La Tōkyō fluviale: antichi fasti e modernità.

“Se oggi proviamo a pensare al rapporto estetico tra la città di Tōkyō e l’acqua, ci rendiamo conto che l’acqua, che continua a scorrere sin dal periodo Edo, è l’elemento che meglio preserva la bellezza delle vedute di Tōkyō” 

Questo è ciò che Nagai Kafū, intellettuale ed autore di spicco che visse subito dopo la Restaurazione Meiji in Giappone (1866-1869) , scriveva nel saggio Hiyori geta (1915) tradotto in italiano come “Sandali delle giornate serene”.

Egli esprime qui una certa nostalgia per i fasti del passato, quasi dimenticati dopo l’urbanizzazione, e assegna al corso d’acqua il ruolo di simbolo di continuità e specchio di una bellezza straordinaria per quanto effimera (quella di Edo prima e di Tōkyō poi). 

Da sole, queste 3 righe del saggio di Kafū provano quanto la letteratura in particolare sia fortemente influenzata dallo spazio che la circonda e quanto, in ultimo, i flussi storici, le dinamiche sociali e soprattutto i momenti storici di transizione rendano necessaria e prolifica l’arte, in tutte le sue forme.

C’è da specificare che ad un certo punto della sua storia, a partire dal 1868, il Giappone è stato attraversato da una serie di avvenimenti che cambiarono profondamente la società e la politica del paese, lasciando tra l’altro un’impronta indelebile sulla struttura stessa della città di Tōkyō e dello spazio urbano in senso ampio.

 Ci si adeguò cioè, per quanto possibile, ad un modello che fosse più adatto al panorama internazionale con cui il Giappone cominciava a interfacciarsi dopo anni di relativa chiusura. 

Fino al 1864 infatti, vigeva una politica autarchica messa a punto dallo shogun Tokugawa, detta “sakoku” (lett. “Paese incatenato”), che regolava in maniera piuttosto severa il commercio e le relazioni con l’estero.

Tutto ciò durò fino a quando, dopo l’abolizione dello shogunato e il pericolo di un’occupazione straniera, vennero concesse delle agevolazioni commerciali ai paesi europei e agli Stati Uniti, essenzialmente per evitare che il Giappone venisse diviso in zone di influenze straniere così com’era successo poco prima alla Cina. 

Nihonbashi bridge, Utagawa Hiroshige, Brooklyn Museum

Nel periodo antecedente la Restaurazione, che com’è facile intuire rappresenta un pachidermico punto di rottura in senso storico, politico, culturale e sociale, la capitale imperiale era Kyōtō mentre Tōkyō si chiamava Edo ed  era divisa in yamanote (città alta, presso cui fra l’altro si trovava il palazzo imperiale) e shitamachi (città bassa). 

Si sviluppava inoltre in una rete capillare di corsi d’acqua e fiumi sui quali la vita dei cittadini, soprattutto degli abitanti dello shitamachi,  scorreva fra spettacoli teatrali, commerci e gite in barca. 

Un’altra funzione di questo sistema di canali era quello di drenare l’acqua dalle strade della città dopo le piogge abbondanti o anche di evitare che il fiume Sumida, uno dei più grandi e importanti corsi d’acqua di Edo, tutt’oggi esistente, straripasse.

Difatti l’imbrigliamento delle acque è da sempre nel corso della storia giapponese un punto cruciale: si tenga ben presente che fino alla Restaurazione e per i primi anni dell’epoca Meiji (1868- 1912), l’economia giapponese era di base un’economia di tipo “feudale”. Ciò significa che contava sull’irrigazione dei campi per la successiva raccolta di prodotti agricoli. 

Nello shitamachi, le rive del fiume ed il canale stesso funzionavano come dei punti di riferimento anche per la questione religiosa: basti pensare che i maggiori templi e gli shrine sporgevano verso la riva, con l’ampia distesa d’acqua che faceva loro da sfondo. Il vigore di Edo era dunque tutto racchiuso nella città bassa, definita da alcuni studiosi del tempo come “la Venezia dell’Estremo Oriente.”

Quando però ad un certo punto vennero potenziate le infrastrutture stradali, costruiti marciapiedi e ferrovie e cominciò  a diffondersi il trasporto su rotaia, molti corsi d’acqua vennero riempiti per dar spazio a questi “utensili della modernità”.

Si dice dunque che nella transizione da Edo a Tōkyō si passi da una città d’acqua, Edo, ad una città di terra, Tōkyō.

Nihonbashi yukibare- Utagawa Hiroshige,

É in questo contesto che si verifica l’assimilazione della cultura di Edo all’acqua e quella della cultura moderna di Tōkyō alla terra, al cemento.

  L’acqua diviene quindi un simbolo della cultura tradizionale di Edo e viene usata dagli scrittori per rimarcare la differenza fra passato e presente. 

Non a caso Kōda Rohan, altro scrittore del tempo di notevole importanza, nel 1902 scrive un saggio intitolato “Mizu no Tōkyō ” (Tōkyō dell’acqua) in cui tratta proprio dell’importanza dei corsi d’acqua nella vita di Edo e di quanto dovrebbero esserlo anche nella vita di Tōkyō.

 Questi sentimenti nostalgici che ritroviamo in diverse opere letterarie e non solo, sono legati indissolubilmente all’acqua, alla storia stessa della città e ai suoi mutamenti, rappresentando  soltanto  la punta dell’iceberg di una relazione viscerale e profonda fra il contesto urbano, i corsi d’acqua e i fiumi di Tōkyō.

Ancora oggi, nell’immaginario collettivo, i corsi d’acqua assumono un ruolo fortemente simbolico: scorrono come il tempo fra un’epoca e l’altra, mantenendo così vivo il ricordo della luminosa bellezza del Giappone folcloristico e tradizionale.  

Simona Cavucci

 

Bibliografia:
– E. Seidensticker, Low City, High city, Tōkyō from Edo to the earthquake, 1970, Allen Lane
– G.M. Follaco, Critical Insights: Modern japanese literature,Tōkyō Literature, Salem Press

– J. Hidenobu, A spatial anthropology, University of California Press,1947

 
 

Informazioni su Simona Cavucci

Laureata in Lingue e Culture Orientali e Africane presso l'Università degli studi di Napoli L'Orientale
Aggiungi ai preferiti : Permalink.

I commenti sono chiusi.