Il titolo della mostra inaugurata il 24 marzo presso la Galleria Nazionale di Cosenza, «Édouard Manet. Noir et blanc», delinea subito i confini della collezione esposta: non si indaga il pittore della Colazione sull’erba (1863) o de ll bar delle Folies-Bergère (1882), sensibile ai contrasti e alle armonie fra i colori, bensì l’incisore dal segno intenso e deciso. Non quadri, dunque, ma stampe.
Pubblicate da Alfred Strölin nel 1905, le 30 acqueforti testimoniano, in un arco di tempo esteso fra gli anni ’60 dell’Ottocento e il 1882, tutte le fasi della produzione incisoria di Manet che, spaziando tra soggetti di traduzione ‒ dalla sua stessa opera e non ‒ e soggetti d’invenzione, sperimenta e approfondisce sempre di più un linguaggio che si rivela ben presto completamente autonomo rispetto a quello della pittura, giungendo, in definitiva, ad esiti molto interessanti. Ne sono un esempio Il chitarrista spagnolo (1861-1862), tratto dal celebre quadro che valse a Manet il plauso della critica al Salon del 1861, la Lola di Valenza (1863), incisione ripresa a sua volta dal dipinto conservato al Museo d’Orsay di Parigi, o ancora I piccoli cavalieri (1867-1874) ‒ trascrizione di un dipinto di Diego Rodríguez de Silva y Velázquez conservato al Museo del Louvre ‒ e Il ragazzo con il cane (1862). Le opere citate si distinguono per una particolare attenzione alla resa chiaroscurale dello sfondo, per l’acuta penetrazione psicologica dei personaggi e, in alcuni casi, per l’evidente segno dello stilo che, graffiata la superficie della lastra di metallo, restituisce alla stampa un contorno sintetico e marcato, un dettaglio quasi abbozzato ma preciso.
Manet non premeditava le sue composizioni, tracciava le forme in totale libertà, usando le matrici come fossero le pagine di un blocco da disegno, sfruttando i mezzi della tecnica incisoria per ottenere gli effetti sperati e tanto ricercati, stato dopo stato. Fu il suo amico Charles Baudelaire, poeta, scrittore ‒ di cui abbiamo un efficace ritratto di profilo esposto in mostra ‒ a incoraggiarlo ad approfondire il discorso sul segno, ne aveva, evidentemente, intuito il talento, certo che, dalla tela allo zinco, la mano dell’artista non avrebbe perso di forza, individuando, al contrario, nella tecnica del bianco e del nero, una nuova sfida per ritrarre la realtà. Manet, di fatto, fu fedele a sé stesso fino alla fine. Rifiutò sin da subito qualsiasi imposizione e le rigide regole della scuola francese a cui fu sottoposto durante gli anni di apprendistato presso l’atelier di Thomas Couture, ribadendo più di una volta, come riporta anche il critico e amico d’infanzia Antonin Proust, che non valeva la pena rinchiudersi nelle botteghe a ricopiare modelli, manichini, costumi, perché fuori, nei parchi, nei giardini, nelle strade, lì c’era la vita vera.
Il percorso espositivo si apre con una frase che tenta di fissare questo concetto: «bisogna essere del proprio tempo e fare ciò che si vede, senza preoccuparsi della moda». Una frase che Manet annotò, molto giovane, a margine di un testo di Diderot e che lo accompagnerà per tutta la sua carriera, una carriera fatta per lo più di delusioni, di scontri, di polemiche. Il chitarrista spagnolo, citato poco prima, fu l’unica sua opera a ottenere il riconoscimento presso il Salon ufficiale; la maggior parte dei suoi dipinti fu, invece, rifiutato e criticato. Nonostante ciò, Manet era fermamente convinto che il successo andasse ricercato proprio in quel luogo, che il giudizio del pubblico doveva essere affrontato, per cui non smise mai di provarci, non abbandonando, tuttavia, la sua verve polemica. Riconduciamo a questo clima uno dei suoi quadri più famosi, l’Olympia (1863), richiamato in mostra da due incisioni del 1867 e rappresentative dei diversi maneggiamenti a cui poteva essere soggetta una stessa lastra.
Il racconto per immagini è dispiegato in 5 sale più l’ingresso e segue un andamento tematico, dai modelli spagnoli fino allo studio dei maestri del passato, cercando di dispiegare anche i punti di contatto e di differenza con i colleghi impressionisti. Le influenze riconducibili al gruppo di Batignolles sono molteplici ma queste stesse influenze non hanno scosso la sincerità e la convinzione che animò Manet durante tutta la sua vita: «Un artista ‒ diceva ‒ deve essere spontaneista. Ecco il termine giusto. Ma per avere la spontaneità, bisogna essere maestri della propria arte. I tentennamenti non conducono mai a nulla. Bisogna tradurre quello che si prova, ma tradurlo per così dire istantaneamente. […] mi preoccupo assai poco di quello che è stato detto sull’arte. Ma se dovessi dare un’opinione, la formulerei così: Tutto ciò che ha lo spirito dell’umanità, lo spirito di contemporaneità è interessante. Tutto quello che ne è sprovvisto è inutile» (S. Mallarmé, Édouard Manet e gli Impressionisti e altri scritti su Manet di Antonin Proust, Milano 2021, p. 93.).
La mostra, curata da Alessandro Mario Toscano e Marco Toscano e organizzata con il sostegno di Banca Mediolanum. Conclusa il 25 aprile 2023.
Cecilia Brunetti
Scuola di specializzazione in Beni storico-artistici dell’Università di Perugia
Ecco alcuni scatti offerti dall’autrice dell’articolo: