#iorestoacasa | Let the music do the talking: dieci album da ascoltare durante la quarantena

Da un mese le nostre città sono deserte.

Mr. Silenzio si aggira come un uomo affascinante ammantando monumenti, palazzi e chiese. Possiamo dire lo stesso delle nostre mura domestiche? C’è chi, per esempio, è ricorso all’aiuto dei flash mob per animare i balconi di  casa,  intonando l’inno nazionale e canzoni celebri della tradizione, snobbando Mr. silenzio. Musica per dimenticare? No, semmai musica per sentirsi uniti e contrastare il nemico invisibile. Musica per riflettere e reagire alla monotonia.   

A questa stasi forzata vogliamo rispondere anche noi aggiungendo alle già esaustive raccomandazioni preventive un nuovo punto:

  • Assicurati di lavare frequentemente le mani con acqua e sapone, almeno per 20 secondi;
  • Mantieni una distanza di sicurezza dalle altre persone;
  • Igiene respiratoria(copri il naso e la bocca quando sternutisci e tossisci);
  • Ma soprattutto, regola fondamentale:  PROTEGGI LE TUE ORECCHIE E ASCOLTA BUONA MUSICA! 

1. “Arkeology, Greatest Hits” – The Ark – 2011  

 Quindi, portiamolo in scena con una giacca multicolore,
considerandolo un asso, un pazzo, che sfila come un pavone
con smalto per unghie dal colore appariscente, ricoperto di brillanti,
con penne di boa e taglio di capelli bizzarro, tinge i capelli di rosso e blu splendente”

Difficile dimenticare la velata gestualità di Ola Salo, persino quando strisciava sul palco del Festivalbar in maniera quasi sottomessa per dare ampio spazio alla sua voce e poi alzarsi di scatto quasi a voler riappropriarsi  dell’attenzione visiva.

Un vero istrione!!!

Arkeology rappresenta proprio uno studio completo di tutto quanto i The Ark hanno fatto sinora, un’occasione davvero ghiotta per possedere un unico volume glam pop; non posso davvero credere che non conosciate “Let Your Body Decide” o “It Takes A Fool to Remain Sane”, vero e proprio inno alla diversità ed antidoto perfetto in questo periodo in cui ci sentiamo soli, folli e incompresi. Beh, in questo greatest hits trovate anche quello che ha rappresentato la fase decisamente più travolgente dei Nostri, come “In Lust We Trust”, dove il glam pop di origine viene stemperato magnificamente da uno spirito musicale assai epico e teatrale, con brani come “Calleth You, Cometh I” (la mia preferita in assoluto con la sua meravigliosa coda sinfonica) e il soul di “Father Of A Son” (un brano che s’incastrerebbe perfettamente in un film dei Blues Brothers).

Ragazzi parliamo di quasi 80 minuti di musica!

D’altronde, nella vita è sempre vero che “It takes a fool to remain sane” e ricordiamocelo anche quando facciamo i flashmob sui nostri balconi .


 

2. “Kaleidos” – Agricantus – 1998 

“Luci cû suli, – câ luna
‘a notti s’appuja – jornu chi fuji
disíu di paci – scantu di guerra
ciatu – paroli
l’acqua s’asciuca, ‘u siccu si vagna
disíu ri paci – scantu ri guerra…”

Agricantus (dal latino: il canto del campo di grano): è un gruppo di genere “world ethnic-electronica”, nato a Palermo e che si  afferma a metà degli anni ’90 con il “sound” del band leader Tonj Acquaviva, e l’arrivo e della cantante svizzera Rosie Wiederkehr. Il percorso artistico del gruppo è simbolicamente basato sulla “visione della pace”, pace che può essere costruita continuamente attraverso i suoni, la musica e le parole. L’intenzione è condurre l’ascoltatore verso nuove dimensioni del suono attraverso il continuo “crescendo” e “diminuendo” della musica, per passare ad un altro mondo possibile. Dite la verità, quanto desiderate che alla fine di questo periodaccio si ritrovi l’armonia perduta fra noi e gli altri?

