? Come si svolgeranno le attività quotidiane? Per quanto dovremo preoccuparci del rischio di contagio? Queste sono solo alcune delle domande che mi pongo in questo periodo di transizione, che rappresenta probabilmente il momento più difficile di tutti questi mesi. Adesso, dovremo essere capaci di mostrare e mettere in atto tutte le conclusioni morali alle quali siamo giunti durante i mesi precedenti; è questa la nostra possibilità di riscattarci da comportamenti sbagliati che hanno caratterizzato per anni le nostre vite. Dopo tutte le considerazioni fatte in precedenza dovremmo essere in grado di uscirne migliori, più forti e responsabili. La domanda conclusiva che mi pongo però è: saremo realmente in grado di agire in maniera migliore, sia nei confronti del mondo esterno che di noi stessi? Sinceramente, non so dare una risposta a questa domanda, non so se ne uscirò migliore, peggiore o uguale a prima, ma certo è che ne uscirò diversa.

Alessia, 20 anni, Reggio Calabria, studentessa di Lingue e Culture Moderne

 


Dopo giorni fatti di silenzio e di sguardi fugaci, in cui tutto si è fermato, è giunto il momento di ricominciare a vivere, di tornare a quella quotidianità di cui sentivamo la mancanza e che, ancor prima, odiavamo.
In questi giorni silenziosi abbiamo rispolverato la nostra vita soffermandoci, molte volte, su noi stessi, su quel “io” che spesso, prima del lockdown, non ascoltavamo neppure.
Ci siamo lasciati alle spalle un mondo che supplicava di essere aiutato, un mondo sull’orlo di un precipizio che pregava di essere salvato. Abbiamo chiuso le finestre delle nostre case per non far entrare il male, ma, in fondo, questo male eravamo proprio noi.
Sono bastati poco più di 60 giorni al mondo per riprendersi ciò che gli è sempre appartenuto e a noi per comprendere realmente chi siamo e cosa sia davvero importante nella nostra vita. Ci siamo allontanati dalle cose effimere, ci siamo concentrati su noi ricordando il passato e individuando ciò che desideriamo realmente.
Abbiamo riflettuto e spesso siamo giunti a dare una risposta a tutto ciò che tenevamo dentro.
Poco più di tre settimane fa siamo tornati a vivere, a riprovare quelle sensazioni di cui abbiamo sentito la mancanza riprendendo proprio dal momento in cui avevamo messo in pausa il tutto.
Riaprendo le nostre case abbiamo trovato una società diversa, piena di timori e preoccupazioni. Volti coperti da mascherine colorate e mani rivestite da leggeri strati di silicone bianco, corpi distanti e abbracci proibiti. Le parole sono flebili e gli occhi sono l’unico mezzo per poter comunicare senza dover ricorrere alla voce, stroncata da un lembo di tessuto dinanzi alla bocca.
Alcune strade si ripopolano piano e la distanza è la padrona delle nostre giornate, dei nostri luoghi, ma abbiamo ricominciato a vivere.
Siamo tornati nelle piazze, nei negozi, nelle strade, nelle spiagge, nelle chiese.
Già, siamo proprio tornati nelle chiese, in quei luoghi che prima erano divenute i “non-luoghi” della comunità dove lo spazio era vissuto come il luogo di incontro con l’abitudinarietà ed ora, invece, sono tornate ad essere il punto focale della fede, il luogo d’incontro tra uomo e Dio. Anche qui la distanza fisica regna sovrana e le tante regole ferree delineano comportamenti da rispettare ma, nonostante tutto questo, in molti siamo tornati in quella casa che da sempre abbiamo considerato il nostro luogo di comunione con la comunità, con noi stessi e con Dio.
Stiamo vivendo un periodo di transizione in cui ognuno di noi ha provato, e prova ancora sentimenti contrastanti, poiché ogni giorno sperimentiamo situazioni nuove dove timore e speranza lottano senza sosta.
Tutto questo, però, non ci deve fermare, ma ci deve far continuare a vivere, a ripopolare i nostri luoghi, a riprendere in mano ciò che mesi fa avevamo lasciato fuori dalla porta di casa, con la consapevolezza che il modo di vivere le relazioni sia cambiato.
È difficile, ma non impossibile e solo così, accettando questo, potremmo realmente ripartire facendo della nostra vita un autentico capolavoro.

Giusy Cacciola, 24 anni, Bagnara Calabra (RC), studentessa di Lettere e Beni culturali

 


 

Il vento soffia e poi si placa, continua a soffiare e rimane apparentemente in silenzio per cinque secondi, ma poi riparte.
Il concetto di nostalgia racchiude forze e debolezze, desideri e impossibilità descrivendo straordinariamente il periodo che stiamo vivendo, un po’ tutti in questo grande mondo.

Il sole è sceso giù già da un paio di minuti fra le montagna che mi separano dal mare, lasciando le nuvole alle mille sfumature di un tramonto primaverile. Mi faccio cullare dalle scie tinteggiate d’arancione che si fanno strada dentro di me, quasi da farmi riscaldare il cuore e i pensieri.

Mia madre entra ed esce di casa, come al suo solito, sempre indaffarata a sistemare ogni cosa.
Siamo ritornate poco fa da una passeggiata vicino casa, la osservo raccogliere i vestiti, le tovaglie, mentre si domanda a voce alta che tempo farà domani.

Le pale eoliche che hanno innalzato nei mesi in cui ero altrove, girano incessantemente, mi fanno quasi rabbrividire.
Mamma canticchia la canzone ‘Azzurro’ soffermandosi sulla strofa del treno dei desideri più volte.
Un’estate non ancora iniziata, si porta dentro un amaro in bocca più concreto e marcato degli altri anni.
Il vento è freddo, l’incanto della nostalgia del ritorno e del ricordo svanisce, rientro in casa, dirigendomi verso la solita stanza, compagna di questo viaggio, chissà per quanto.

30.04.2020

Francesca, 21 anni, Luzzi (CS), Studentessa di Scienze turistiche

 


 

Nuova sfida per l’“uomo sociale”

13 gennaio 2020, inizia l’incubo! Arriva la notizia ufficiale dalla Cina e precisamente dalla città di Wuhan dei primi casi di Covid-19 (anche detto Coronavirus), un virus nuovo e sconosciuto. Ci fa paura, ma ci sembra ancora molto lontano. Ma ecco che, in poco tempo, in una escalation di notizie, riguardanti nuovi contagi e nuovi decessi, ogni giorno più preoccupanti e catastrofiche, si arriva al 21 febbraio, giorno in cui viene data la notizia del primo caso di persona contagiata da Covid-19 in Italia e precisamente a Codogno, in Lombardia. Se fino ad allora, questa minaccia sembrava lontana e improbabile, adesso ci toccava da vicino, entrava in casa nostra generando sentimenti di incertezza, di insicurezza, oltre che di paura. Questi sono stati i primi sentimenti che ho provato: INCERTEZZA- “E adesso che succederà?, INSICUREZZA-“Ce la faremo a superare tutto?”, PAURA-“ Sopravviveremo a tutto questo?”Sentimenti che si sono acuiti con il lockdown. Questa misura di sicurezza contro il virus, fino ad ora sconosciuta in un Paese democratico come il nostro, mi ha dato, forse più dei numeri di contagi e decessi propinatici quotidianamente dai mezzi di comunicazione, la misura della gravità della situazione.

In un secondo momento ho provato gratitudine perché io, a differenza di molti altri, avevo una casa in cui sentirmi protetta e persone care intorno a me a cui dare e da cui ricevere quegli abbracci e quel conforto che, in quel momento, non potevo dare e ricevere da altre persone, comunque a me care. Successivamente c’è stata la riflessione e sono arrivata a delle conclusioni. Prima tra tutte, la convinzione che questa minaccia ha fatto cadere delle certezze come quelle che riguardano il rapporto tra uomo e natura. Penso che mai come in questo momento, l’uomo ha potuto toccare con mano la sua “piccolezza” nei confronti di questa grande catastrofe. Forse questo sentimento è ciò che lega tutti gli eventi catastrofici che si sono verificati nel corso della storia. Un’altra considerazione da fare è che l’uomo, seppur piccolo, è allo stesso tempo “pericoloso”. Molti studiosi parlano del Covid-19 come di una catastrofe annunciata e causata dall’operato dell’uomo. Non a caso, le zone con maggiori contagi e decessi sono le zone della terra più popolate, industrializzate e maggiormente interessate dallo smog. Ultima mia considerazione riguarda la battaglia che si è fatta e che si sta facendo contro questo virus. Alcuni ritengono che il termine guerra per descrivere la situazione che stiamo vivendo sia esagerato, ma per me è proprio una “guerra” in cui ci si preoccupa in parte per la propria incolumità fisica (l’ossessione per il distanziamento sociale, per proteggersi con guanti e mascherine dal contagio), ma ancora di più a preoccupare è la propria incolumità psichica. Dall’oggi al domani abbiamo dovuto cambiare radicalmente le nostre abitudini: l’“uomo sociale”, di Aristotele nella sua “Politica”, ha dovuto andare contro la sua natura.

Mai come adesso sto rivalutando l’attualità delle affermazioni di Aristotele e dell’affermazione di John Donne: “Nessun uomo è un’isola, intero a sé stesso.” In queste poche parole è espressa la natura stessa dell’uomo che è tale in quanto essere sociale e, quindi, in rapporto continuo con gli altri. Questa breve meditazione di John Donne, pubblicata nella raccolta Devozioni per occasioni di emergenza e sapientemente presa in prestito e analizzata dal professore Nuccio Ordine, è stata un mio pensiero fisso in questi giorni di quarantena. Partendo da questa meditazione, ciò che mi preoccupa è proprio la reazione dei tanti che seguirà a questo periodo di divieto forzato con l’obbligo di stare “isolati” e, quindi, a venir meno a una necessità primaria dell’uomo, la socialità.

Anche se si supererà questo momento, siamo consapevoli che nulla sarà più come prima. È cambiato il nostro modo di percepire noi stessi, gli altri e il nostro rapporto con gli altri. Anche quando sarà tutto finito, saremo in grado di superare e di andare oltre questa nuova percezione del mondo da noi interiorizzata in questo periodo, nostro malgrado?

Altro punto interrogativo è la nostra percezione del futuro, una percezione che non è stata mai così incerta come in questo momento e non solo per l’aspetto sanitario, economico, politico, ma soprattutto per l’aspetto sociale: supereremo la nostra paura e la nostra diffidenza verso gli altri? L’unica speranza risiede, a mio avviso, nella capacità di adattamento del genere umano e nel suo istinto di sopravvivenza.

Annarita, 22 anni, Rende (CS), Studentessa di Lettere e Beni Culturali

 


Memorie sul coronavirus
Mai avrei pensato che, a 21 anni, avrei trascorso più di 3 mesi chiusa in casa.
È proprio vero quando si dice che, se non ci tocca da vicino una cosa, non sai cosa vuol dire!
Prima che arrivasse la notizia che anche nel nostro meraviglioso Paese ci fosse un caso di covid-19, ognuno era perso nelle proprie cose e neanche questa notizia ci ha smosso più di tanto; abbiamo dovuto vedere scene da brivido negli aeroporti e nelle stazioni per renderci conto di ciò che davvero stava accadendo, del discorso del Presidente del Consiglio che, a reti unificate, annunciava la chiusura della maggior parte delle regioni del nord.
Ci siamo trovati dalla sera alla mattina chiusi in casa, chi solo, chi con la famiglia, chi con qualche amico; l’unico modo di vedere l’altro era tramite barricate o in videochiamata; ci hanno proibito di abbracciarci e darci un bacio, di muoverci solo se necessario con guanti e mascherine.
Questo periodo è stato caratterizzato da ansia, angoscia, paura e tante domande, non sapevamo cosa sarebbe potuto succedere, paura di non riuscire a rivedere i propri cari, per chi come me ha un papà che lavora lontano, proprio in una regione del nostro Paese, più colpita, l’angoscia è stata quasi logorante.
C’è chi in questo periodo ha scoperto nuove passioni, nuovi hobby, chi ha capito che la vita che stava vivendo non era davvero quella che voleva, chi si è ritrovato senza lavoro e senza soldi, ma chi più chi meno, in un modo o nell’altro, tutti abbiamo avuto paura, abbiamo sentito la mancanza di qualcuno. Abbiamo anche riscoperto la bellezza, però, delle giornate passate a casa con i nonni, per chi come me li ha vicini, forse trascurati un po’ troppo spesso, andando sempre di fretta.
Abbiamo compreso l’importanza di un abbraccio, una carezza e una parola di conforto, quando sono venuti a mancare.
Sono passati quasi 4 mesi e le cose pian piano sembrano volgere al meglio, forse qualcosa è cambiata e molte altre rimaste uguali, abbiamo imparato a convivere con un nemico che forse ci terrà compagnia per un altro poco!
Giusy, 21 anni, Luzzi (CS), studentessa di Scienze dell’Educazione

 

