Un sogno chiamato Vicino Oriente: da Lawrence d’Arabia ad Agatha Christie

Immaginate di attraversare con me il cuore del deserto levantino, crocevia di popoli che dal Mediterraneo alle antiche terre della Mezzaluna Fertile viaggiavano lungo le vie della seta, delle spezie e dell’incenso. Tra un caravanserraglio e una moderna pompa di benzina, tra cammelli al pascolo e sprazzi improvvisi di verde, vedremmo sfilare all’orizzonte anonime quanto misteriose colline di terra, i “tell”, parola che in arabo significa appunto “collina”. Pochi riuscirebbero immaginare che al loro interno, proprio come nell’antro di Ali Baba, siano custoditi autentici tesori dell’umanità, addirittura alcune tra le capitali più importanti del mondo antico, sepolte e dunque perfettamente conservate dalla sabbia nei millenni.

È questo il fascino della regione geografica definita Vicino Oriente Antico (oggi Vicino e Medio Oriente), ovvero l’area a prevalenza arabo-islamica che si estende dalla sponda orientale del Mar Mediterraneo all’Iran, includendo la Penisola Arabica, e che nell’antichità fu teatro della nascita, ascesa e declino, nell’arco di oltre 4000 anni di storia, di alcune tra le più importanti civiltà umane, partendo dai sumeri (IV millennio a.C.) e passando per i popoli elamiti, hurriti, accadi, amorrei, assiri, babilonesi e persiani, solo per citarne alcuni.

1. La Mesopotamia protodinastica (III millennio a.C.): i confini indicati sono quelli attuali: al centro l’Iraq; in senso orario, dal basso: Arabia Saudita, Giordania, Israele, Cisgiordania, Libano, Siria, Turchia, Iran.

Ma quand’è che l’Occidente prende coscienza del patrimonio archeologico del Vicino Oriente tanto da dedicargli una scienza accademica? Le testimonianze delle culture fiorite lungo la valle del Tigri, dell’Eufrate e del Nilo, dai primi insediamenti protourbani alle conquiste di Alessandro Magno, rimasero per lungo tempo sepolte sotto una coltre di sabbia: l’immenso patrimonio artistico, rituale, esoterico-sapienziale, poetico e mitologico tramandato dalle fonti classiche, da Erodoto a Platone, a un certo punto si infranse contro il muro di oblio eretto da secoli di censure, assimilazioni, esegesi studiate a tavolino e condanne morali.

Bisognerà attendere l’Ottocento per gettare le basi di uno straordinario e sempre più sistematico recupero dei resti delle antiche civiltà del Vicino Oriente, aprendo la via a una vera e propria corsa al Levante esotico che sfocerà nella moda del cosiddetto “Orientalismo”, tendenza deprecata negli anni ’70 del Novecento nell’omonimo saggio dello studioso Edward Said, che vi ravvisò lo strumento attraverso il quale l’Occidente ha potuto esercitare la sua influenza coloniale sull’Oriente, producendone rappresentazioni culturali di massa (stereotipi) estremante distanti dalle realtà effettive.

Alla creazione di questo fascinoso immaginario concorsero, loro malgrado, figure quali il tenente colonnello Thomas Edward Lawrence, meglio noto come “Lawrence d’Arabia”, e la scrittrice Agatha Christie, alias “Lady Mallowan”, dal nome del celeberrimo marito archeologo, Sir Max Mallowan, prima apprendista sul sito dell’antica Ur (Mesopotamia), dove conobbe la sua futura moglie, poi impegnato in alcuni degli scavi più importanti dell’alta valle del Khabur (Siria), primo tra tutti Tell Brak.

2. Agatha Christie con Max Mallowan a Tell Halaf negli anni trenta.

Del passaggio di entrambi serbava memoria il leggendario Baron Hotel di Aleppo, in Siria, ai cui tavoli in perfetto stile Art Déco io stessa ebbi l’onore di prendere posto durante le stagioni degli scavi in Siria. Non ricordo il numero della stanza in cui alloggiai, ma con grande rammarico posso dire che non fu la 203, dove l’amata Christie scrisse il suo capolavoro, Assassinio sull’Orient Express.

3. Interno della caffetteria dell’Hotel Baron, ad Aleppo, Siria. Il primo hotel di lusso della città, ora un hotel classico che ricorda l’era coloniale francese. Famoso per le sue illustri visite, come quella di Thomas Edward Lawrence (Lawrence d’Arabia).

Eppure, nel mio piccolo, ne seguii le tracce: prima scavando il sito di Tell Mozan, l’antica città di Urkesh capitale degli hurriti (IV millennio a. C.) posta ai piedi della catena del Tauro, nell’attuale Kurdistan siriano, che proprio Mallowan aveva indagato; poi, affidando alla scrittura le emozioni di quell’esperienza così segnante, confluite nel mio romanzo di esordio, Sette paia di scarpe, nel quale riportavo i racconti dei più anziani tra gli abitanti del villaggio, che ancora ricordavano la stravagante donna inglese che si aggirava per il tell con indosso grandi cappelli e un piccolo sgabello pieghevole sotto al braccio.