“Kaleidos” è un lavoro dedicato alla manipolazione “giocosa” di autori classici che si erano ispirati al patrimonio musicale popolare infatti troviamo musiche tratte dalle opere di Tomaso Albinoni, Béla Bartók, Luciano Berio, Johannes Brahms, Edvard Grieg, Modest Petrovič Musorgskij, Niccolò Paganini, Sergej Prokof’ev e a canti popolari dell’Armenia, della Romania, dell’Ungheria e dello Zaire.

L’album è quasi interamente composto da Tonj Acquaviva, che oltre alle chitarre sintetizzate, la voce e le percussioni si occupa anche dei suoni del flauto campionato e delle linee di basso (segnalate tra le migliori bass lines dub-ambient), coaudiuvato dalle linee vocali di Rosie Wiederkehr. A corredo di questo album (Obbligo) anche l’ascolto dell’EP “Amatevi” scritto con Pivio ed Aldo De Scalzi per il film di Alessandro D’Alatri “I giardini dell’Eden”.


 

3. “The Division Bell” – Pink Floyd – 1994

“C’è una fame ancora insoddisfatta
I nostri occhi stanchi ancora si smarriscono nell’orizzonte
Anche se per questa strada siamo già scesi tante volte”

Il filo conduttore dell’album è la comunicazione o, per dirla con le parole di David Gilmour “la presenza e l’assenza di comunicazione tra la gente in generale e in relazioni specifiche”. Comunicazione e incomunicabilità. Siamo eternamente connessi in questo periodo infausto con tutto e con tutti ma in realtà abbiamo il rammarico di non riuscire a partecipare alle cose della vita sentendolo veramente.

The division bell sono parole tratte dal testo di High Hopes. Il titolo del disco è un riferimento alla “division bell” del parlamento inglese, che segna l’inizio di una votazione (detta division) e che richiama i membri dell’assemblea affinché vi prendano parte.

Il brano che preferisco in assoluto è Maroneed, ovvero abbandonato. Ragazzi, questo pezzo ha vinto un Grammy Award nel 1995 come miglior brano rock strumentale.

Ci dà l’esatta impressione del titolo, ovvero di essere dei naufraghi sperduti su un’isola deserta. Piccola curiosità su questo brano: sullo sfondo si possono sentire gli “urli” degli effetti di chitarra originali di Echoes, qui ridoppiati da Gilmour per dar loro maggior spessore.

High Hopes è il capolavoro che chiude l’album e che, per 20 anni, ha chiuso anche la storia discografica dei Pink Floyd. Il tema di fondo della canzone si può accostare a quello di A great day for freedom, ovvero i sogni traditi, le aspettative  che non sono andata nel modo in cui volevamo che andassero.


 

4. “Ultra”- Depeche Mode – 1997

“Ecco una pagina
Dal palcoscenico più vuoto
Una gabbia o la più pesante croce mai costruita
Una misura della più mortale trappola mai tesa”

Se dovesse parlare l’Elisabetta morbosamente malata di “depechemodismo” a quest’ora sareste ancora qui ad ammorbarvi. Non basterebbero 365 giorni di quarantena per dirvi tutto quello che penso sui DM.

Se non avete ascoltato Violator e Songs of faith and devotion, astenetevi dall’avvicinare le vostre tube di eustachio ad Ultra. Non è solo un gran disco (scordatevi questa limitatezza), è un lavoro di rinascita in senso ampio.  Rinascere comporta sforzi immensi. E noi, figli di questo 2020 incatenato da un’epidemia mondiale lo sappiamo bene.

Non è una cosa che accade tutti i giorni e la gestazione di questo disco si è dimostrata essere complicata per svariati motivi, anche se quello preponderante era la situazione psico-fisica di Dave. Ma in questo caso la forza di volontà ha la meglio su un fato portato dai membri stessi ad essere più oscuro di quanto si potesse immaginare.

Una sfida difficile per una fan base abituata ad incursioni di diverso acchito. Brani come Useless (accarezzati dalla presenza di ben due batterie a dar scossoni al ritmo) con la sua vena “punk” cattiva danno un tocco inusitato a ciò che esprimono i DM, che fino a qualche album fa stavano in bilico tra sensualità seppur cupa, velluti scuri e visioni mistiche di un cemento in rapida espansione.

Un pop ammantato di malinconiche intrusioni elettrostatiche su The Jazz Thieves che si immerge dritta negli anni ’90 in cui è stata concepita, mentre It’s No Good fa pensare ad un irritato Elvis post-mortem che tenta di avvicinarsi ad una donna difficile da conquistare. Home è invece foriera delle parole di Gahan e nostro inno 2020.