In questi mesi le nostre vite sono state sconvolte dalla pandemia; i mezzi d’informazione non hanno parlato d’altro, ed è ormai sicuro che nel prossimo futuro continueremo a subirne le conseguenze. La pandemia da Coronavirus è un argomento vasto, che coinvolge aspetti economici, sanitari, sociali e politici. Nessuno di noi era realmente pronto per fronteggiare un evento di così vasta portata. Tutti noi abbiamo dovuto cambiare drasticamente e improvvisamente le nostre abitudini; ci siamo ritrovati a giustificare le nostre uscite, i nostri incontri, i nostri spostamenti, tutto ciò che per noi equivaleva alla nostra vita, tutto ciò che noi chiamavamo normalità. In alcuni paesi, tra i quali l’Italia, l’epidemia di Covid-19 è l’evento più grave che si sia verificato dal dopoguerra a oggi. Oggi la situazione fortunatamente è migliorata, ma questi mesi passati è necessario che siano ricordati. In diversi Paesi, i contagi aumentavano ogni giorno, i sistemi sanitari hanno avuto molte difficoltà, ma cosa più grave, molte persone hanno perso la vita. È certo che, oltre ad una vasta scia di morti, gli effetti di questo evento si ripercuoteranno sulla vita quotidiana, l’economia, la società, l’istruzione, il lavoro e molto altro. In questi mesi, le decisioni più importanti che riguardano lo sfruttamento delle risorse e i modi della produzione, sono state prese dai governi, nazionali e internazionali. Le abitudini e le scelte individuali, però, possono esercitare un’influenza, anche significativa su quelle decisioni. A parer mio, infatti, la pandemia ha avuto così tanta possibilità di diffusione, a causa di una sottovalutazione enorme del problema da parte di molte persone. Se da un lato, c’è chi, coscientemente è rimasto in casa, rispettando gli altri ed in primis se stesso, c’è anche chi, sbagliando, sottovalutando e ignorando questa grave situazione, ha permesso la stessa diffusione della pandemia. L’incoscienza della popolazione però non è, purtroppo, l’unica cosa che ha portato alla diffusione del Covid; quando il governo si rese conto della grave situazione, era ormai troppo tardi, e le contromisure adottate non ebbero l’efficacia sperata. Quando a gennaio, abbiamo saputo di un nuovo virus, che stava sacrificando vittime in Cina, e che aveva provocato l’isolamento in quarantena di milioni di persone, la maggior parte di noi non ha prestato grande attenzione alla notizia. Probabilmente, la questione iniziò a riguardarci direttamente, quando, di punto in bianco, ci è stata negata la nostra libertà; quella amata libertà di cui noi tutti, inconsciamente, non potevamo fare a meno. L’annuncio della chiusura immediata di tutte le attività non considerate indispensabili, ha lasciato sgomento nelle persone che, purtroppo, non erano ancora pienamente consapevoli di quello che stava succedendo. Ci siamo ritrovati vincolati e costretti ad adattarci a qualcosa più grande di noi. Dai più piccoli, con la chiusura immediata delle scuole, il distacco dai compagni, dai docenti, ai più grandi, con la perdita del lavoro, con l’impossibilità di garantire anche la stessa sopravvivenza. Perché, purtroppo, questa pandemia ha anche portato situazione svantaggiate a diventare realmente drastiche. E non possiamo non pensare a tutte quelle persone che hanno perso la vita. Io sono un’inguaribile ottimista da sempre, eppure confesso, a me questo Virus ha fatto molta paura. Che cosa ho temuto? Ho avuto paura per le persone che mi stanno a cuore, per complicazioni, che forse non conosco, per situazione che non sarei stata in grado di gestire, e che probabilmente non sarei in grado di gestire tuttora. Perché io, per quanto la situazione sia oggigiorno migliorata, non me la sento di parlare ancora al passato; è troppo presto per stabilirlo. È vero, i contagi sono diminuiti, ed anche i decessi, ma non dobbiamo smettere di essere coscienti. Le disgrazie, purtroppo, non capitano sempre altrove: qualche volte bussano più vicino di quanto pensiamo. Nonostante tutto, voglio sperare che ce la faremo, che noi tutti supereremo questo brutto periodo. Seppur diversi e con molte difficoltà, risorgeremo. È vero, dobbiamo limitare gli abbracci, ma non smettiamo mai di amare gli altri e noi stessi, in questo caso attraverso la prevenzione. Solo questo ci salverà.

Marika, 21 anni, Cervicati (CS), studentessa di Scienze dell’Educazione

 


Persi, persi nelle maree dei nostri pensieri, accecati da luci artificiali che ormai sovrastano la luce del sole e il luccichio dei nostri occhi.
Occhi, trasformati in un solitario bambino indifeso che guarda attorno a sé lo scorrere degli eventi, impotente davanti a essi… e quindi osserva.
Io osservo, tu osservi, egli osserva, noi osserviamo… osserviamo un mondo che ha ripreso il suo potere, la sua leggerezza si manifesta in animali che scorrazzano frenetici e veloci, come uomini di corsa nei non luoghi delle nostre amate città.
L’uomo nel corso degli anni ha manifestato sempre più potere su qualcosa che non gli apparteneva, e con il suo stesso ingegno, che, vista l’evoluzione dei fatti – definirei più follia -, ha iniziato lentamente a distruggere perfino se stesso.
Catapultati in situazioni irreali, impensabili, siamo stati costretti ad accantonare la cecità che avvolgeva la nostra vita, per guardare con occhi consapevoli quello che più realmente conta, quello di cui in modo effettivo non possiamo fare a meno.
Il tutto in questa quarantena si è ricongiunto a una sola parola: famiglia. Il riscoprirsi a vicenda, il dialogare in completa serenità, senza più fretta di terminare, ma con voglia di continuare. Tutti questi punti che prima davamo per scontato, ora diventano di particolare importanza, forse perché tutte le nostre certezze sono volate via e, quindi, la paura della perdita ha offuscato tutto il resto, forse perché si ha la necessità del confronto e del conforto, insomma ricerchiamo sempre di più la stabilità e la sicurezza che ci è stata tolta. Questo marasma, caratterizzato da aspetti maggiormente negativi ci ha fatto riscoprire un un lato della vita che si presenta con il lemma: serendipità.
Leggendo un libro, nel corso di questi giorni, è stato proprio questo termine a far luce e chiarezza su quello che ognuno di noi si aspetta, ma che inconsapevolmente già ha:
si presenta, per esempio, con la capacità di scoprire qualcosa per puro caso, ed inaspettatamente sarà quel qualcosa a rendere migliore la giornata, la magia di meravigliarsi ancora guardando il mondo come fosse la prima volta che lo si vede, essere felici per le piccole cose – anche le più futili -, che, poi, non lo sono del tutto perché le abbiamo notate. Ecco, questo termine è tascabile, ognuno di noi lo ha, bisogna solamente trovarlo, farlo crescere ogni giorno di più, e farlo diventare elemento caratterizzante di noi stessi, perché non c’è niente di più sorprendente e affascinante di essere luce per noi stessi e per gli altri anche nei momenti di tramonto.
Teresa Grazia, 20 anni, Casabona (KR), studentessa di Lettere e Beni Culturali

 

Covid-19 e riflessioni

In questo periodo penso che molti di noi abbiamo capito tante cose e a chi più e a chi meno ha portato a fare delle scelte. Tutti abbiamo fatto le stesse cose.
Abbiamo riscoperto la gioia e la spensieratezza per la nostra famiglia, che ormai, influenzati dalla nostra vecchia routine, ci aveva fatto dimenticare tutto questo.
Abbiamo capito davvero anche attraverso uno schermo chi fosse disposto a starci accanto e chi no, i nostri affetti stabili. Si è capito che se qualcuno vuole esserci al tuo fianco cerca di tutto per farlo.
Ho riscoperto l’importanza della vita, o meglio della nostra quotidianità e a decidere di non sprecare più tempo per cose futili alla quale prima davo più importanza. Ho capito che a volte la vita è imprevedibile e che, a volte, ci mette davanti a delle difficoltà che vuoi o non vuoi devi superare, proprio come questa.
Ma bisogna capire che, purtroppo, non si ritornerà alla vita di prima, che molte nostre abitudini verranno sostituite con altre, non solo per salvaguardare noi, ma anche gli altri e non è una cosa da sottovalutare come fanno in molti purtroppo. Bisognerà agire con cautela, non essere egoisti.
Ho capito che davo davvero poca importanza a ciò che facevo prima, come ad esempio, una semplice chiacchierata con un’amica davanti a un caffè, le lunghe passeggiate di ritorno sul ponte dell’università con le mie colleghe di sempre, le corse per prendere la circolare.
Tante cose che prima facevamo adesso sono diventate importanti, speciali.

Anna, 21 anni, Aprigliano (CS), studentessa di Scienze dell’Educazione

 


 

Arrivò così, come un fulmine a ciel sereno, cambiando in maniera irreversibile le nostre vite. Quando a gennaio abbiamo saputo di un nuovo virus chiamato “Coronavirus” o “Covid-19” che stava mietendo vittime in Cina e che aveva provocato l’isolamento in quarantena di milioni di persone, la maggior parte di noi non ha prestato grande attenzione alla notizia. Alcuni l’hanno semplicemente ignorata, altri l’hanno accolta come una delle tante informazioni provenienti da zone remote del mondo che possono preoccupare, dispiacere o lasciare indifferenti, ma davvero in pochissimi abbiamo pensato che si trattasse di un fatto che potesse riguardarci direttamente. Col passare del tempo i contorni della vicenda hanno iniziato a diventare più nitidi, come una persona lontana che non riusciamo a riconoscere perché troppo distante e che, man mano che si avvicina, ci permette di osservarla per poter definire se la conosciamo o meno. Forse la questione iniziava in qualche modo a riguardarci e il fatto che si iniziasse a ripetere che questa malattia fosse letale solo per gli anziani e per chi già era malato ci lasciava perplessi e suscitava reazioni differenti: visto che noi non rischiamo di morire non ci dobbiamo preoccupare? Ma i nostri nonni? E quel parente malato? Che cosa ci vogliono trasmettere gli adulti tramite i mezzi di comunicazione? Ci vogliono dire che dobbiamo basare la nostra vita sull’egoismo e che se un pericolo non può toccarci dobbiamo ritenerlo inesistente? Ed ecco che sono passati altri giorni e dopo un pomeriggio di nervosismo e di attesa ci hanno comunicato che le scuole, le università sarebbero state chiuse per due settimane provocando una reazione entusiastica pressoché generale. Siamo usciti, abbiamo festeggiato, dimenticando o facendo finta di farlo, che se si era arrivati a questa decisione il motivo doveva essere grave, non si trattava di una semplice influenza ma il Coronavirus, al contrario, è completamente nuovo. Questo significa due cose: nessun essere umano è immune e per questo virus non esiste ancora un vaccino e nemmeno un farmaco; il coronavirus infetta le cellule dell’apparato respiratorio inferiore, causando una polmonite molto seria che non può essere trattata in maniera efficace con gli antibiotici e, nei casi più gravi, può portare anche alla morte.
Abbiamo bevuto dalla stessa bottiglia di birra, ci siamo salutati con i bacetti come abbiamo sempre fatto e abbiamo guardato con un sentimento di derisione mista a disapprovazione quei pochi giovani che iniziavano a mettersi la mascherina.
Il successivo annuncio dell’obbligo di rimanere in casa ci ha colti di sorpresa e ci ha travolti come un’ingiusta sentenza di prigionia. Le giornate passano tra aule virtuali, le videochiamate con gli
amici, una maratona su Netflix e una nottata alla playstation.
I più fortunati di noi hanno una casa abbastanza spaziosa in cui non sentirsi completamente oppressi o dei genitori che non sono disperati perché non hanno più una fonte di reddito. Altri, costretti in spazi angusti e nell’angoscia dell’incertezza economica, vivono la reclusione come la concretizzazione di un incubo.
Constatiamo che la sua diffusione è, poi, dovuta all’irresponsabilità e all’anteporre gli interessi di pochi al bene di molti. Se prima la nostra angoscia per il futuro riguardava la mancanza di lavoro e
la possibilità di essere costretti a cercarlo fuori dall’Italia, ora abbiamo iniziato a dubitare del futuro stesso e, talvolta, della reale affidabilità degli adulti. E iniziamo a pensare che stiamo diventando migliori, meno egoisti e più empatici e che vogliamo qualcosa di diverso per il nostro futuro.
Quando finalmente potremo tornare ad abbracciarci, forse i nostri abbracci saranno più autentici e le nostre azioni più responsabili.

Anna, 20 anni, Aprigliano (CS), studentessa di Scienze dell’Educazione

 


 

“L’ITALIA CHE CAMBIA AI TEMPI DEL CORONAVIRUS”

È primavera quando, improvvisamente, una gelida aria artica si imbatte sul nostro Paese e, da un istante all’altro, si comincia a sentir parlare di uno strano raffreddore, mortale. Da quel momento, qualcosa cambia per sempre! La televisione e tutti i social, diffondono la stessa notizia: “l’Italia è stata colpita da un Nemico invisibile, sconosciuto e mortale, il COVID – 19.

Con la comparsa di questo Virus, l’umanità è stata chiamata ad affrontare una crisi globale, destinata a lasciarci in eredità una società completamente diversa quando l’emergenza sarà passata. Il fenomeno di portata globale nel quale siamo immersi provoca cambiamenti strutturali.

In un’emergenza come quella che stiamo vivendo, in seguito alla pandemia di COVID-19, la paura della situazione nuova, inattesa e potenzialmente dannosa per la salute nostra e per quella dei nostri familiari e la necessità di una condizione di isolamento sociale comportano una inevitabile sensazione di perdita di controllo, innescando reazioni di stress. D’altra parte ottenere informazioni chiare e seguire le raccomandazioni può aiutare a recuperare il controllo sulle circostanze della nostra vita, aumentando la nostra capacità di reagire positivamente, e riducendo l’ansia e l’angoscia che si accompagnano all’incertezza di una situazione in continua evoluzione.

Non ci rimane che allontanare il più possibile la minaccia da noi, mettendo in atto quei comportamenti virtuosi che sentiamo ripetere ogni giorno: stare il più possibile in casa, mantenere una distanza di sicurezza dagli altri, lavarsi spesso le mani, limitare i contatti fisici anche tra familiari. Più mettiamo in atto comportamenti di questo tipo, più ci sentiamo protetti, rassicurati, meno ansiosi.

Noi siamo quello che pensiamo. Le nostre reazioni emotive, e, quindi, il nostro stato di benessere o malessere, dipendono anche dalla nostra percezione e immaginazione. È facile capire, quindi, che, per stare bene, dobbiamo dirottare il pensiero su cose che ci diano piacere, distrarre la mente impegnandoci in attività concrete che ci appassionano: leggere, parlare, cucinare, curare le piante, occuparci degli animali domestici, videochiamare parenti e amici.

Riflettiamo che siamo dovuti restare in casa, ma avendo, comunque, il mondo di fuori a portata di mano, con la possibilità di parlare con chi vogliamo, di leggere ciò che ci interessa, di guardare ciò che ci piace, persino andare per negozi virtuali a fare shopping. Insomma, tutte le numerose opzioni messe a disposizione dalla nostra tecnologia. Ma ci sono anche altre possibilità: riscoprire il piacere del clima familiare, reimpostare la routine quotidiana su ritmi più lenti e piacevoli, condividere attività, rispolverare giochi di quando eravamo più poveri di tecnologia.

