Sante Egadi: il boia caritatevole dell’arte

«Portare il divertimento a un piccolo numero di uomini d’ingegno»  (Voltaire, a proposito delle finalità del suo Candido).

Siamo dalle parti del Dropping a Han Dynasty Urn  tanto per fare un esempio semirecente, ma è solo un’indicazione di massima, in realtà qui siamo ben oltre, per coraggio, coerenza artistica, senso etico e complessità di pensiero.

Verrebbe, quindi, voglia di citare antesignani un po’ più degni come i DADA e Duchamp, se non altro perché per quest’ultimi, come per Sante Egadi, la dimensione dello sberleffo giocoso è connaturata alla creazione artistica e il capovolgimento parodico è un’operazione fortemente pianificata, controllata in tutte le sue valenze comiche.

La provocazione in arte può servirsi della violenza per trasmettere il suo messaggio, se lo fa corre però il rischio più grosso: quello di trasmettere contenuti che restano rinchiusi nel gesto violento, che non portano altrove, che non suggeriscono altro e che quindi non creano prospettiva. Un buon discrimine per misurare la portata di un’opera che utilizza tali modalità risiede, penso, nella qualità del rapporto che questa riesce ad istaurare con il suo soggetto, col pubblico e con la stessa figura dell’artista.

Due esemplari della serie storica di CV pronti per la consegna

L’arte di Sante Egadi è violenta, perché non si può descrivere in altro modo quello che fa: chiede ai propri committenti (sottoinsieme del pubblico) i documenti ufficiali più rappresentativi della propria esistenza e li fa a pezzi. E’ un lavoro arduo perché necessita in prima istanza di un’identità di veduta tra artista e committente sulla vita e sulla carta, sull’io e la forma documentale con la quale ci manifestiamo agli altri.

Ma il gesto violento è solo la prima  parte del processo artistico di Sante Egadi; è nella rielaborazione / rifunzionalizzazione di quel che sopravvive allo scempio della forbice (un vero e proprio heap of broken images) che risiede la dimensione fortemente positiva della sua arte. Perché in ultima analisi quello di Sante Egadi è un gesto trasformativo di riappropriazione, è il tentativo di far coincidere, almeno in arte, carta e vita. Tale processo non è però univocamente determinato dall’artista, ma si snoda attraverso un dialogo serrato col committente, il quale deve necessariamente fornire la sua visione di sé e della realtà. Insomma, avete presente “Ai Weiwei come Aylan Kurdi”? Bene, siamo da tutt’altra parte.

Happy man (autoritratto su rooftop) acrilico su tela di Sante Egadi

Se a questo punto non siete già corsi a vedervi i canotti di Ai Weiwei potreste obiettare che non c’è molta differenza tra la distruzione di un vaso di duemila anni fa e il diploma di laurea di un committente: è materiale che non appartiene all’artista: con un po’ di pelo sullo stomaco chiunque può farlo. In rete sono disponibili i video della performance in cui nel 2012 l’artista ha distrutto i suoi documenti più importanti. Esattamente come per certi artisti che hanno consumato la propria esistenza dipingendo sempre e solo lo stesso soggetto per trarne via via significati sempre nuovi, l’attività sui curricula di Egadi parte con la distruzione / rielaborazione della propria identità cartacea e attraversa tutta la sua carriera in una intensa ricerca formale che ha accompagnato la sua maturazione di uomo e artista.

OMERO by Sante Egadi, collage su velluto realizzato con titoli di studio storici

In altri termini, Sante Egadi è un boia attento e caritatevole, al quale affidarsi con la massima tranquillità. Questo perché ha già sperimentato sulla propria pelle l’efficacia dell’ascia con la quale, col vostro permesso e con le vostre indicazioni, smembrerà la vostra esistenza cartacea per ricostruirla.

Davide Babbini

 

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