 

5. “Actually”-  Pet Shop Boys – 1987

 “Qualcuno mi ha detto Lunedi, qualcuno mi ha detto Sabato
aspettare fino a domani e non c’è ancora nessun modo
letto in un libro o scritto in una lettera
Svegliarsi la mattina e non c’è ancora alcuna garanzia”

Un album fantastico!!!  Qui si parla di thatcherismo, di aids, delle influenze negative della dottrina cattolica, ma soprattutto di solitudine. Mentre il resto del mondo pop celebrava i fasti di un’epoca variopinta e artificiale, i Pet Shop Boys scelgono uno stile molto sobrio. La copertina, bianca e minimale, ed è già storia: Chris ha uno sguardo severo, Neil sbadiglia. Niente di più anticonvenzionale.

La track “Shopping” ci fa pensare ad un desiderio fortissimo di fare acquisti. Lo so che in questi giorni lo desiderate fortemente…l’esito del brano è un inno dal testo paradossale. Neil nel ritornello fa un nasale spelling del titolo e le tastiere suonano come una chitarra.  “It’s A Sin” è la hit del disco: una intro maestosa apre un pezzo solenne e violento, sospeso in un clima tragico e ferrigno, che si sfoga in una delle melodie più memorabili degli anni ottanta. Nel finale Neil pronuncia in latino il Confiteor, mentre le tastiere mimano organi liturgici.

Più tradizionali gli altri singoli: “What Have I Done To Deserve This?” (con Dusty Springfield) e “Heart”, dal clima più evasivo. Le perle chiudono i due lati del vinile: “It Couldn’t Happen Here” è scritta con Ennio Morricone e arrangiata da Angelo Badalamenti (quello di Twin Peaks per interderci). “King’s Cross”, in coda, è la punta di diamante, grigi, introversa e desolante. È il pop della disperazione non urlata, di una sofferta segregazione, delle voragini della solitudine.


 

6. “La Voce del Padrone” – Franco Battiato – 1981

“Avrei bisogno di
Cerco un centro di gravità permanente
Che non mi faccia mai cambiare idea sulle cose sulla gente
Over and over again”

Era il 1981 e Battiato cantava una manciata di canzoni passate alla storia.

I brani sono appena sette e il leit motiv dell’album è certamente la ritmica incalzante che sottende anche le parti più lente dei brani: in “Summer On A Solitary Beach” la logica da brano malinconico è stravolta dalla presenza simbiotica di un sassofono filtrato e una splendida linea di basso. “Gli Uccelli” è invece il pezzo dalle grandi aperture melodiche, dove riemerge una certa vena sinfonica subito soffocata a metà brano dall’incalzare di un drum’n’bass, tanto inevitabile quanto azzeccato, visto il contesto.

Un citazionismo portato spesso alle estreme conseguenze contraddistingue pezzi come “Cerco Un Centro Di Gravità Permanente”, in cui uno sfoggio di rimandi a immagini e filosofie orientali fa da contrappunto ad una scelta compositiva a dir poco easy listening. “Cuccurucucu” e “Sentimento Nuevo” sono due strabilianti scherzi che Battiato riserva agli ascoltatori, il punto più “popolare” mai raggiunto dall’artista, che anche nell’occasione non rinuncia ad associazioni fra differenti elementi culturali.

Merita infine una citazione il brano meno noto, “Segnali Di Vita”, un divertissement sulla vita e il cambiamento. Ti accorgi di come vola bassa la mia mente? È colpa dei pensieri associativi se non riesco a stare adesso qui”. Si collega direttamente al concetto di presenza: la possibilità di essere qui e ora, liberi dalla prigionia dei pensieri (oggi negativi) che ci attanagliano.


 

7. “La sposa occidentale” – Lucio Battisti  – 1990

“Amarsi è questo: escludere d’essere i soli al mondo,
i soli ad esser soli amando, sterminandola l’invincibile amata”

Terzo album della “strana coppia” Panella-Battisti.

Copertina bianca, con una specie di indecifrabile ritratto dentro a un quadro.