Serena, 21 anni, Lago (CS), studentessa di Scienze dell’Educazione

 


Erano i primi giorni di marzo, quando si iniziarono a registrare i primi casi di coronavirus in Calabria; sembrava un po’ tutto surreale, ma questo maledetto virus iniziava, giorno dopo giorno, a diffondere panico e paura. Si apprendeva dai TG locali che i contagi iniziarono a diffondersi a macchia d’olio. Per me la causa principale della diffusione in Calabria è stata il rientro delle persone provenienti dal Nord Italia, che sono scese scappando per paura o egoismo. In questi mesi siamo stati costretti a stare chiusi in casa; è stato un periodo molto difficile, ma sotto un certo aspetto anche piacevole.

Ricordo ancora quel lunedì 9 marzo, quando ci venne chiesto dal Presidente del Consiglio di restare a casa chiusi per almeno i primi 15 giorni. Credo che quei 15 giorni siano stati molto duri e difficili, perché noi giovani non eravamo abituati a stare chiusi in casa, ma, giorno dopo giorno, almeno io, ho iniziato ad avvertire uno strano cambiamento, quella vita chiusa in casa è iniziata a piacermi, perché ho ritrovato delle abitudini che mi mancavano da bambina, per esempio stare a casa con i miei genitori tutto il giorno, che, a causa del loro lavoro, sono stati costretti a stare in casa. Passare del tempo con il mio gatto che i miei vari impegni mi impedivano di starci vicina. Passare il tempo con il mio fratellino e con le mie sorelle, dopo tanto tempo. Mi sono dedicata a recuperare molte cose che avevo lasciato a metà per la mancanza di tempo. In questo periodo ho riscoperto delle antiche tradizioni stando a casa, ad esempio fare il pane in casa, ho imparato a fare la pasta fatta in casa con la ricetta della nonna. La mia famiglia, come tante famiglie italiane, si è trovata in difficoltà economiche, perché mio padre è una delle tante Partite Iva, ma siamo riusciti lo stesso a superare questo buio periodo con la forza e la tenacia di restare uniti. Come potete leggere, questa pandemia ha portato sì, tante cose negative, ma nel mio piccolo posso dire che, grazie anche alla mia famiglia, questo medio-lungo periodo lo porto nel bagaglio della mia vita con tante cose positive. Da cittadina italiana mi sento di ringraziare il mio Stato, il Presidente Conte che, giorno dopo giorno, almeno a differenza di tanti politici, ci ha messo la faccia, cercando di fare il possibile per il suo Stato e per i suoi cittadini. Mi sento di ringraziare tutto il personale sanitario che, giorno e notte, ha cercato di dare il massimo e salvare le vite umane che, purtroppo, si sono ammalate di questo “terribile virus”; ringrazio le forze dell’ordine che si sono impegnate a far rispettare le regole imposte dal d.p.c.m.  Ringrazio il Sindaco del mio paese che si è impegnato con determinazione e ha donato a ogni cittadino le mascherine e ha aiutato le famiglie bisognose con una raccolta fondi silenziosa. Infine, ringrazio la mia famiglia per avermi fatto trascorrere questi 70 giorni in allegria e tranquillità. Lunedì 18 maggio 2020 è un grande giorno, è il giorno che tutti noi aspettavamo durante questi giorni trascorsi in casa: è il giorno della ripartenza; spero che riusciremo a mantenere tutte le precauzioni imposte dal d.p.c.m.; spero che, in qualche modo, riusciremo a sconfiggere questo maledetto virus, COVID-19.

Sara, 21 anni, Lago (CS), studentessa di Scienze dell’Educazione

 


COME UN FILM, MA NON È UN FILM

 Una pandemia nel 2020? Una catastrofe nel 2020? “No, impossibile”. Questo è stato il primo pensiero di ognuno di noi, quando, in tempi non sospetti, il virus si materializzava nell’Estremo Oriente, specificatamente in Cina. In quest’epoca, contrassegnata dalle innumerevoli innovazioni in ambito tecnologico, scientifico, medico, culturale, pronosticare tale avvenimento era pressoché impensabile. Un fulmine a ciel sereno, che lacera inesorabilmente le nostre vite, impreparate ad accogliere un’avversità cosi maligna e letale. Dalla diffusione di questa sgradevole bestia invisibile, in Italia sono ormai trascorsi circa 2 mesi, ma da quel 9 Marzo, giorno del primo Decreto Ufficiale designato per tutto lo Stivale, la vita di ogni singolo individuo, è radicalmente mutata. Concetto apparentemente tanto banale, quanto reale. È cambiato letteralmente tutto. Noi, ragazzi di oggi, che dovremmo vivere “i migliori anni della nostra vita” come recita una famosa canzone di metà anni ’90, siamo rinchiusi nelle nostre dimore, senza aver commesso alcun crimine, privati di tutto ciò che la gioventù ama regalarci, combattendo contro un mostro impercettibile, della quale non si conosce nulla. I dubbi, le perplessità, le paranoie, assillano la mente di tutti noi, attori protagonisti di un evento impronosticabile, che sarà rammentato negli annali storici. Cosa accadrà quando tutto ciò sarà finito?

Quando finirà? Finirà? Sono le domande, alle quali, nessuno, nonostante le infinite ore di quarantena a disposizione, è riuscito ad offrire una risposta apparentemente corretta. Rovistando nel passato, consultando la storia, da sempre ottima consigliera, è difficile trovare qualche avvenimento confrontabile con il nostro presente per agire nel modo corretto. La peste di Firenze, avvenuta nel 1348, appare come l’unica circostanza lontanamente paragonabile a ciò. Ma la differenza tra essa e la pandemia dei nostri giorni è particolarmente netta per molteplici motivi che non elencherò, poiché innumerevoli, il primo su tutti, la differenza di epoche in cui esse si sono plasmate, precisamente 672 anni l’una dall’altra. Il nostro futuro, economico e sociale, sarà, inevitabilmente caratterizzato da ciò che stiamo vivendo in questi terribili, inspiegabili e irrazionali giorni. Giorni vuoti. Giorni spogli. Giorni simili. La monotonia di ogni singola giornata, la distanza fisica dalle persone più care a noi, la mancanza di un dialogo fisico con un professore, la mancanza delle innumerevoli corse per non perdere l’ultimo autobus per ritornare a casa, la mancanza di tanti altri piccoli aspetti quotidiani, logorano la nostra anima. La perdita, seppur momentanea di essi, in un contesto prettamente metaforico, è paragonabile ad un episodio narrato da Ernesto De Martino ne “La fine del mondo”, avente come protagonista un umile contadino in preda alla cosiddetta angoscia territoriale.

L’immagine del contadino, che allontanatosi dalla sua terra, perde come riferimento il proprio campanile, appare molto simile alla situazione irreale che ognuno di noi sta vivendo in questi mesi. Tutti stiamo vivendo le stesse emozioni di quel contadino, poiché chiunque, in questa situazione inconcepibile, è costretto a scorgere il mondo da un’altra prospettiva, perdendo tutti i punti di riferimento.

Viaggiando con la mente, la mia visione e la visione del contadino sono particolarmente analoghe, in quanto entrambi osserviamo il mondo da una nuova prospettiva, totalmente differente dal passato, vivendo tutto ciò con molta angoscia. Osservare uno spicchio del proprio paese, della propria città, dalla finestra di casa, senza poter uscire, senza poterla vivere, cambia radicalmente il nostro flusso di pensieri. Quel mondo che, precedentemente, appariva sin troppo dinamico, ora appare sin troppo statico. Fortunatamente, l’evoluta tecnologia della quale disponiamo, ha ridotto drasticamente il disagio causato da questo spiacevole contesto. Le serie tv, le lunghe telefonate con gli amici, le videolezioni, riducono lo stress, la tristezza, la malinconia e la noia, che attraversa ognuno di noi in questi giorni. Disegnare, dipingere, colorare, immergermi nella mia arte, mi fa stare bene.

Tramite questa inevitabile quarantena, ho avuto l’opportunità di fare un viaggio dentro me stessa, riscoprendo mondi ed argomenti che avevo precedentemente abbandonato, per via della dinamicità della vita moderna. L’arte, non è solo un modo per gettare su di un foglio i propri pensieri. Essa è anche un modo per evadere dalla realtà, creando un mondo parallelo, un mondo idilliaco, dove l’artista ha l’opportunità di ritrovare se stesso per uscire dagli schemi fissi imposti dalla monotonia. Inoltre, gli infiniti confronti con mia madre, con mio fratello, con mio padre, in questi giorni cosi cupi, hanno arricchito ulteriormente il mio bagaglio culturale. Perciò, sebbene la drammaticità del momento sia particolarmente elevata, in esso vi sono anche alcuni aspetti positivi come quelli precedentemente elencati. D’altronde, fugando ogni dubbio, gli aspetti negativi sono incalcolabili.

Celebrare la Santa Pasqua, senza poter condividere l’allegria di questo solenne giorno con i propri nonni, cugini, zii è come dover fare un saggio di danza senza pubblico, è come segnare un gol senza tifosi, è come bere un boccale di birra senza i propri amici, non è la stessa emozione. Cosi come per i maturandi, costretti a vivere in modo alquanto alternativo gli ultimi momenti del loro percorso scolastico, durato 13 anni, senza avere l’opportunità di vivere intensamente i fatidici giorni precedenti agli esami con i propri compagni, senza avere l’opportunità, molto probabilmente, di sostenere il fatidico colloquio orale dal vivo. Emozioni differenti, ma dinamica pressoché identica, per tutti coloro che sosterranno gli esami universitari in questo nefasto periodo. Tutto sarà meno magico, tutto sarà differente. Questa esperienza è la prova tangibile che la felicità risiede nei piccoli gesti, particolarmente sottovalutati qualche mese fa, particolarmente fondamentali in questi giorni. Mi mancano gli amici, mi mancano i confronti, mi manca l’Università, mi manca il caffè del distributore automatico, con annessa cioccolata Kinder. Mi manca la normalità, quella normalità che in passato ho spesso aspramente criticato, mi manca la semplicità, mi manca la felicità. Scrutando le varie notizie che circolano sui social media, anche i temi più lugubri non sono esenti dalla mutazione generale avvenuta in questi mesi assurdi. Primo su tutti, la morte. Essa assume un sapore differente, un sapore ancora più triste, più tetro, più scuro. Perdere un caro, senza conoscere il suo sicario, senza avere l’opportunità di concedergli un ultimo e meritato saluto, rende la morte, per quanto sia possibile, ancora più perfida. La morte di migliaia di innocenti, per una malattia tutt’ora sconosciuta, appare come qualcosa di esageratamente illecito. Niente e nessuno potrà rendere giustizia a questo male.

Spero, desidero, che tutto ciò possa avere un dolce epilogo, cosi come nelle favole. Spero, desidero, che tra 60 anni, sarò davanti al mio bel caminetto, tra le braccia del mio uomo, mentre accarezzo la sua folta barba bianca, a rimembrare quanto passato in questi giorni funesti. La vita è effimera, più di come essa appare.

 

Alessia, 20 anni, Bisignano (CS), studentessa di Lettere e beni culturali

 


 

Le celebrazioni del Venerdì Santo a Strongoli

Le circostanze determinate dalla diffusione del virus hanno impedito che si celebrassero i riti della Settimana Santa, una necessità che ci ha lasciato tanta amarezza dal momento che si tratta di festività particolarmente sentite dei fedeli oltre che occasioni di aggregazione sociale. Nel mio paese, Strongoli in provincia di Crotone, un evento molto atteso in occasione della Pasqua è la processione del Venerdì Santo. Si tratta di un rito che affonda le sue radici in epoche molto antiche e che rappresenta il culmine della pietà popolare. Da sempre coinvolge grandi e bambini tanto che gli emigrati tornavano e tuttora ritornano per assistere al corteo religioso. La processione strongolese presente alcuni elementi che la contraddistinguono e che sono rimasti immutati nel tempo: il peculiare andamento “avanti e indietro” dei giudei vestiti di rosso che portano la croce, un passo che rallenta l’incedere e di conseguenza l’andamento e la durata dell’intera processione; la presenza di alcune “figure” che rappresentano i momenti della passione e della morte di Gesù; i lamenti degli uomini e delle donne che riproducono il canto funebre che le repite facevano presso il morto. Il canto ripercorre la storia della passione e della sofferenza della Madonna e diventa incomprensibile soprattutto sul finale che imita il pianto di dolore. Le prove dei canti che si eseguono durante la processione del Venerdì Santo si svolgono nella chiesa di Santa Maria in un periodo che va dal Mercoledì delle Ceneri al venerdì prima delle Palme e prende il nome di “Quarantana” durante il quale le donne strongolesi si incontrano nel primo pomeriggio e recitano un particolare rosario composto da preghiere in dialetto. .La processione si articola in diverse fasi secondo l’ordine di uscita delle figure. Si esce dalla chiesa di Santa Maria alle 08:30 , un tempo si usciva un’ora prima e la processione si apre con il palo rivestito di un panno nero in segno di lutto che reca la scritta “ S.P.Q.R”. Segue la croce nera con il panno bianco sulla quale sono dipinte il volto, le mani e i pieni del Signore. Le donne e i bambini si alternano nel portare l’ Ecce homo, il mezzo busto che rappresenta Gesù dopo la flagellazione e l’inconorazione di spine. I giudei si alternano a portare la croce spogliandosi dell’abito rosso e vestendo quello bianco. Poi c’è “a vara”, la bara sulla quale viene deposto il corpo di Gesù morto e segue l’Addolorata portata dalle donne. La banda accompagna la processione suonando per le vie paese. Il corteo scende quindi dal centro storico percorrendo tutto il corso mentre i giudei alternandosi, battono sulla parte finale della croce emettendo un rumore caratteristico che risuona con particolare intensità nel silenzio delle preghiere. La parte più suggestiva e quella alla quale sono legata è il momento in cui il corteo fa sosta nel sepolcro della Santa Croce in via Rosario, quella in cui abito. A questo punto il giudeo che porta la croce cade a terra con il suo peso addosso suscitando profonda commozione. Alla fine della processione, che si conclude nel primo pomeriggio, segue la celebrazione dell’adorazione della croce del Signore. Di sera si celebra la “chiamata della Madonna” durante la quale dopo la predica il sacerdote annuncia la Madonna per tre volte: “ vieni Maria vieni a prendere tuo Figlio” e con grande clamore i fedeli accolgono la statua. La Madonna viene poi accompagnata fino alla chiesa di Santa Maria e si prosegue con la visita dei sepolcri. Le chiese di tutto il paese vengono infatti addobbate con i “laureddri”, piantine che vengono fatte germogliare al buio simbolo della resurrezione della vita dopo il buio della morte. La tradizione strongolese non prevede festeggiamenti per i giorni a seguire, un tempo i bambini aspettavano il suono delle campane a festa per la Pasqua per aprire l’uovo racchiuso nelle “cuzzupe”, i dolci tipici del periodo pasquale, che erano soliti sbattere sulla fonte per darsi l’augurio. Questa tradizione è andata persa ma tuttora le “cuzzupe” sono particolarmente apprezzate.

