Mikkyō: Storia e Arte Buddhista esoterica nel periodo Heian | Prima parte

Ci troviamo nella città di Nara (all’epoca chiamata Heijō-kyō), sede della corte imperiale e roccaforte del Buddhismo a partire dall’anno 710 d.C. L’attività di incentivazione del buddhismo portata avanti dall’Imperatore Shomu, grande devoto di questa religione, aveva fatto sì che il clero buddhista presente nella capitale acquistasse col tempo sempre più potere.

L’imperatore infatti fu il fautore di un progetto che prevedeva la costruzione di un tempio centrale nella capitale (ovvero il tempio Todaiji) e numerosi monasteri o piccoli templi sparsi per il paese chiamati Kokubunji. Il progetto era mirato al raggiungimento, in campo religioso, di un sistema politico centralizzato; tuttavia non fu mai pienamente realizzato.

Con il tempo il clero buddhista era diventato sempre più dispotico e influente negli affari nazionali – anche dovuto al fatto che le istituzioni buddhiste erano a disposizione di numerosi terreni e proprietà donate dalla corte e dalla nobiltà che erano totalmente esenti da tasse.

Myōō (o “Re Luminosi”) – Protettori della legge buddhista

La goccia che fece traboccare il vaso fu quando un monaco, un tal Dokyō, aveva cercato di usurpare il trono imperiale: apparve in un tempio della capitale una iscrizione che annunciava un grande periodo di splendore e prosperità del Giappone sotto la guida del monaco Dokyō. Nel 784 l’Imperatore Kammu, decise di troncare di netto questa pressione trasferendo la capitale prima nel sito di Nagaoka e successivamente nel 794 a Heian-kyo, la futura Kyoto, che sarebbe rimasta capitale fino al 1868. Per non ripetere gli errori del passato nella nuova capitale vennero ammessi inizialmente solo due templi: Il Saiji (Tempio Occidentale) e il Tōji (Tempio Orientale) posti all’estremità orientale della città a scopo “protettivo”.

Nel frattempo tutti gli atelier di artisti che avevano servito la corte imperiale e i vari templi della capitale si ritrovarono presto senza alcun impiego. Nara venne a poco a poco abbandonata e tutti gli artigiani di icone sacre diventarono dei veri e propri artisti itineranti che portarono il cosiddetto “stile Nara” in tutto il paese. A partire da questo momento si diede molta più importanza alla soggettività dell’artista rispetto a dei canoni ben precisi. In più si abbandonò l’utilizzo di materiali più costosi come la lacca secca o il metallo per favorire il legno.

È proprio in questo periodo che nell’arcipelago comincia a manifestarsi una fase esoterica del Buddhismo Mahayana (del Grande Veicolo) denominata “Mikkyō”. Il Buddhismo esoterico vedeva l’intero universo come una manifestazione di energia della sua divinità centrale, il grande Buddha Dainichi (Mahavairocana) ed è chiamato così perché i suoi insegnamenti vengono rivelati soltanto da maestro ad allievo; il quale deve essere iniziato ai suoi segreti e alla sua contorta liturgia. Ciò risulta necessario perché i testi appartenenti a questa dottrina non possono essere interpretati alla lettera; così come i rituali. Per il Mikkyō il raggiungimento dell’illuminazione sarebbe possibile anche nel corso di una sola vita, invece di sperimentare numerose esperienze e un lungo percorso di reincarnazioni. Per tale motivo, questa nuova corrente attirava un grande interesse da parte della nobiltà del periodo Heian.

Cominciarono a formarsi anche delle scuole e nuove dottrine come: la dottrina “Tendai”, portata in auge dal monaco Saichō, e che mutava i suoi principi direttamente dal Sutra del Loto, e la dottrina “Shingon”, detta anche della “Vera Parola”, che basava i suoi insegnamenti sulla centralità del Buddha cosmico Dainichi.