Le radio negli anni Novanta difficilmente si arrischiavano a far passare pezzi dell’album, tranne giusto il titolo. Questo album, vi sembrerà strano, io lo ascolto spesso quando faccio cyclette: c’è una sensazione di danza, movimento giocoso, spensierato, che i testi di Panella sottolineano. O forse si dovrebbe dire che i testi di Panella trovano perfetta corrispondenza in una musica giocosa e rarefatta.

Chi è la Sposa Occidentale? E perché è occidentale?

Le metafore sono complesse o semplici. Ognuno prende quella che preferisce. C’è chi ha ravvisato nella Sposa Occidentale, la filosofia greca da Platone a Hegel, ma personalmente credo che sia più facile inquadrare il tutto nella occidentale civiltà dei consumi che ci rende tutti vuoti e insoddisfatti e copre con un velo di finzione il proprio vuoto interiore, tutta pronta a godere di piccolezze. Una cosa vale l’altra.

I ritorni resta il capolavoro di questo album. Un capolavoro tra i capolavori direi. Qui il sentimento è esplicito. Signori, qui si parla d’amore, lo si nomina. Ma con che termini. E poi con questo panico da epidemia mondiale, esiste ancora l’amore? Sì, in questo momento molti di noi la stanno vivendo per esempio tramite skype (fra i tanti ci sono anch’io). Sicuramente vi sarà capitato di immaginare vicino il vostro o la vostra adorata e di materializzare davanti a voi la figura dell’amore.

Lucio sotto l’implacabile batteria elettronica e Panella con il suo testo ce lo fa capire bene. “Abbiamo un solo limite: l’amore che ci divide”.

L’amore è l’illusione che ci fa sempre tornare, che ci fa sopravvivere a tutto, “come la ragione, perché con la ragione si sopravvive a tutto, si distrugge il distrutto ricostruendo a intarsi la copia fedele dell’innamorarsi. E un tassello alla fine o è dell’uno o è dell’altro.


 

8. “La pulce d’acqua” – Angelo Branduardi – 1977

Un lamento in lontananza.

Crescendo. 
Tamburi, l’inesorabile incedere della morte. Sfumata. “Io son di tutti voi signora e padrona”, la calda voce del menestrello. La morte è inevitabile, e così sono crudele, così forte sono, e dura. Talvolta attesa, sicuramente incombente. L’arpicordo. Danza.

“Vieni, posa la falce e danza con noi, sei l’ospite d’onore del ballo che per te suoniamo”

Angelo Branduardi ci regala questa danza medievale di grande fascino in apertura a quella che è, a mio giudizio, la sua opera migliore: uscita nel 1977 “La pulce d’acqua” propone nove disegni, nove spaccati, o meglio nove fiabe.
E “Ballo in fa diesis minore” non è che la superba introduzione ad un mondo ove latente malinconia ed effimera gioia legano assieme, cucendo trame ora dolci ora crudeli, colorati caleidoscopi di storie e personaggi raccontate dall’acqua, fonte di vita e morte, di angosce e gioia. Questo è il grande regalo di Angelo: una musica che arpeggia il cuore e muove i sensi. E allora chiudete gli occhi, e cominciate ad ascoltare…la musica utilizzata da Branduardi è quella di Schiarazula Marazula: un ballo friulano la cui partitura ci è arrivata attraverso “Il primo libro dei balli accomodati per cantar et sonar d’ogni sorte de instromenti” di Giorgio Mainerio, del 1578. Il testo è ripreso dalla scritta che compare sotto un affresco della Danza Macabra del cimitero di Pinzolo in Val Redena, Trentino.

Branduardi la presentava però spesso con un accompagnamento di launeddas sarde e con una coreografia di danzatori pure sardi di Ballo Tondo, e il testo è “rovesciato” quasi a voler indicare che col ballo e la musica può essere l’uomo a sconfiggere la morte.


 

9. “Bestiario d’amore” – Vinicio Capossela – 2020

“E’arrivata prima che cadessero nazioni
Corre nella rete è sangue è orgia è fornicazione
Individualista e collettiva
Infetta di rabbia e di saliva
Attacca dentro il discernimento
Abbassati sullo schermo
Nella rivolta inerte fake news”

Il Bestiario di Capossela non è un album vero e proprio e nemmeno una canzone, ma un “poema musicato” per voce, pianoforte e orchestra, accompagnato da un libretto d’illustrazioni – curato da Elisa Seitzinger – e dedicato a due temi ricorrenti nella poetica del cantautore, l’amore e le bestie.