Augusta, 19 anni, Strongoli (KR), Studentessa di Lettere e Beni Culturali

 


 

La grande crisi delle certezze al tempo del coronavirus

Lo sviluppo della scienza e le innovazioni delle tecniche hanno portato l’uomo a nutrire una fiducia sconfinata nelle sue potenzialità, nella possibilità di superare i propri limiti e dominare la natura. L’uomo si è, quindi, creato il mito di un progresso che avrebbe assicurato benessere e ricchezza garantendogli una posizione privilegiata rispetto agli altri esseri nel mondo. Al giorno d’oggi la globalizzazione che ha annullato le distanze consentendo il rapido scambio di merci e persone, la rete internet che fa circolare in tempo reale informazioni, immagini, pensieri e le modificazioni genetiche hanno dato un forte sostegno a questa ideologia. Eppure, l’uomo si è trovato impreparato e indifeso di fronte la diffusione di un virus che ne ha rivelato tutta la fragilità. In questo momento l’uomo si trova a combattere una vera e propria guerra, così è stata definita la lotta contro il coronavirus. Ogni termine che viene impiegato per descrivere la situazione del contagio fa riferimento al lessico bellico, il virus viene descritto come un nemico insidioso di cui si conosce poco, che si diffonde rapidamente e in breve tempo provoca numerose vittime il cui numero fa parlare di un bollettino di guerra. Questo virus ha la forza di privare l’uomo della libertà, infatti per evitare la diffusione del contagio si è obbligati a restare a casa rivoluzionando le nostre abitudini e il nostro stile di vita in maniera radicale. Questa chiusura forzata costringe l’uomo a osservarsi in una quotidianità alterata, fatti di gesti monotoni e ripetitivi che lo fanno sprofondare nell’abisso del tedio esistenziale. Si trova a vivere in una realtà alienante che lo porta a fare i conti con sé stesso, a metterlo a nudo, mostrandogli insicurezze e debolezze. Chiuso entro le pareti della propria casa si trova a non avere contatti con nessuno e quindi costretto a reprimere quella necessità che lo contraddistingue in quanto animale sociale. Cambia la percezione che ha del tempo, un tempo che sembra non passare mai e che tenta di scandire. Contemporaneamente ricorda un passato che anche nei momenti più semplici sembrava essere felicissimo e attende con ansia un futuro di ritorno alla normalità che sembra essere sempre più lontano. Vive una condizione di sospensione angosciante tra ciò che è passato e non sarà più e l’assoluta incertezza di ciò che verrà. Prova la profonda nostalgia dei momenti trascorsi e il rimpianto di non averli saputi apprezzare abbastanza. L’uomo che ha esigenza di programmare e progettare la vita si trova smarrito senza coordinate temporali a cui fare riferimento, è costretto a rimandare a “un non so quando” tutti i propositi. Muta anche il rapporto con lo spazio, in maniera quasi paradossale. Le grandi città spettrali, le strade e le mete turistiche vuote, negozi e locali chiusi ci pongono di fronte una realtà irriconoscibile. Irriconoscibile diventa anche la nostra casa che da luogo di rifugio e protezione, la certezza in cui trovare conforto si trasforma in una prigione che rende la quotidianità asfissiante. Chi vive da solo prova una durissima solitudine rivolgendo continuamente il pensiero ai propri cari con i quali vorrei essere per trovare la forza di superare insieme questo momento. Non meno drammatica è la situazione di chi è costretto a convivere ventiquattro ore su ventiquattro gli stessi spazi vedendo alterati equilibri che sono indispensabili per la tranquillità di una famiglia. Non è facile trovarsi tutti a casa, ognuno con le sue priorità, riuscire a conciliare le esigenze di ciascuno e le difficoltà aumentano quanto più sono numerose le famiglie. Ma restare a casa è un obbligo ma anche un dovere morale, un gesto che protegge noi stessi e gli altri attraverso il quale sperimentiamo una nuova forma di solidarietà. Lo ricordano le pubblicità che ripetono continuamente e con insistenza questo slogan per sensibilizzare il più possibile la popolazione. I media affrontano esclusivamente questo argomento che si ripropone ad ogni ora quasi in maniera ossessiva. Le uniche comunicazione possibili sono quelle virtuali, la rete si è mostrato uno strumento fondamentale in questa situazione consentendoci di mantenere i contatti con chi non possiamo vedere e dandoci la possibilità di lavorare da casa. Lo smart working è senz’altro una grande opportunità ma allo stesso tempo rende il lavoro più pesante, infatti il carico maggiore e le interazioni virtuali contribuiscono a creare uno stress che di questi tempi è difficile smaltire. Ma l’aspetto più difficile da realizzare è il numero altissimo delle persone che ogni giorno muoiono lasciandoci grande dolore e senso di impotenza. I più colpiti dalla pandemia sono gli anziani costretti a trascorrere questi momenti di sofferenza da soli senza la possibilità di abbracciare per l’ultima volta i loro cari, in un tristissimo silenzio. A loro non è possibile rivolgere neppure le cerimonie funebri senza dare la possibilità ai familiari superare almeno in parte il dolore della perdita. Anche quando le cose miglioreranno non si potrà ritornare al punto di partenza, molte cose cambieranno e renderanno atipica la nuova realtà. Sicuramente saremo più prevenuti, presteremo più attenzione e cura quando usciremo da casa e dovremmo adeguarci alle nuove disposizioni con cui saranno organizzati il mondo del lavoro e la scuola. La ripartenza sarà dura soprattutto per le attività che sono rimaste ferme e cominciano a risentire di una situazione economica in crisi che mette in molti in ginocchio e dalla quale sarà difficile risollevarsi. Ma la crisi delle certezze determinata da questo evento non solo ha ricordato all’uomo la sua finitudine ma anche quell’essenza umana che sembrava aver dimenticato chiuso nel proprio egoismo. Questa situazione ha risvegliato il senso di appartenenza dei cittadini a un Paese inizialmente spaesato che ha saputo combattere con tutte le sue forze le difficoltà grazie all’impegno di chi da casa o in prima linea non ha mai smesso di dare un sostegno, infondere coraggio e promuovere un messaggio di speranza nelle fine di tute le sofferenze. Spero che gli spunti offerti dalla circostanza non rimangano solo vuota retorica ma possano essere interiorizzati perché l’uomo possa uscirne davvero cambiato. Mi auguro che possa superare i limiti del proprio individualismo e prendere coscienza della sua funzione sociale , del valore dell’esistenza umana in funzione del prossimo, l’ importanza dei piccoli gesti e delle piccole cose della quotidianità pregnanti di significato così che li possa assumere come punti di riferimento costanti per dare svolta alla costruzione di una società solida.

Augusta, 19 anni, Strongoli (KR), studentessa di Lettere e beni culturali 

 


 

Fosse veramente un sogno se solo, soffiando, si avverasse un desiderio momentaneamente impossibile, e cioè quello di ritornare ad una normalità. Il mio quotidiano è stato sconvolto da una non più normalità perché, non far più ciò che si faceva prima, ha stravolto la mia vita. Nonostante tutto, però, rifletto molto di più rispetto a prima, penso ai tempi prima dell’avvento di questo virus e non nascondo che sento molto la mancanza anche solo di una rilassante passeggiata in campagna o in riva al mare. È più di un mese che non esco da casa, luogo in cui nei primi periodi lo vedevo soffocante, piccolo, caratterizzato da continui nervosismi perché guardando solo la televisione, non si sentiva altro che parlare di questo virus che aveva inondato il nostro paese. Poi, però, con il passare delle settimane ho iniziato a sentir meno l’oppressione di questo luogo, divenuto finalmente un luogo di rifugio rispetto a ciò che c’è fuori, apprezzando ogni angolo della casa: dal piccolo bagno al ripostiglio. La mia camera ricca di luce, è divenuta per me un luogo di totale autonomia in cui posso trascorrere del tempo a riflettere, a meditare su ciò che ci accade, su ciò che avevamo e che ora non abbiamo più. Siamo “prigionieri” delle nostre case, in attesa di una totale libertà che non so quando ci potrà essere. Ciò di cui sento la mancanza in questo periodo riguarda il non poter vedere i miei affetti più cari, fonte di vita per me. Non potendoli momentanemante abbracciare, uscirci insieme e scherzandoci sento una parte di me venire meno, ma ciò che mi fa andare avanti è proprio la speranza. Attraverso skype, whatsApp, riesco a vederli ma non è la stessa cosa di quando ci vedevamo fisicamente, perché anche solo con un abbraccio, anche se prima si arrivava anche a banalizzare la cosa perché c’era il detto: “Tanto ci vediamo”, mi si scaldava il cuore. Non poter fare ciò che si faceva manca molto, sembra strano ma ciò di cui prima volevamo anche fare a meno o che davamo per scontato, ora ci manca ancor di più: dall’andare a un supermercato, a una farmacia, ma anche solo prendere un autobus per recarmi all’università. Ma anche guadare il mare, l’erba che cresce o il piccolo fiorellino tra l’erba. Ora tutto ci sembra “ strano”, pericoloso, contagioso e facciamo fatica anche solo ad esporci dalla finestra, perché ci sembra lontano da noi, lontano da quel “bene” che poteva farci tempo fa. Anche solo vedere un vicino di casa ci fa strano, facciamo di tutto per evitare anche solo il saluto o lo sguardo, perché tra di noi pensiamo solo: potrebbe contagiarmi? Attraverso i telegiornali, i giornali riesco a mantenermi informata di quanto stia accadendo ora; se prima ne facevo volentieri a meno, ora non più, quindi cerco di mantenermi il più aggiornata possibile. Passano i giorni, i morti aumentano e i malati anche, spero che un giorno molto vicino possibile, questi casi non ci siano più e che ci siano solo guariti e nessun caso di positività. Penso a tutte quelle persone sole che, per curarsi, devono stare in ospedale e non possono stare con i propri cari, ma penso anche a tutti quei morti, che non hanno potuto riabbracciare anche solo per l’ultima volta i propri cari, non hanno potuto ricevere un funerale, ma solo una benedizione e, portati, poi, in quei camion militari nei propri cimiteri. Le vecchie generazioni ci stanno lasciando come un soffio di vento che inonda le nostre giornate. Chi ci ricorderà le guerre? Chi ci testimonierà gli eventi del passato? Chi ci racconterà le vecchie tradizioni? L’Italia, e non solo, sta perdendo parte del proprio patrimonio. Le festività di Pasqua, quest’anno, sono state molto diverse rispetto agli scorsi anni; dall’annullamento di ogni tipo di celebrazioni dal vivo al non poter stare insieme con parenti, nonni nel giorno di Pasqua. Il giovedì santo ho trascorso la giornata a preparare le prelibatezze che si fanno durante questo periodo. Appena uscita da casa si sentiva il profumo dei forni che proveniva dalle case dei vicini, per un momento tutto sembrava “normale”. Nella mattinata abbiamo fatto il pane, la pizza con i miei genitori e la nonna ricordava i vecchi usi della sua giovinezza e cioè nel preparare e farcire la “mpignulata”, la cosiddetta pizza piena con salsiccia, soppressata, formaggi. Ho vissuto questa giornata senza pensieri negativi, perché mantenendo le varie tradizioni ho potuto rivivere momenti dei lontani periodi in cui le anziane signore si sporcavano di farina e con molta precisione preparavano e decoravano pastiere, mpignulati ecc. Per la prima volta in vita mia, trascorrere questa giornata lontano dalla chiesa, lontano dalle varie funzioni che, in questi giorni, si svolgevano, mi ha rincuorato molto. Di solito questa giornata era caratterizzata in primis, nel portare al calvario vicino casa il cosiddetto grano santo in modo da poter decorare il calvario, poi si aspettava il pomeriggio per poter andare alla processione; io, suonando nella banda musicale del paese di Fuscaldo, mi recavo alla processione e suonavo i pezzi da funerale. La processione era caratterizzata dai misteri che venivano portati dai fedeli, dalla tomba di Gesù e dell’Addolorata. Invece, oggi, giorno 10 aprile, tutto questo non è stato possibile. Come da tradizione, ho portato il grano al calvario e seguito le varie funzioni religiose in TV, ma non è stata la stessa cosa. È stato molto emozionante rivivere i momenti, ma non come si faceva di solito. In questa giornata la frase di mia mamma mi ha fatto pensare molto: “Non mi va di rimanere sola in questa giornata”. Forse perché non lo è mai stata in questo giorno? Seppur un giorno triste, ci rincuoravamo anche solo stando in compagnia della comunità che si recava in chiesa, invece stando a casa e soli si pensava ancora di più a quel brutto giorno che visse Gesù, morto in croce per tutti noi, anche se, nonostante ciò, il male fu sconfitto grazie alla luce della Resurrezione di Gesù. Quindi, come quando la luce ha vinto sulle tenebre, anche per questo periodo sarà così; la speranza non deve mai andare via perché prima o poi tutto ritornerà alla normalità e questi momenti si potranno rivivere solo attraverso i ricordi. Dopo questa giornata angosciante la domenica è arrivata subito e in fretta, già da mattina anche solo la luce del sole mi dava allegria e mi riempiva il cuore di gioia. La giornata di domenica è stata molto tranquilla e semplice, il mio unico obiettivo è stato quello di non far sentire vuota casa, quindi ho fatto di tutto per mantenere allegra la mia famiglia, la nonna facendoli ridere e animando quasi tutta la giornata con scherzi e racconti. Farò fatica a dimenticare questo periodo, una delle positività però, riguarda la Terra che finalmente respira nell’immensità di questo spazio che la contiene; noi essere umani siamo solo ospiti di questo dono e, purtroppo, ne stiamo approfittando molto, senza prendercene cura, ma sfruttandola e basta. Invece, bisogna avere rispetto, cura; questo blocco momentaneo deve far riflettere e deve farci essere meno egoisti, deve creare in noi una sorta di mutamento per il bene del pianeta, ma anche per noi stessi. Bisogna apprezzare ciò che si ha, che siano piccole o grandi cose, l’indispensabile è essenziale. Anche un solo abbraccio che prima facevamo fatica a volere, ora ci manca tanto, anche solo una piccola uscita che prima la pigrizia la faceva mettere da parte, ora si fa sentire. La quarantena mi sta aiutando molto, infatti quello che sto imparando sta nel poter vivere a 360° ogni momento che la vita mi mette davanti, che sia bello, brutto, difficile o facile. Ogni secondo è importante e lo si deve sfruttare nei migliori dei modi, perché la vita stessa è un dono che non possiamo ricevere una seconda volta e quindi la si deve sfruttare al massimo e nei migliori dei modi. Se penso a un eventuale futuro, spero che ognuno di noi cambi il proprio modo di vivere e di pensare perché bisogna prendere in considerazione anche la più insignificante cosa, persona, perché tutto è importante e può farci bene. Spero un giorno di ritornare a viaggiare, di visitare nuovi posti e ampliare così le mie conoscenze, di non avere più timore nel guardare l’altro, ma potrò fermarmi e interloquire con lo stesso. L’Italia, così come il mondo, è fermo, in attesa di una ripartenza carica, nuova e ricca di innovazioni. Ho scelto quella foto ad inizio racconto perché è un fiore che simboleggia la forza, la speranza e la fiducia e in questo periodo ci serve molto. Il soffione è legato all’idea del distacco e del viaggio. I semi di questo fiore sembrano rappresentare le fasi del ciclo della vita che ognuno di noi è destinato a compiere.
Inizialmente i semi sono legati al pappo, la loro appendice soffice, e sembra non vogliano staccarsene. Poi pian piano si lasciano trasportare dal vento, dapprima timorosi, man mano sempre più impavidi, pronti a intraprendere un nuovo viaggio, a sperimentare nuove avventure.
Superata la paura iniziale, si lasciano andare al flusso della vita, curiosi di nuove scoperte, pronti a generare nuova vita.
Il loro percorso rappresenta una metafora perfetta della vita di ognuno di noi: per poter fiorire, ciascuno deve staccarsi dalla propria origine, affrontando il proprio viaggio senza paura, pronto a lottare contro le intemperie e a cogliere ogni opportunità.