4. Al lavoro sul sito di Tell Mozan (Urkesh)

Erano i tempi in cui l’attitudine antiquaria e l’archeologia intesa come disciplina accademica viaggiavano separate da una sottile linea di demarcazione. Per riconoscere in quelle rovine la città di Urkesh, ad esempio, occorrerà attendere il 1984 e l’avvio delle campagne di scavi sistematiche condotte fino ai giorni nostri dal prof. Giorgio Buccellati e da sua moglie, Marilyn Kelly (Università della California). Prima del loro intervento il famoso “Leone del Louvre”, benché recante la più antica iscrizione conosciuta in lingua hurrita, fluttuava staccato dal contesto urbano e storico-culturale che lo aveva prodotto.

5. Al lavoro sul sito di Tell Mozan (Urkesh)

Come ricorda il professor Paolo Matthiae, guru degli orientalisti italiani in quanto scopritore di Ebla (Università “La Sapienza” di Roma), la riscoperta e l’indagine scientifica delle culture del Vicino Oriente Antico passa attraverso tre fasi precise, che segnano la storia dell’archeologia orientale per prospettive, metodi e risultati: la fase “dell’archeologia pionieristica”, iniziata con lo scavo di Khorsabad (1843) e conclusa con l’inizio dell’indagine di Assur (1903), che conservava una impostazione ancora biblica, accantonata la quale le ricerche consentiranno la formazione dei grandi musei orientali in Occidente (Parigi, Londra, Berlino e New York); la fase “dell’archeologia scientifica di impostazione storica”, che si conclude con la grande  rivoluzionarie metodologica della cosiddetta New Archaeology (1968) e può definirsi l’epoca delle grandi scoperte in Mesopotamia, Palestina, Anatolia, Siria e Iran, con la classificazione scientifica delle classi di cultura materiale e la definizione del metodo rigoroso che condussero alla nascita dei musei nazionali del Medio Oriente (Ankara, Baghdad, Teheran, Beirut, Aleppo e Damasco, Gerusalemme e Amman); infine, la fase “dell’archeologia globale a impostazione integrata”.

Quest’ultima, ovvero l’archeologia dei giorni nostri, considera gli insediamenti umani nel quadro di un contesto onnicomprensivo, ricorrendo all’interdisciplinarità quale strumento principe di comprensione e aprendosi sempre più spesso ai modelli delle scienze fisiche, chimiche, antropologiche, sociologiche e teologico-religiose, oltre che filologiche.

A fronte di questa evoluzione, l’archeologia del Vicino e Medio Oriente è riuscita a scrollarsi di dosso una certa aura colonialista e coinvolgere con maggior efficacia e sensibilità le popolazioni locali, nel tentativo di renderle partecipi dei processi di conoscenza e valorizzazione del loro stesso patrimonio nazionale. A questo proposito mi duole ricordare come la maggior parte dei siti archeologici del Vicino e Medio Oriente insista oggi in zone di guerra, soggetta a distruzione e spoliazione: un esempio su tutti, il tragico destino di Palmira e del suo “angelo custode”, l’archeologo Khaled al-Asaad giustiziato il 18 agosto del 2015 per mano dei terroristi dell’Isis.

6. Il Campo di Diocleziano, sormontato dal castello Qasr Ibn Maʿan.

Concludo questo excursus introduttivo all’archeologia del Vicino Oriente Antico, certamente parziale, rimarcando un concetto che mi sta particolarmente a cuore: l’archeologo non può chiamarsi fuori dal destino della terra che indaga. Proteggere i territori, sollecitare le comunità locali all’amore verso il proprio passato, al coinvolgimento emotivo e culturale sono obiettivi universali, valevoli a ogni latitudine e in ogni contesto di indagine.


Eliana Iorfida

 

Immagini:

  1. https://it.wikipedia.org/wiki/Vicino_Oriente_antico#/media/File:Predynastique.JPG;
  2. https://it.wikipedia.org/wiki/Agatha_Christie#/media/File:Agatha_Christie_with_Max_Mallowan_in_Tell_Halaf_1930s.jpg;
  3. https://commons.wikimedia.org/wiki/Category:Hotel_Baron?uselang=it#/media/File:Aleppo_Hotel_Baron.jpg;
  4. Foto di Eliana Iorfida;
  5. foto di Eliana Iorfida;
  6. https://it.wikipedia.org/wiki/Palmira#/media/File:Diocletian’s_camp_and_Qasr_Ibn_Ma%CA%BFan.jpghttps://it.wikipedia.org/wiki/Palmira#/media/File:Diocletian’s_camp_and_Qasr_Ibn_Ma%CA%BFan.jpg.
  7. https://www.museumsportal-berlin.de/en/museums/vorderasiatisches-museum/

Informazioni su Eliana Iorfida

Archeologa e scrittrice. Si laurea a Firenze in Archeologia del Vicino Oriente e partecipa a importanti missioni di scavo internazionali (Siria, Egitto e Israele), trasformando i diari e le storie di viaggio nei romanzi di successo, Sette paia di scarpe (Rai Eri, 2014) e Antar (Vertigo Edizioni, 2018). Dell’autrice anche la raccolta di racconti La scatola dei ricordi (Formebrevi Edizioni). Caporedattrice per ViaggiArt, portale sul turismo culturale; è di recente uscita il suo terzo romanzo per Pellegrini Editore, dal titolo Il figlio del mare. Foto profilo. Autore: FerMentis
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