Ogni testo restituisce voce alla propria esperienza, alla propria biografia. Con una rosa, ad esempio, è un brano mediato dall’opera letteraria, L’usignolo e la rosa di Oscar Wilde, una fiaba amarissima presente nella serie Il principe felice e altri racconti.

Devo citare, però, una delle più belle frasi di Wilde presente nelle sue lettere: “Cristo non è venuto per salvare ma per insegnarci a salvarci l’un l’altro”. Ma quanti hanno veramente colto il senso di quel #iorestoacasa? Non posso dunque prescindere dal brano che meglio si collega al nostro intento: +Peste, una canzone che usando un’allegoria della stessa epoca di questi bestiari Vinicio ha usato per denunciare una pestilenza in corso, che non è solo quella del Coronavirus, ma  quella che si diffonde in rete.

Per parlare di questo argomento il cantautore cosa fa? Cerca un artista di una generazione diversa ma che conosce perfettamente la stessa pestilenza. Un artista generato dalla rete stessa: Young Signorino. È il caso di dire: il duetto che non ti aspetti.  Questo brano non è inserito in un disco, viene dalla rete e lo hanno restituito alla rete. Non c’è un intento commerciale. Anzi, l’operazione ha generato proprio quello di cui parla il testo: il circo romano, il commento, il mi piace e il non mi piace. Il collegamento con il Bestiario, comunque, è questo: in tempi di pestilenza dobbiamo nasconderci per salvarci.

Noi ci salviamo nel racconto, recuperando tutte le cose che ci rendono uomini. Bisogna salvare la nostra essenza più intima. Il primo effetto di ogni pestilenza è la distruzione delle relazioni. I nostri amici del Decamerone (aridaje con Boccaccio) si rifugiano dalla peste e fioriscono nel racconto, che è anche il ricordarsi di essere umani.

E noi?


 

10. “Canzoni dell’appartamento” – Morgan – 2003

“Svincolarsi dalle convinzioni
dalle pose e dalle posizioni
Lascio che le cose
mi portino altrove”

Sono trascorsi 17 anni e il titolo di questo album suona attualissimo in questi giorni pandemici.

In questo album Morgan ci regala 12 perle musicali che spaziano tra canzone d’autore italiana e il pop più moderno con testi quasi minimali e con arrangiamenti finemente curati.

Il disco riporta alla mente le migliori canzoni d’autore italiane degli anni passati, con un tocco di freschezza in più dato dai fischi del theremin che si intreccia con pianoforti ed effetti elettronici.

Solo “Heaven in my coktail” si avvicina a quelli che erano, e chissà magari potranno essere in futuro, i Bluvertigo, sfoderando la potenza elettronica degli anni ’80.

Nel disco sono presenti anche 2 cover, “Se”, traduzioni di “If” scritta da Roger Waters ai tempi dei Pink Floyd, e “Non arrossire”, di Giorgio Gaber, che conferma quel gusto retrò che attraversa tutto il disco. Ne sono un esempio i pianoforti classici di “Aria” e qualche eco liverpooliano che si fa sentire durante l’ascolto.

“Canzoni dell’Appartamento”, nato appunto nell’appartamento di Morgan nella grigia Milano, imprime una svolta alla musica pop italiana, rendendola di colpo colta e fresca al tempo stesso.

 “Altrove” è il brano suggello alla canzone italiana, che nasconde più di un particolare. Tutti i brani di questo album sono investiti di un percorso strumentale altissimo, che, oltre agli archi, si compone di loops, wurlitzer, theremin, mellotron, vocoder, fiati, noise, tamburi ad acqua ecc. Oltre le linee dei condomini milanesi e dietro il riflesso del proprio volto alla finestra, il protagonista di Altrove (in cui ognuno di noi forse oggi si rivede) scorge il cielo: bisogna solo volgere gli occhi al cielo e attendere un futuro migliore.

 

Elisabetta Salatino

Informazioni su Elisabetta Salatino

Laurea triennale in DAMS indirizzo musica; Laurea Magistrale in discipline della Musica (Musicologia e Beni Culturali - LM 45)
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