Veronica, 22 anni, Fuscaldo (CS), studentessa dell’Università della Calabria

 


 

“9 Marzo 2020”.

Questa è una data che verrà ricordata da noi a lungo, verrà studiata dai nostri figli, nipoti, dalle generazioni future, sarà presente sui libri di storia. Sembra, infatti, una semplice data come tutte le altre, ma in realtà segna l’inizio di un periodo particolarmente difficile, l’inizio della quarantena. Ebbene sì, lunedì 9 marzo 2020 il Presidente del Consiglio Giuseppe Conte annuncia a reti unificate e su tutti i social network che bisognerà restare a casa, sarà vietato uscire. Il motivo? Beh come non saperlo, colpa del COVID-19, meglio conosciuto con il nome di Coronavirus, un virus tremendo che cesserà di diffondersi, e quindi di mietere vittime, soltanto con l’annullamento totale dei rapporti sociali, evitando quindi di uscire dalle proprie case. Da ciò è partito l’hashtag #IoRestoACasa che si legge un po’ ovunque, sui giornali, in televisione e ovviamente sui vari social network (facebook, instagram, twitter e molti altri ben conosciuti). La situazione in Italia prima del Coronavirus era quella che tutti noi conosciamo: le stradine piene di turisti che si fanno spazio tra la folla, i negozi che cercano di vendere qualche souvenir o qualche prodotto locale, le corse per non fare tardi, il traffico negli orari di punta. I non-luoghi sono ambienti tipici del nuovo millennio, siamo abituati a vederli straripanti di gente, eppure questo nuovo virus ha lasciato deserti anche questi suscitando in noi un forte turbamento. Vista questa limitazione nell’uscire, gli italiani non si sono persi d’animo e hanno ideato numerosi modi per cercare di rendere meno duro questo periodo: si pensi ai canti intonati insieme ai vicini di casa ma, si badi bene, ognuno dal proprio balcone, oppure ai numerosi concerti online da parte di cantanti di spicco. Un altro esempio potrebbe essere la Galleria degli Uffizi che ha aperto una mostra online così da permette di continuare ad ammirare i meravigliosi capolavori che questo museo ospita pur restando a casa propria. Così, per diversi giorni, orgogliosi di essere italiani, fiduciosi che tutto ciò un giorno possa finire e con la mano sul petto, abbiamo intonato il nostro inno, l’inno di Mameli, fortemente emozionati e cercando di stare vicino nonostante la distanza. Questa solidarietà, quest’aiutarsi gli uni con gli altri ha superato i confini nazionali, ha interessato l’intero globo, abolendo le disuguaglianze economico-sociali o le distinzioni tra razze, tra etnie per riscoprirci tutti compatrioti, proprio come diceva Montaigne ben 500 anni fa:

“… ritengo tutti gli uomini miei compatrioti, e abbraccio un polacco come un francese: ponendo questo legame nazionale a quello universale e comune”.

Per come ho potuto notare io, però, tutto questo entusiasmo è andato via via affievolendosi, lasciando il posto ad una grande malinconia, una grande tristezza. Personalmente posso dire che questi “arresti domiciliari” (si scherza eh) che sto scontando non mi pesano molto. Sono a casa con la mia famiglia e la vita frenetica, che non ci consentiva di trascorrere molto tempo insieme, si è trasformata ora in una tranquilla vita familiare: pranziamo e ceniamo insieme, la sera ci troviamo tutti accovacciati sul divano a guardare qualche film, abbiamo rispolverato dei giochi da tavolo messi sugli scaffali in alto e che non toccavamo da tanto tempo. Ho avuto anche la possibilità di iniziare a leggere un libro che avrei voluto iniziare ben molto tempo fa: “La coscienza di Zeno”. E chi lo dice che la quarantena è solo negatività? Ce lo ricorda anche uno dei personaggi più importanti del mondo della scienza che questo isolamento può trasformarsi in qualcosa di positivo. La sua università era stata chiusa a causa dell’epidemia di peste. Erano state adottate anche allora misure di distanziamento sociale per arginare il contagio. Siamo nella Londra del ‘600, lì Isaac Newton durante la quarantena elaborò alcune delle sue principali teorie tra cui quelle sulla gravità.                                                                                                                                                                                Per quanto riguarda i rapporti con i miei amici non si sono assolutamente arrestati, siamo nel 21° secolo, gli strumenti di comunicazione sono molteplici: videochiamate, messaggi, chiamate. Per evitare fraintendimenti preciso che mi manca poter uscire con loro, andare in un bar o a mangiare una semplice pizza ma, nonostante la lontananza e nonostante questo isolamento, li sento comunque molto vicini ed è questo l’importante. Proprio qualche giorno fa una mia amica mi raccontava di quanto si sentisse triste in casa, di come il suo appartamento le sembrasse sempre più stretto e la soffocasse e di quanto le paresse di essere rinchiusa in una gabbia. Ho provato a consolarla ovviamente e ho provato a capire perché io non provassi tutto ciò. Sono forse meno sensibile di lei? Forse, ma ho capito che non provo le sue stesse sensazioni perché non vedo questa quarantena come un sacrificio eccessivo, anzi questo è un momento in cui sto riuscendo a fare cose che prima riuscivo a fare molto meno, visti gli altri impegni che occupano le mie giornate. Che poi, vorrei ricollegarmi alla parola da me utilizzata qualche rigo fa: sacrificio. Davvero si può considerare un sacrificio lo stare nelle proprie case? Forse sì o forse no. Questa parola mi fa immediatamente tornare in mente un sacrificio ben più grande, senza dubbio imparagonabile al nostro, ovvero quello compiuto dai nostri nonni/bisnonni costretti ad abbandonare la propria famiglia, i propri cari, i proprio affetti e partire per la guerra. Certo, un paragone si può fare: i soldati vedevano la propria trincea come un luogo “sicuro”, oltre vi era, invece, il nemico, il campo di battaglia, minato e pericoloso. Beh, pur essendo un paragone un po’ difficile, un po’ forzato, si può dire che anche noi vediamo la nostra casa come un posto sicuro e l’esterno come un “campo di battaglia”, dove bisogna fare attenzione a non incontrare il nostro “nemico”, questo crudele COVID-19. Sicuramente non si può nemmeno accostare al sacrificio che il nostro Signore ha compiuto per noi uomini morendo in croce, salendo in cielo e tornando sulla Terra per salvarci. È passato un mese da quel 9 marzo, siamo ormai ad aprile ed è appena trascorsa la Santa Pasqua. Tra i tanti riti che ricorrono in questo periodo quello a cui sono maggiormente affezionata e che ho sempre visto con maggiore ammirazione è la processione del Venerdì Santo che si svolge in molti paesi del sud Italia compreso il mio, Bisignano. Ciò che caratterizza questa giornata è la processione lungo il paese con le statue raffiguranti la passione di Cristo, i cosiddetti “santarielli” (perdonatemi il termine in dialetto, ma è dovuto e allego foto sotto) con le suggestive rappresentazioni del Cristo morto e la Madonna addolorata. Le statue vengono portate sulle spalle; come apertura della processione vi sono le statue della passione di Cristo che, essendo molto più piccole rispetto alle due più importanti, vengono portate dai ragazzini che lottano con ardore per conquistare il tanto agognato “santariello”. Le statue della Madonna addolorata e di Cristo morto, essendo le più importanti, sono grandi e molto pesanti e vengono portare dalle spalle di persone adulte. La processione è costellata dal suono delle “tòccare” (mi scuso nuovamente per il termine dialettale) che sono strumenti a forma di cassettina con una manovella che fanno un rumore davvero forte, e si può dire anche un po’ fastidioso a lungo andare, e dal canto di voci esclusivamente maschili che intonano versi che racchiudono tutto il dolore della morte di Cristo. Quest’anno, tutto ciò non sarà possibile, e ciò ha suscitato in me un grande sconforto. La Santa Pasqua non è trascorsa come tutti gli altri anni con festeggiamenti, processioni, pranzi interminabili in famiglia, doni e molto altro che conosciamo bene e a cui siamo forse troppo abituati. Penso sia anche questo il problema, l’abitudine. Le tipiche abitudini pasquali, parlo di quelle meramente commerciali come lo scambio delle uova di Pasqua, secondo il mio parere, non hanno fatto altro che allontanarci eccessivamente dal senso della Pasqua, hanno trasformato questa festività religiosa in puro materialismo.  E allora pensando a questa festività mi chiedevo, qualche tempo fa, se non fosse possibile trascorrere la Pasqua in modo più intimo, più umile, ognuno nelle proprie case. La risposta l’ho potuta testare di persona visto il periodo da poco passato. Non si è potuto partecipare alla cerimonia del lavaggio dei piedi, alla processione del Venerdì Santo, alla celebrazione della Santa Pasqua, ma penso di essere riuscita a vivere ugualmente ciò che significa questa festa. Sono riuscita a scoprire una Pasqua più intima, più vicina al Signore e assolutamente meno frivola. Lo scoraggiamento, che mi ha accompagnato durante l’inizio di questo periodo di festa, ha lasciato posto ad una forte serenità, una grande tranquillità dovuta al fatto di avere i miei cari vicino fisicamente e il signore vicino al mio cuore. Anche in questo caso le nuove tecnologie ci sono venute incontro: le Sante Messe che caratterizzano il periodo Pasquale sono state trasmesse online e in televisione consentendoci, così, di partecipare ugualmente alla Resurrezione del nostro Signore.   Non vorrei essermi dilungata troppo (spesso gli scritti più lunghi sono quelli che più annoiano e non è assolutamente questo il mio intento) e arrivo alle conclusioni ponendomi una domanda: come penso sarà il futuro? Non penso sia facile rispondere a tale questione e ovviamente nessuno può dare una risposta certa ma proverò a dire ciò che penso. Sarà la mia forte fiducia nella scienza, nella medicina a farmi credere che presto queste discipline troveranno un modo per sconfiggere questo terribile male e che il vaccino non tarderà ad arrivare. La scienza ha fatto grandi passi avanti e, pur cercando di dare una risposta per il futuro, vorrei un attimo tornare indietro, nel passato e pensare alle pesti del ‘300 e del ‘600 (anche se non è proprio corretto paragonare la peste al Coronavirus) che si cercava di curare con i salassi, ovvero con la sottrazione terapeutica di una certa quantità di sangue, ma che non faceva altro che abbassare le difese immunitarie e provocare una morte più veloce e dolorosa all’appestato. Pensiamo, invece, ora quante cure innovative che abbiamo a disposizione, tutto ciò considerando anche l’alto grado di igiene e cura che si ha attualmente rispetto al passato. Pertanto, sotto quest’aspetto, sono molto speranzosa ed ottimista, la cura sarà presto disponibile e questo virus non ci farà più così paura. Ciò che, invece, mi fa guardare al futuro con grande pessimismo è il comportamento che avremo una volta finito tutto ciò. Questa quarantena ha permesso di riscoprirci tutti uguali, tutti con lo stesso timore negli occhi e la stessa speranza nel cuore, ci ha permesso di mostrarci senza artifici ma “nudi” così come lo stesso Seneca nelle “Lettere morali a Lucilio” consiglia di fare:

“Perciò quando vorrai procedere alla stima autentica di un uomo e sapere qual è la sua natura, osservalo nudo: deponga il suo patrimonio, deponga le cariche onorifiche e gli altri mendaci orpelli della Fortuna, si spogli persino del corpo. Considera attentamente la sua personalità, quale e quanta consistenza abbia, se sia grande per virtù sua o altrui”.

Considerato tutto ciò molti pensano che, finito questo periodo, si sarà più solidali gli uni con gli altri, più altruisti, ci renderà tutti più umani e coscienti dei veri valori della vita. Purtroppo, non mi trovo d’accordo con tutto ciò. Penso, infatti, che questo terribile momento che stiamo vivendo ci renderà ancora più egoisti, ignavi, omertosi e maggiormente concentrati sui propri interessi, pronti a non badare al proprio fratello, al proprio vicino o compagno, proprio come avveniva durante la peste del ‘300 che Boccaccio ha descritto ampiamente e minuziosamente nel Decameron:

“E lasciamo stare che l’un cittadino l’altro schifasse e quasi niun vicino avesse dell’altro cura ed i parenti insieme rade volte o non mai si visitassero e di lontano, era con sí fatto spavento questa tribulazione entrata ne’ petti degli uomini e delle donne, che l’un fratello l’altro abbandonava ed il zio il nepote e la sorella il fratello e spesse volte la donna il suo marito, e che maggior cosa è e quasi non credibile, li padri e le madri i figliuoli, quasi loro non fossero, di visitare e di servire schifavano”.