Pian piano cominciarono a svilupparsi anche numerose forme artistiche relative al buddhismo esoterico. Una delle massime espressioni artistiche sono i mandala, una rappresentazione grafica del Cosmo del Dainichi che risiede al centro della composizione (il più delle volte) e che irradia centinaia figure di Buddha e Bodhisattva. Se in India o anche in Tibet i mandala erano realizzati disponendo sabbie colorate e polveri in uno schema geometrico predefinito e poi spazzati via alla fine della liturgia, in Giappone si optò per una forma permanente del mandala che veniva chiamata “Tappeto del Mandala”. Non è strano, quindi, che al giorno d’oggi siano pochissimi gli esemplari pervenutoci; essendo prima di tutto strumenti liturgici erano soggetti ad una intensa usura. Tra i Mandala Shingon più importanti troviamo i mandala “Taizokai” (Matrice) e “Kongokai” (diamante).

Il buddhismo Mikkyō accolse nel suo pantheon tutta una serie di divinità originariamente appartenenti al pantheon induista. Nel suo percorso per l’Asia il buddhismo seppe fondersi in un modo o nell’altro con i culti e le divinità locali preesistenti. Spesso le divinità maggiori di un determinato paese venivano “convertite” e diventavano a tutti gli effetti dei protettori dell’insegnamento e della legge buddhista mentre le divinità minori venivano declassate al rango di demoni. La situazione fu diversa in Giappone, dove gli spiriti locali pre buddhisti, successivamente associati ai kami dello Shintō, non erano altro che una manifestazione stessa del Buddha. Per cui non era necessario convertire gli spiriti giapponesi poiché avevano già insito dentro di loro il “seme” di Buddha.

Le icone sacre del Mikkyō erano dotate di teste, arti e occhi supplementari, espressioni furiose e corpi spigolosi pregni di tensione statica. Le sculture, per questo motivo, incarnavano il dogma Mikkyō del terrore come mezzo di insegnamento: oltre a scacciare via gli spiriti maligni e nemici del Dharma, le espressioni terrifiche di queste divinità avevano il compito di costringere con la paura i non credenti a diventare credenti.

Un ottimo esempio è costituito dai “Myōō” che fanno parte del mandala scultoreo del tempio Tō-ji, la cui ultimazione venne affidata a Kukai nell’823.

Fudō Myōō

Contrapposta al terrore come metodo di insegnamento troviamo anche l’aspetto della sensualità. Statue dai tratti delicati e morbidi e con corpi ben levigati avevano lo scopo di attrarre il fedele a sé. Spesso posizionate in punti strategici all’interno dei templi, alla penombra, le icone sacre creavano una vera e propria atmosfera di sogno a cui il fedele non sapeva resistere. La tattica della persuasione tramite seduzione era collegata a degli importanti influssi dell’arte buddhista della Cina di epoca Tang che poneva l’accento sulla corporeità delle forme umane. Ottimo esempio di questa forma artistica è il “Kannon a undici Facce”, realizzata in legno e conservata a Nara nel tempio Hokke-ji.

Jūichimen Kannon

 

(Fine prima parte)

Raffaele Caruso

Bibliografia:

  • “Il Giappone” (Miyeko Murase – UTET, Marzo 1992);
  • “A Cultural History of Japanese Buddhism” (William E. Deal, Brian Ruppert – Blackwell Pub – Wiley-blackwell Guides to Buddhism – 1. edizione 29 maggio 2015);
  • “Unmasking Buddhism” (Bernard Faure – Wiley-Blackwell – 13 Settembre 2011).

Immagini:

Informazioni su Raffaele Caruso

Studia attualmente Lingue e Culture Orientali e Africane presso l’università degli studi di Napoli “L’Orientale”. Intrapreso il percorso di studio delle lingue orientali ha subito mostrato un grande interesse per la Letteratura antica, le folk performing arts dell’Asia Orientale e gli studi comparati tra Giappone e Corea. Appassionato fotografo e videomaker cerca sempre di coltivare il suo interesse come mezzo di supporto alla sua vita accademica.
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