Concludo dicendo che spero vivamente di sbagliarmi su quest’ultimo aspetto (fortunatamente non sono brava con le previsioni) e che riusciremo davvero a vedere il mondo con gli occhi diversi, occhi più umani e che saremo meno incentrati solo su noi stessi. Il periodo che stiamo trascorrendo potrebbe davvero essere un’ottima occasione per mettere fine a tutto l’odio, l’egoismo e la crudeltà che trafiggono il nostro pianeta. Come si dice, dopo la pioggia arriva sempre il sereno e noi non possiamo augurarci altro che sia proprio così.

Serena, 19 anni, Bisignano (CS), studentessa di Lettere e Beni Culturali   

 


Il 9 Marzo 2020 è una data che certamente gli italiani, come tutto il resto del mondo, ricorderà per sempre. Uno dei momenti più drammatici nel mondo, ma soprattutto della nostra vita. Covid-19, il virus che ci ha portato a rimanere chiusi in casa, a rimanere chiusi nei nostri pensieri. Un virus che ha portato l’umanità intera a dover fare i conti con la propria quotidianità, a dover cambiare le abitudini frenetiche, a fare i conti con il tempo che scorre lentamente. Guardare fuori dalla finestra e notare che non è cambiato niente se non il nostro modo di vivere, il modo in cui noi utilizzavamo il nostro tempo. Il Covid-19 non rimarrà impresso nella nostra mente soltanto per la morte e la distruzione che ha portato con sé, ma anche perché ci ha dato l’occasione di guardare dentro noi stessi, occasione che prima non avevamo a causa del nostro continuo correre e del nostro continuo non fermarci.

Guardare vecchi ricordi, vecchie foto in qualche modo ci riporta indietro nel passato, ci permette di non dimenticare, perché la memoria è la nostra unica arma, la memoria ci ricorda chi siamo, chi eravamo ed in qualche modo ci permette di capire chi diventeremo.

In antropologia, la memoria svolge una funzione fondamentale, ossia di componente costitutiva delle sue fonti più importanti. Tutti i fenomeni sociali su cui l’antropologia punta l’attenzione, quali riti, cerimonie, simboli, luoghi pubblici, sono considerati forme di memoria collettiva.

I riti religiosi sono fortemente sentiti in Calabria, e nel mio paese. Sono vissuti con forte sentimento, sia da parte delle famiglie sia dalle istituzioni religiose. In particolar modo durante la Pasqua, i riti che la caratterizzano sono molteplici. Hanno inizio con la Domenica delle palme, solitamente la popolazione si reca in chiesa per la benedizione delle palme di ulivo. Una tradizione ricorrente nel mio paese, Acri, è la creazione dei cosiddetti ‘davurielli’ i quali vengono utilizzati per addobbare l’altare di deposizione e vengono lasciati in chiesa durante il Giovedì Santo. Caratteristica peculiare durante la settimana Santa è la vestizione della Madonna Addolorata dalle parrocchiane della Chiesa di San Domenico. Uno dei momenti più importanti che vede il ricongiungimento delle famiglie è il Venerdì Santo; durante questa giornata è tradizione recarsi in chiesa alle ore 15 per prendere parte alla celebrazione che prevede il bacio della Croce, per poi proseguire con la processione, che passa in tutte le vie storiche del paese. Vengono portate in processione sia la statua di Gesù sia la statua della Madonna Addolorata seguiti dalla banda musicale. Al termine di essa si accoglie in chiesa la statua della Madonna sventolando fazzolettini bianchi.  La notte del Sabato Santo viene celebrata la veglia pasquale, durante la quale si accende il cero e si benedice l’acqua. La Domenica di pasqua è giorno di festa e giorno di Resurrezione. La Pasqua rappresenta proprio questo, Resurrezione. Il paese diventa un punto di ritrovo. Queste festività durante la quarantena sono state vissute in modo diverso e in modo più intimo, i riti sono stati celebrati e trasmessi in televisione, tutto ciò ci ha permesso di prendere parte a tutti gli avvenimenti. Ci sono stati sentimenti contrastanti quali ad esempio la nostalgia di un tempo passato, che ci ha permesso di riportare a galla vecchi ricordi che sono radicati nella nostra memoria.

Durante questa quarantena, alcuni di noi sicuramente hanno cambiato modo di pensare e vedere le cose, a dare importanza ai piccoli gesti e apprezzare piccoli momenti di felicità, quali ad esempio un pranzo con tutta la famiglia o un film sul divano, cose che prima erano diventate scontate, ma che il Covid-19 ci ha fatto capire che non lo sono, che dovevamo fermarci. Fermarsi è forse una delle cose più difficili da fare, fermarsi vuol dire fare i conti con la propria vita e con le proprie difficoltà, capire cosa c’è che non funziona e cosa, invece, va bene. Il Covid-19 in qualche modo ci sta insegnando a volerci bene, a trovare del tempo per gli altri, a trovare del tempo per fare del bene, come le donazioni che si stanno facendo, o piccoli gesti quali comprare del cibo per quelle persone che non hanno la possibilità di acquistare i beni primari. È ritornata la solidarietà che sta mettendo da parte l’egoismo dilagante nella nostra società.

Anche Malinowski si rende conto dell’importanza della reciprocità ovvero del dare e del ricevere: il dono costringe a ricambiare e da qui si mantengono le relazioni sociali e la reciprocità, pertanto, promuove quella che è la solidarietà sociale.

I social network, in qualche modo, ci stanno aiutando a rimanere connessi con il mondo, e con i nostri affetti. Videochiamate e chiamate ci permettono di rimanere costantemente in contatto con loro, ma niente di tutto ciò riuscirà mai a sostituire la potenza di un abbraccio o di un sorriso su un volto. Il mondo in questo momento fa paura, l’esterno diventa in qualche modo il nemico, cose quotidiane come andare a fare la spesa diventano momenti particolari, che attendiamo. Momenti che ci fanno credere di essere ritornati alla normalità, ma che durano un istante, durano il tempo di vedere un nostro simile ricoperto da protezioni.

Durante questo periodo anche i luoghi acquistano una concezione diversa. Secondo Marc Augé, i luoghi sono riconoscibili per i fenomeni di appartenenza, le relazioni sociali e la memoria locale, allora la modernità crea non luoghi ai quali nessuno può appartenere e soprattutto bisogna capire se i non luoghi sono non luoghi per tutti. Si sviluppa un senso di appartenenza, il senso del luogo, ossia quando i luoghi assumono dei significati particolari.

Quante volte durante questa quarantena abbiamo sentito al telegiornale il numero dei morti che aumentava di giorno in giorno, quante volte abbiamo sentito le campane suonare? In questo caso mi viene in mente una poesia di John Donne, con la quale voglio concludere. In questa poesia l’autore afferma che quando sentiamo suonare la campana, prendiamo coscienza che una parte di noi ci ha lasciato e che ora quella campana suona anche per chi resta. ‘Perciò non mandar mai a chiedere per chi suona la campana; essa suona per te’.

Erika, 20 anni, Acri (CS), studentessa di Lettere e Beni Culturali


 

Frammenti di pensieri 

Dal cielo e dai campi spuntano, come per incanto, splendidi fiori e magnifiche farfalle che rallegrano le anime tristi di molti bambini. Al tramonto un sole arancione splendeva sull’azzurro mare attraversato da bellissimi gabbiani.
Chiudo gli occhi e respiro questa libertà. Provo a immaginare tutto ciò. Brividi invisibili mi attraversano, sensazioni, profumi, il meravigliarsi davanti a un tramonto, ma mi accorgo che tutto ciò, in questo periodo difficile, può essere solo un sogno.
Vorrei svegliarmi e dire: “È stato un incubo, ora siamo ritornati alla normalità”.
Pensare troppo fa male, ma in questo difficile periodo è ciò che ci tiene vivi, la nostra testa naviga, fa dei viaggi, delle scoperte e molto spesso ci riporta nel passato.
Proviamo nostalgia, dolore, angoscia per quel passato, per quella quotidianità che ora più che mai ci manca.
Proviamo a tenere la mente occupata, ma a molti di noi viene difficile.
Ci distraiamo leggendo un libro o guardando per ore episodi di serie tv per evadere da questa realtà che ci spaventa.
Vorremmo solo guardare avanti, al futuro e dimenticare ciò che è e che è stato.
“La libertà è come l’aria: ci si accorge di quanto vale quando comincia a mancare”.
Quella che sembra la massima di una saggezza arcana, è in realtà una frase tratta da un’appassionata difesa della giovane Costituzione Italiana che Piero Calamandrei giurista, padre costituente e appassionato uomo politico, pronunciò davanti agli studenti milanesi nel 1955.
Mi ha colpito veramente tanto e penso che non c’è cosa peggiore di essere privati della propria libertà che potrebbe essere di varia natura e quella che stiamo vivendo noi oggi è, forse, quella che ci rende fragili, vulnerabili ed è difficile da dominare, a volte ti sembra di soffocare, vorresti uscire dalla gabbia in cui ti trovi.
Il “mio” 2020 avrebbe dovuto essere l’anno dei viaggi, delle nuove conoscenze, dei nuovi orizzonti, avrei voluto arricchire il mio bagaglio culturale, ma alla fine i miei progetti sono svaniti, sostituiti da un perfetto sconosciuto che l’ha fatta da padrone nella vita di tutti gli abitanti del pianeta.
Questo “mostro” ha portato tanto dolore, tanta sofferenza, ma sono certa che sia stato un periodo utile per riflettere e che sotto alcuni punti di vista ci abbia cambiati.
Saremo diversi, cambieremo modo di guardare le cose e le persone, daremo un altro valore al tempo e lo apprezzeremo di più, osserveremo ogni dettaglio, ogni particolare e sapremo ancora meravigliarci e magari noteremo cose che prima non avremmo notato.
Vivremo in modo diverso e sarà più bello di prima.
“Finirà anche la notte più buia e sorgerà il sole” (Victor Hugo).
La speranza che tutto possa ritornare meglio di prima Victor Hugo, con questo pensiero, lo esplicita nel miglior modo possibile.
Io lo vivo osservando i miei nipoti, la dolcezza dei loro occhi che si riempiono di gioia quando incontrano i miei, mi stringono forte forte e i pensieri negativi si estinguono. Sono offline e respiro di nuovo.

-Eliana, 19 anni, Sant’Onofrio (VV), Studentessa di Lettere e Beni Culturali.

 


 

Una catastrofe all’improvviso 

Quando sentivo le prime notizie al Tg che riportavano ciò che stava succedendo in Cina, vedevo quelle immagini forti di persone intubate negli ospedali, tenuti lontani da tutti, pensavo tra me e me che doveva essere terribile, era scoppiata una vera e propria catastrofe. Anche se io sono una di quelle persone che, fino a quando non vede con i propri occhi, non si rende conto delle cose, intanto passavano i giorni e i morti aumentavano, i contagi anche e iniziai a capire che niente era da sottovalutare, come invece all’inizio, nel nostro Paese si faceva. La mia preoccupazione aumentò quando arrivò la notizia che c’erano i primi contagi in Italia, anche se qualcuno sosteneva che era sempre e solo una semplice influenza da cui si poteva guarire. Dopo qualche giorno, senza rendercene conto, il nord del nostro paese presentava molti contagi e successivamente fu così anche per il sud; tutta l’Italia era diventata zona rossa e da lì tutto cambiò. Rinchiusi e isolati nelle nostre case, alcuni lontani dai genitori, dai nonni, figli o nipoti, niente abbracci, baci, niente contatto umano e tutto questo; a parer mio, sembra quasi essere una punizione per non aver saputo apprezzare la bellezza e l’importanza delle piccole cose che prima avevamo, ma non ci facevamo nemmeno caso, perché davamo tutto per scontato. Adesso le strade sono vuote, fuori c’è un silenzio assordante, le settimane non sembrano più distinguersi in giorni perché ogni giorno che inizia sembra uguale a quello precedente, c’è solo una distinzione tra mattina, pomeriggio e sera. Siamo spaventati, intimoriti, ci riempiamo di informazioni nell’illusione di tenere tutto sotto controllo, ma questo non ci aiuta a sentirci meglio, anzi l’ansia, la paura e l’incertezza aumentano giorno dopo giorno. Molti non si chiedono nemmeno il perché stia succedendo tutto questo, la maggior parte accusa gli altri senza farsi un’analisi di coscienza ed altri vorrebbero solo che tutto finisse nel migliore dei modi, senza cambiare niente di loro stessi. In questi giorni ho avuto la possibilità di fermarmi a riflettere e, dialogando con la mia famiglia, mi sono resa conto che nella società odierna si stanno perdendo un sacco di tradizioni, che ci sono state tramandate da generazione in generazione; infatti, la mia nonna mi racconta sempre con occhi pieni di gioia della sua adolescenza, mi racconta di quanto erano belle quelle domeniche in cui, dopo una settimana di lavoro, si pensava ad andare in chiesa, mangiare tutti insieme e stare in allegria perché a loro bastava poco per essere felici e divertirsi. Oggi, invece, le domeniche per molte famiglie sono un po’ diverse, non c’è il tempo di andare a pregare o di andare a salutare i nonni perché si lavora, siamo continuamente ossessionati dall’arricchirci sempre di più, ossessionati dal cercare il vestito più bello, dall’ultimo modello di smartphone, della macchina nuova solo per apparire realizzati, si dedica poco tempo a comunicare tra di noi, ci lamentiamo della nostra vita senza fare niente per cambiarla, senza pensare che possano succedere tragedie come quella che stiamo vivendo, che possono prendere il controllo della nostra vita, decidere il nostro futuro e quel tempo che prima non avevamo si ferma. Prima che si diffondesse questa pandemia trascorrevamo tantissimo tempo fuori casa tra università, lavoro, uscite con gli amici e di conseguenza pochissimo tempo nelle nostre case. Infatti, si tornava a casa quando si era stanchi dopo lunghe giornate, la consideravamo come il nostro luogo di rifugio e sicurezza che ci aspettava lì pronto ad accoglierci; adesso non solo la percezione che abbiamo del mondo esterno è cambiata, ma anche quella delle nostre case. Oggi la casa è diventata il luogo dove, oltre a svolgere le attività quotidiane che facevamo prima, come dormire e mangiare, ci protegge, ma escludendo chi prima ci circondava; essa è diventata un’aula di università o uno studio da cui lavorare e trascorrere giorni e giorni. Le mie giornate in quarantena cerco sempre di renderle il meno monotone possibili, trascorro molto tempo nella mia camera a fissare il pc per seguire le lezioni online e questo da una parte è un vantaggio perché consente di poter mandare avanti i corsi, ma dall’altra è molto deprimente non poter intervenire durante la lezione e confrontarsi con i professori, oppure commentare la lezione con i colleghi; poi c’è il cellulare che, in qualche modo, riesce a farci sentire vicine le persone che sono distanti da noi, che non vediamo da giorni e giorni e che ancora non potremo vedere chissà per quanto tempo. Ma la mia migliore amica in queste lunghe giornate è diventata la musica, lei mi tira su il morale quando sono triste e mi dà l’ispirazione per scrivere i miei stati d’animo che sembrano cambiare di continuo. La cosa più strana di tutte è stata trascorrere la Settimana Santa e il giorno di Pasqua a casa senza andare in chiesa, senza parenti e amici, senza cuginetti che aprono le uova di Pasqua e mangiano la cioccolata, quest’anno solo baci e auguri virtuali, ma purtroppo non c’era altra scelta. Di notte, invece, mi capita spesso di fare incubi che mi fanno svegliare nel cuore della notte, oppure sognare che tutto questo non stia succedendo realmente e continuo a vivere la mia vita come se niente fosse, con spensieratezza e tranquillità, poi mi sveglio, però, e capisco che era solo un sogno che vorrei si avverasse. Inoltre, penso che siano proprio la spensieratezza e la tranquillità che verranno a mancare quando si potrà tornare alla normalità, perché niente sarà come prima; credo che le persone si guarderanno con occhi diversi, con molta più diffidenza rispetto a prima. Questa situazione non è facile soprattutto per molti lavoratori che non ricevono lo stipendio e non si sa se domani avranno ancora un lavoro che li aspetta, non sarà facile riprenderci in mano la libertà di prima, ma mi auguro solo che tutto questo abbia dato una lezione di vita a tutti noi.

MariaRosaria, studentessa di Scienze dell’Educazione

 


Eravamo felici e non lo sapevamo

Eravamo felici e non lo sapevamo! È la frase che ogni giorno ripeto tra me e me… mi sento libera, felice, ho venti anni e niente mi poteva spaventare; frequentavo l’università, vivevo una vita serena da teenager che si rispetta: amici, studio, feste e la mia unica preoccupazione era la sessione d’esame che si avvicinava e che dava un freno a quella che era la mia libertà. Poi una sera di marzo, erano circa le 20 ‘edizione straordinaria’ il Presidente del Consiglio era in primo piano davanti a tutti gli schermi… continuavo a cambiare canale, con la convinzione che quelle parole erano frutto di uno scherzo, la confusione e il senso di paura mi assaliva, non capivo, eppure nella mia testa risuonava solo una parola: pandemia.
“Lockdown, tutto chiuso, l’Italia si ferma nessuno può uscire”! Aumentava la confusione in me e cercavo di capire cosa realmente stesse succedendo… tutte quelle parole mi risuonavano nuove, non erano presenti nel mio vocabolario o almeno le avevo sempre associate a racconti di fantasia e, invece, era tutto vero: la vita ci stava mettendo davanti alla nuova realtà. Facevo mente locale, leggevo, mi informavo e piano piano quelle parole prendevano un sapore diverso, forse non erano così sconosciute, cercando negli archivi della mia mente, avevo già sentito parlare di virus, avevo già immagazzinato quel concetto, ma era ancora troppo lontano da me, da noi, dalla mia famiglia, dai miei amici, dalla mia realtà. Il 10 marzo il Presidente del Consiglio dei Ministri dichiara pandemia nazionale. Un virus tanto sconosciuto quanto pericoloso si era diffuso prima in Lombardia e poi esteso in poco tempo in tutta Italia. Lo chiamano Covid-19, è un virus che pare sia ‘nato’ in Cina e in poche settimane si è ‘spostato’ in tutto il mondo. Sì, perché non solo l’Italia, ma ogni nazione è diventata ‘zona rossa’, cioè area soggetta ad alto rischio di carattere ambientale e sociale. Da quella sera tutta l’Italia si è fermata, il mondo ha smesso di ‘vivere’, l’organizzazione mondale della sanità ha riconosciuto in questo virus un’arma letale, un agente patogeno che ha la capacità di colpire gli umani e di diffondersi rapidamente per contagio. In questi mesi si sono susseguite diverse trasmissioni televisive, e per ovvi motivi l’argomento discusso era il virus.
Ho ascoltato virologi, politici, esperti e meno esperti in materia, ma nessuno è riuscito a colmare quel senso di smarrimento che attanaglia le nostre coscienze. Quello che è stato chiaro da subito, erano le poche regole a cui eravamo soggetti: niente uscite, solo se strettamente necessario, rifornimento di cibo e medicine, distanziamento sociale ed ognuno chiuso nella propria casa.
Tutto questo è la parte ‘tecnica’ del virus, ma quello che ha scosso fortemente le nostre coscienze è la parte umana; tanti contagi, tante persone infette, tanti in rianimazione per complicazioni da Covid e troppi troppi morti. Non voglio soffermarmi sui numeri, quelle cifre esponenziali fanno paura ad essere quantificate e verbalizzate nero su bianco… è sufficiente ricordare che la curva epidemiologica ha avuto un momento di crescita esponenziale, un picco e ad oggi un leggero calo.
Infatti, dalla ‘fase 1’ dei primi due mesi, oggi siamo nella fase 2: il virus forse non è più nella sua fase attiva, ma con il tempo sta perdendo la sua efficacia, forse possiamo sperare in giorni più sereni, forse possiamo guardare al futuro con un po’ di speranza in più che in questi mesi avevamo perso. Ancora troppi dubbi, troppi punti di domanda, troppe insicurezze e troppa paura. Paura del futuro, paura di quantificare i danni umani, ma anche economici che questa pandemia ci lascerà, paura di pianificare il futuro, forse paura di essere di nuovo felici…
Non sappiamo ancora cosa ci riserva il futuro e come riprenderemo a vivere, forse tutta questa storia ci cambierà per sempre o forse, nel giro di pochi mesi, ci saremo dimenticati di tutto ciò completamente; quello che sicuramente possiamo dire con certezza è che qualcosa forse negli anni l’uomo ha sbagliato. Forse, la cattiveria, o il modo aggressivo con il quale abbiamo trattato il mondo, un posto che ci è stato dato in prestito e che dovremmo custodire con più attenzione e cura.

Melissa, 20 anni, Celico (CS), studentessa di Scienze dell’Educazione

 


Sono quasi due mesi che l’Italia, come il resto d’Europa, sta attraversando una forte pandemia; tutto è cambiato all’improvviso, sembra quasi che “qualcuno” abbia premuto il tasto STOP sulla vita di ogni essere umano. Tutti a casa, non si può uscire, vietati assembramenti e soprattutto vietato qualsiasi tipo di rapporto, uscire solo in caso di necessità come lavoro, salute.  Ci siamo ritrovati catapultati in un grande buco nero in cui la luce sembra iniziare ad uscire solo ora, maggio 2020, dopo circa 60 giorni di lockdown. Da studentessa universitaria, posso dire che sono tante le emozioni che sto provando: disagio e imbarazzo nell’uscire con mascherine e guanti davanti alle poche persone che incontri per strada, persone che facevano parte della tua quotidianità; tristezza di non poter andare a trovare un parente o amico; nostalgia dei mesi e anni precedenti, vissuti a volte a 1000, a volte a 100, con nessun pensiero concreto verso il futuro; speranza che tutto passi presto e ritorni come prima, a quella famosa “normalità” che oggi piangiamo e rivogliamo indietro ma che prima, forse, non accettavamo; ansia nell’essere stati a contatto con persone positive; paura che tutto ciò può ritornare. Il Covid-19, conosciuto anche come corona virus, porta ad avere, a volte, uno stato di disorientamento; da ciò, però, possiamo cogliere l’occasione di investire e migliorare su noi stessi o addirittura riprendere alcune attività abbandonate per noia, per mancanza di tempo; senso di isolamento e solitudine aumentato per i social. Ho scritto poche righe, ma qui sono davvero racchiusi tutti i miei stati d’animo. Infine, un pensiero ai medici, infermieri e a tutti quelli che hanno lavorato 24 ore per il bene degli altri, facendo turni strazianti, non tornando dalle famiglie; alle famiglie che hanno perso uno o più familiari in questi giorni, non avendo una degna sepoltura e a tutti quelli come me che hanno subito un lutto non per il Covid-19, ma che, comunque, non hanno potuto salutare per l’ultima volta in modo decente chi se n’è andato troppo presto.

Speriamo in giorni migliori, in un futuro migliore.

Francesca, 21 anni, Spezzano della Sila (CS), studentessa di Scienze dell’Educazione

 


 

Succede così: un giorno di metà maggio mi sveglio, mi scosto le lenzuola di dosso, accendo lo schermo del mio smartphone e, un attimo prima di passare in rassegna tutti i social, mi fermo a guardare che giorno è, a caratteri cubitali “16 maggio”: sono trascorsi 63 giorni dall’inizio del lockdown.

Giorni di riflessioni e di introspezione, giorni di tedio, ma anche giorni di scoperte e di riscoperte all’interno di quattro mura tanto familiari quanto inesplorate.

In un attimo mi scorrono davanti due mesi di quarantena e si desta in me una considerazione che ha più l’aria di essere un resoconto: non è stato semplice ridisegnare “confini” e “ponti” all’interno dello spazio condiviso di casa mia, ristabilire un equilibrio e uno stile di vita improvvisamente stravolti dalle misure cautelari, non lo è stato nemmeno far ritorno al “nido” dopo la modica ma importante indipendenza dei miei vent’anni appena conquistata, ma riconosco che, nel momento in cui una pandemia si abbatte mietendo innumerevoli vittime , avere una casa da poter concepire come riparo è un’enorme fortuna.

Al contempo, però, ho come l’impressione che tutto ciò sia stato, in realtà, solo un incubo generato dal mio inconscio, una piccola parentesi invisibile tra il prima e l’adesso: sì, proprio adesso, perché sembra essere giunto il momento di ritornare gradualmente alla “normalità”, di uscire da questa bolla che mi ha offerto rifugio ma che adesso rischia di precludermi uno spiraglio di libertà.

Mi vesto velocemente e mi impegno a coprire le occhiaie con un po’ di correttore, e poi giù sotto la piccola trincea della mia mascherina, apro la porta di casa e vengo investita da una forte luce proveniente da fuori, compio un passo, poi due, aumento la velocità e la sicurezza della mia andatura: sono fuori, sto camminando, quasi come se fosse la prima volta.

 Su di me nessun apparente segno fisico causato dall’epidemia: vivere in un piccolo paese del sud Italia, tanto bello quanto desolato, ha anche i suoi pro, eppure in me c’è qualcosa che non va e non parlo del chilo e mezzo di troppo post quarantena.

 Ecco, forse, durante tutto questo tempo, persa dietro curve dei contagi e turbamenti legati alle crescenti morti, mi ero quasi dimenticata di una dimensione: il mio corpo.

E adesso che so di avere il via libera ad uscire di casa, mi destreggio un po’ intorpidita e come reduce da un sonno lungo due mesi tra le vie del mio paese e mai tanto bello è stato, seppure da lontano e non senza qualche sottile remora, salutare la gente per strada.

Di sfuggita scorgo i loro occhi: colmi di spaesamento misto a speranza proprio come i miei, tacita vicinanza di sguardi che trasmettono la consapevolezza di una comune vicissitudine.

Passo dalla nonna che, paradossalmente, appare ai miei occhi addirittura ringiovanita, ma è probabile si tratti solo della mia percezione alterata dalla gioia di ritrovarla in salute, fortunatamente scampata al virus, a differenza di tanti altri anziani e meno anziani dal recente tragico epilogo, volati via senza prima un dolce saluto da parte dei propri cari e questi ultimi senza la possibilità di rielaborarne la perdita mediante il cordoglio di un lutto condiviso.

Cerco di scacciare via questi pensieri che aleggiano spesso nella mia mente sin dall’inizio della pandemia e per la prima volta, dopo tanto, lascio accarezzarmi il viso dal vento.

E poi giù per la via Dante, strada principale del mio paese, che nel tempo ha visto le mie gambe allungarsi e i miei percorsi cambiare, da cui scorgo la piazza centrale: sulle panchine qualche bambino e una signora con al guinzaglio il proprio cane. Tutt’intorno un’atmosfera rarefatta e il cinguettio delle rondini che mi rammenta di una primavera ormai inoltrata, che nonostante il virus anche quest’anno non si è sottratta al compito di ornare prati e aiuole, rimarcando che la vita continua, a prescindere da noi e che è nel nostro interesse prendercene cura.

Non appena mi lascio trasportare dalla scoperta di rinnovati dettagli del paesaggio circostante, suona il telefono e mi rendo conto di aver perso la cognizione del tempo: in men che non si dica si è già fatta ora di pranzo. Allora salgo per le vie del mio paese, talvolta sostando brevemente tra gli antichi scorci, per poi essere rapita dai profumi di soffritto e pane appena sfornato che si dispiegano dalle finestre sino ad essere percepiti dal mio olfatto, quando una gioia improvvisa mi pervade: mi era mancato tutto questo.

 Un paio di gradini e sono arrivata a casa mia, le cui pareti sembrano essere più luminose e confortevoli di quando sono uscita e constato che essermene distaccata anche se per poco le abbia rese meno strette e anguste ai miei sensi.

Al telegiornale l’ennesimo bollettino con annessi nuovi contagi, morti e guariti: la situazione è migliorata notevolmente, ma il virus è ancora in agguato. Sto per essere colta da un senso di oppressione quando mi volto verso il giardino e noto alcuni nuovi boccioli, sorpresa a cui segue la riflessione che la natura non si sia mai fermata e che anzi abbia beneficiato della malattia umana, riappropriandosi dei propri spazi.

 Nuovi semi si sviluppano, nuove vite nascono.

Così mi ripeto che nulla accade per caso e che anche questo momento profondamente critico passerà, ma non senza prima averci insegnato qualcosa.

Nadia, 20 anni, Mammola (RC), Studentessa di Lettere e Beni Culturali

 


 

”I giorni del silenzio”

Caro diario, in questi giorni così diversi da tutti gli altri da quando il virus ha preso possesso delle nostre vite, certamente niente sarà più come prima. Proprio l’altra sera avevo in mente una riflessione che voglio condividere con te su come siamo giunti a tutto questo: dove sono finiti i nostri prodi guerrieri? Dove sono finite le nostre guardie? La nostra sicurezza è diventata insicurezza, la nostra forza è venuta meno. La nostra baldanza ci sfugge di mano. Le mura non ci proteggono più dal nemico invisibile, i nostri archi sono tesi, ma i nostri dardi non uccidono il nemico, i nostri valorosi sono pronti, ma la paura ha preso il posto del coraggio.

Questo inatteso evento è un fenomeno che ci ha colto tutti di sorpresa, nessuno si aspettava in un’epoca come la nostra dove tutta la nostra certezza è diventata insicurezza, e dove la nostra scienza non è servita a metterci a riparo da questo spavento. Viviamo dei giorni che, non a caso definisco ”i giorni del silenzio”, perché tutti presi da una quarantena impostata per la nostra sicurezza, le strade sono diventate deserte dal rumore quotidiano, niente più macchine, persone… anche il mare è diventato silenzioso dove si possono udire persino il canto dei delfini vicino alle nostre spiagge, e il cielo ha ripreso la sua origine con i suoi naturali abitanti, gli uccelli che volano, dove possiamo anche noi nelle città udirne il canto. Già, se non fosse per questa poesia potremmo anche non vedere il lato terribile di questo virus, che ha portato tanti lutti nelle case e dove molte volte non è stato possibile dare un ultimo saluto al proprio caro per evitare il contagio. A causa di questa pandemia la nostra vita è stata rivoluzionata in modo drammatico e il nostro vivere quotidiano non è più lo stesso. Si cammina per le strade con le mascherine, per proteggerci dalle nostre paure e dove il passante che incontriamo immaginiamo che sia un potenziale nemico di cui dobbiamo guardarci. Le nostre relazioni sociali sono stravolte, e questo virus non uccide solo il corpo, ma anche l’affetto, l’amore, dove non possiamo più abbracciarci, stringerci la mano, stare vicini ed è come se un muro invisibile si fosse interposto tra noi e gli altri. La mia stanza è diventato il mio mondo, dove, da molti giorni, sono collegata con l’esterno solo attraverso i social, poiché mi è data l’impossibilità di vivere fuori la mia vita. È diventato il mio rifugio, dove mi nascondo dalle paure esterne, e spero che tutto questo finisca presto, perché questo virus non sta uccidendo solo il corpo, ma vuole distruggerci anche l’anima.

Rebecca, 19 anni, Cosenza, studentessa di Lettere e Beni culturali

 


 

#RESTIAMOACASA

 

Nell’Antropologia Culturale i concetti spazio e tempo sono considerati cardini e fondamentali e in questo caso, il luogo rispetto allo spazio è considerato relazione che ha la capacità di giungere secondo avvenimenti particolari. Fattore importante è la distanza, per esempio, quando il Docente è seduto intorno alla cattedra, mentre gli alunni sono seduti nelle proprie postazioni, ma avvengono, comunque, delle interazioni e relazioni. Personalmente, iniziare questa mia scrittura è molto importante e comincerei dicendo che la concezione di spazio e tempo è incentrata principalmente in questo periodo legato all’attuale pandemia da COVID-19. È una problematica che ha messo a dura prova l’essere umano a livello vitale e psicologico, poiché vengono mostrati e dimostrati preoccupanti sentimenti quali, per esempio, l’angoscia e la paura di non riuscire a ritornare alla normalità e alla quotidianità precedente esternando e condividendo sensazioni ambivalenti. È presente il rischio di perdere la presenza, proprio come deduce De Martino e Marc Augé che saranno in grado di concentrarsi sulla concezione di luogo e non luogo cercando di spiegare che oggigiorno l’uomo è ossessionato dall’interno presente, in particolare preso dalla propria vita frenetica. In questo periodo di quarantena è prevalsa in maniera molto particolare la concezione della Cultura che nasce all’interno della società. Quest’ultima, dopo la pandemia, forse cambierà radicalmente in positivo, oppure tutto rimarrà concepito ancora negativamente, ma tutto dipende dal comportamento che assumiamo una volta finita quest’emergenza globale. Quando è presente, come ho già precedentemente citato, per esempio, l’angoscia e la paura, in queste circostanze è possibile che la nostra popolazione possa radicalmente cambiare determinati atteggiamenti. Per esempio, noi calabresi siamo sempre stati molto ospitali, ma adesso è davvero difficile esserlo in un momento così cruciale. Proprio quando le persone in questo periodo tornano dal Nord, quindi dalle Regioni maggiormente colpite dalla pandemia, noi calabresi potremmo dire: “NON TORNATE IN CALABRIA” per salvaguardare la nostra situazione. Proprio per questo, anche l’utilizzo della tecnologia è maggiormente cresciuto in questo periodo di quarantena, cercando di mantenere costanti contatti a distanza con le persone care, ma rapporti veritieri non sono quelli condivisi dietro uno schermo, ma debbono essere condivisi di persona e quotidianamente. Nonostante la difficile situazione da affrontare giornalmente, soprattutto in queste ultime settimane, è prevalso il concetto di relativismo culturale tra Nord e Sud, inizializzato da Vittorio Feltri, deducendo che noi Meridionali abbiamo scarse capacità rispetto alla popolazione settentrionale. Secondo un mio parere personale, non esiste una cultura superiore o inferiore e non dovrebbe essere discriminato nessuno, per esempio, com’è stato fatto nei confronti degli Ebrei deportati all’interno dei campi di concentramento durante la Dittatura di Adolf Hitler, oppure discriminare le persone di colore, citando alcune delle tante vicende già accadute. Questa concezione è considerata il vero pericolo del mondo, perché ogni civiltà vorrebbe decisamente essere considerata superiore anziché inferiore rispetto all’altra facendo delle distinzioni particolari. Un’altra problematica importante di questo periodo di Pandemia è sicuramente il cibo. Per colpa della problematica, diversi supermercati Italiani sono disagiati dalla grave e compromessa situazione, in quanto sono presi d’assalto per permettere di fare la spesa per ogni eventuale necessità. Questo significa che oggigiorno il mondo presenta tutte le qualità necessarie insieme all’abbondanza di prodotti che spesso sono considerati troppo forniti, mentre nelle situazioni più gravi dell’antichità, per esempio, andava bene qualsiasi cosa da mangiare, cioè è stato possibile accontentarsi sempre di tutto, anche della cosa più insaziabile, nonostante fossero presenti problematiche ancora più gravi. In questo caso, ricordiamo il fenomeno del Cannibalismo, necessariamente praticato durante la Prima e la Seconda Guerra Mondiale, proprio perché quando nessuno poteva permettersi cibo per sostentamenti adeguati venivano applicati atti di Cannibalismo nei confronti di un membro della propria famiglia. Adesso è presente una situazione di irresponsabilità della padronanza del mondo, poiché la presenza dell’attuale pandemia, forse sarebbe stata causata da una determinata alimentazione cinese sbagliata, oppure forse da una particolare sperimentazione all’interno di laboratori non pronti a gestire eventuali danni irreversibili provocando una catastrofe. Inoltre, vorrei ricordare che l’attuale pandemia ha stravolto tutte le diverse tradizioni di questi periodi, per esempio, ricordando il Carnevale:

“Riallacciandomi tra passato e presente vorrei condividere un pensiero personale riguardo il particolare Documentario proposto intitolato: “Carnevale, Gesto, Riso, Morte”. È davvero interessante osservare le differenti Tradizioni Popolari presenti per capirne il concetto preciso. La mia riflessione andrebbe a specificare la concezione della nostra Società attuale, ovvero, della gioventù, che ha sempre vissuto festeggiamenti del Carnevale, in questo caso, sulle basi del divertimento, del gioco, della condivisione, degli scherzi, dei travestimenti, mentre sarebbe davvero interessante trascorrere momenti legati alla vera Tradizione, quindi considerate esperienze già vissute, per esempio, dai nostri nonni, dai nostri genitori, proprio quando esse erano parte integrante della loro quotidianità. Oggi, le Tradizioni Popolari passano inosservate, ma oggigiorno è presente, in particolare, la voglia di viverle con superficialità, causata dalla vita frenetica quotidiana attuale. Nella mia città, Acri, per esempio, luogo di nascita di Vincenzo Padula sono presenti poche usanze rispetto alle generazioni precedenti. Percepisco la distanza dalle mie Tradizioni Popolari molto evidente immaginando come potrebbe realmente essere la consapevolezza di questi momenti così particolari e importanti. Non è possibile intendere, dunque, l’essenza del vero Carnevale, per esempio, così come delle Feste, proprio perché è stata persa la concezione di vivere pienamente attimi profondi, considerati, secondo me, di estrema importanza, alla quale terrei particolarmente qualora fossero più presenti. Sono pochissime le usanze rimaste, ma soprattutto noi giovani dovremmo cercare di portare avanti la nostra Cultura, cosa davvero fondamentale, proprio come succede a San Demetrio Corone, Santa Sofia D’Epiro, per esempio, poiché la propria Cultura non è mai stata abbandonata, quindi considerata preziosa ancora oggi, tramandata da generazioni in generazioni, proprio perché sono Comunità centralizzate e concentrate dinanzi propri valori”.

Questo documentario realizzato nel 1979 è molto importante, proprio perché presenta una concezione, ovvero quella del “folclore” termine idealizzato nel 1946 durante il periodo romantico adoperato da Thomas Merton. Anche Giuseppe Pitrè raccolse una Biblioteca del Folclore Italiano e Antonio Gramsci sarà preso in considerazione come personaggio importante, infatti durante il periodo delle carceri scrisse e lesse tantissimo, soprattutto all’interno di uno dei propri volumi adempì al concetto di folclore, in quanto dedusse che questa particolarità è considerata una concezione del mondo e della vita che viene contrapposta in maniera meccanica e oggettiva da determinati ceti dominanti. In questo caso, il Carnevale è tradizione, soprattutto per l’eccessiva abbondanza della carne, quindi del cibo che riusciva a spezzare la monotonia quotidiana per eccedere all’abbondanza in grado di esorcizzare la paura della morte. Dopo il Carnevale, in questo periodo è stato doloroso “festeggiare” la Santa Pasqua in solitudine restando nelle nostre case con la consapevolezza che niente sarebbe stato più come prima. La Pasqua, all’interno di molti Paesi è considerata una grande Festa con la presenza di Ritualità particolari, poiché cercano di ricordare vecchie usanze, adesso decisamente perdute. In questo periodo di Pandemia evidente non vengono prese in considerazione soltanto le Feste non concesse del periodo, ma è importante la concezione dell’intero momento che stiamo affrontando. In questo caso, ogni corpo umano vive in un determinato contesto nella quale è costitutivo determinare la netta relazione tra il luogo e sé stesso. Il luogo è considerato antropologico, quindi abitato, umanizzato e riconosciuto in maniera fondata e organizzata. I non luoghi, invece, sono considerati luoghi privi d’identità, cioè spazi dove non sono presenti relazioni stabili come Aeroporti, Negozi, Supermercati, quindi senza memoria o relazioni. Molto spesso, però, un non luogo potrebbe diventare un luogo facendo nascere particolari legami, per esempio, quando facciamo la spesa nello stesso Supermercato e incontriamo persone conosciute. In ogni caso, questa problematica dell’attuale Pandemia è considerata una vera catastrofe, proprio perché cambia in tutte le sue forme, per esempio, come fare Lezione Online, oppure semplicemente come interagire a distanza. In particolare, la nostra casa è considerata, in questo lungo periodo, una prigione capace di mettere a repentaglio la nostra personalità, soprattutto innescando la nostra psiche. La presenza, nasce da una concezione molto particolare, specie oggigiorno, in quanto è cambiata la concezione della morte. In questo periodo, la presenza è considerata sempre meno, soprattutto quando ripensiamo alle migliaia di persone che in questi mesi hanno perso la vita a causa dell’infezione, isolate completamente dal resto del mondo, senza una degna sepoltura e senza che possano essere agiate dalle persone care di famiglia per l’ultima volta. Non avrei mai pensato che potesse accadere una cosa così brutale, specialmente quando parliamo di vite innocenti, deboli, ma con coraggio da vendere per superare le difficoltà della malattia giungendo all’ultimo respiro. La vicinanza comprende dialoghi specifici per superare situazioni negative, oppure sentire semplicemente la presenza di persone care. Quest’ultima è possibile perderla proprio in questa situazione. La problematica della presenza venne affrontata da De Martino esasperata nella propria Opera incompiuta del 1977, successivamente tramandata a Chiara Gallini, nella quale riuscì a completarla. La presenza è considerata una concezione cardine dell’esserci all’interno del mondo, quindi esserci nelle diverse situazioni attraverso la cultura e orizzonti culturali di riferimento con specifiche elaborazioni di valori che rendono l’uomo riconoscibile alle persone e a sé stesso. Nei momenti di catastrofe, la presenza, secondo De Martino verrebbe meno, poiché è qualcosa che non abbiamo per sempre, ma qualcosa che viene minacciata con la sensazione di recuperarla frequentemente. De Martino inserisce all’interno della propria Opera particolari avvenimenti, in particolare: “IL CAMPANILE DI MARCELLINARA” considerato un punto di riferimento importante. De Marino spiegherà che la vita dell’uomo è sempre orientata verso qualcosa, per esempio, molte volte è capitato di vivere nelle grandi Metropoli nella quale è possibile orientarsi tramite luoghi già conosciuti. In questo periodo di quarantena, il luogo più conosciuto e frequentato è la casa che condividiamo con persone importanti che fanno parte della nostra vita durante la nostra quarantena. Nell’antichità, per esempio, la casa non veniva costruita per caso, ma veniva scelta tramite criteri pratici come la presenza di luoghi di produzione e formazione di alimenti adatti alla sopravvivenza, quindi fiumi, torrenti, mulini e anche tramite una cerca esposizione al sole. È considerato un luogo dove le persone in qualche modo custodiscono ricordi preziosi e non veniva necessariamente utilizzata solo per dormire, c

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