“Chiacchiere tra traduttori”: intervista a Christine Minutoli (Prima parte). Tradizioni e traduzioni nel panorama manga in Italia. 

“Interpretare per tradurre, non tradurre per interpretare”

 

Così scriveva Umberto Eco nella sua raccolta di saggi “Dire quasi la stessa cosa”; una teoria della traduzione che ancora oggi fornisce preziosi punti di vista e espedienti, basati sulla sua diretta esperienza, a chi si approccia a questo campo di studi.

Divenendo un mediatore linguistico e mediatore tra due culture, spesso anche molto diverse tra di loro, il traduttore è equiparabile quasi ad un secondo autore, sebbene dalle sue parole debba trasparire il meno possibile la sua figura.

Quindi al giorno d’oggi che cosa vuol dire essere un traduttore? Cosa vuol dire tradurre un testo, e quali sono le regole da seguire? Le scuole di pensiero sono tante, le possibilità infinite, le sfumature estremamente variegate.

Con la nuova rubrica: “Chiacchiere tra traduttori” della sezione dedicata all’Oriente della rivista divulgativa “Il Sileno ONLUS” vorremmo approfondire la tematica della traduzione e ottenere, grazie ai nostri interventi e le interviste con esperti del settore, nuovi e interessanti spunti di riflessione.

Nell’intervista inaugurativa di oggi abbiamo avuto l’onore di intervistare la brillante Christine Minutoli, traduttrice per le case editrici J-pop Manga e Bao Publishing.

Terminato il liceo, dopo un periodo di riflessione, Christine ha avuto modo di fare una prima esperienza in Giappone grazie ad un viaggio di famiglia nella prefettura di Tochigi e vedere con i suoi occhi un Giappone più autentico e genuino, lontano dai grattacieli sconfinati di Tokyo. Innamorata della cultura giapponese e lettrice entusiasta comincia a imparare il giapponese da autodidatta e da privatista in una scuola di Genova. Intenzionata a proseguire con uno studio più immersivo e diretto della lingua, decide di partire, dopo lunghe riflessioni e tanti sforzi, alla volta di Tokyo per studiare il giapponese in una scuola privata.

Lì si ferma per un anno e mezzo, periodo durante il quale ha la possibilità di affinare le sue abilità linguistiche e di approcciarsi sempre di più al contesto lavorativo della traduzione (un campo a cui si è avvicinata in seguito al suo desiderio di sfruttare la lingua giapponese una volta ritornata in Italia).

Raffaele: Benvenuta Christine! Dalle tue risposte ho potuto capire che diventare una traduttrice non era probabilmente il tuo principale obiettivo. Vorrei domandarti quindi come sono cambiati i tuoi obiettivi prima, durante e dopo l’esperienza in Giappone.

Christine: Buongiorno a tutti! In realtà l’idea di diventare una traduttrice è stato un po’ un azzardo. L’idea mi è venuta quando ancora meditavo se sarei andata a studiare in Giappone o meno.

Perché dopo tanti sforzi non volevo tornare in Italia e non usare il giapponese.

Mi ricordavo di aver letto dei libri di Murakami tradotti dal professor Giorgio Amitrano e solo da quello mi sono resa conto di apprezzare molto tutto ciò che riguardasse i manga, la cultura e la letteratura, ma nonostante ciò il mio obiettivo iniziale era quello di puntare alla traduzione di romanzi.

Non sapendo quanto sarebbe stato fattibile ho pensato che magari iniziando dai manga, avrei preso confidenza col mondo della traduzione per poi spostarmi sui romanzi.

Raffaele: Inoltre i manga sono delle opere con tanti dialoghi piuttosto che parti descrittive e narrative. Anche nel giapponese dei romanzi c’è quasi una netta distinzione tra parte narrativa e parte dialogica.

Christine: Sì mi è capitato di notarlo quando leggevo dei romanzi, delle light novel per conto mio, in Giappone. Inoltre, nel giapponese il soggetto o il tema di cui si parla non sempre è facilmente deducibile ma nel manga puoi vedere il personaggio che sta parlando. Quindi con un romanzo, rispetto a tradurre un manga, lo sforzo è maggiore, nonostante richiedano più lavoro di quanto mi aspettassi all’inizio. Poi ogni opera è un discorso a sé.

Mentre ero in Giappone, studiando, ho cercato comunque di fare dei lavoretti che avessero a che fare con la traduzione. Quando potevo, comunque, cercavo sempre di fare il possibile per avvicinarmi un po’ al campo. Anche quelle che potevano sembrare piccole cose sono state d’aiuto.

 

Raffaele: Per quanto riguarda il discorso sulla traduzione di manga e delle opere di animazione, i contenuti a nostra disposizione sono nettamente aumentati negli ultimi anni e si dà anche più spazio ad autori di nicchia.

Tuttavia non è sempre stato così, magari per una maggiore selettività riguardo ai contenuti da portare in Italia.  Soffermandoci sul panorama della “Cool Japan” (espressione coniata per esprimere l’ascesa del Giappone come referente culturale grazie all’esportazione di materiali appartenenti alla cultura pop) in Italia, tu cosa ne pensi?

Christine: Io ho iniziato a leggere manga durante le medie per puro caso.

Trovai un cofanetto di una serie di cinque volumi a 5 euro, “Imadoki” di Yu Watase, e siccome mi piacevano i disegni ho provato a leggerla. Mi ricordo che all’epoca avevo giusto un amico che leggeva qualche manga ma erano comunque pochi gli appassionati. Ho notato che pian piano la gente ha iniziato ad interessarsi molto agli anime, soprattutto quando andava in onda lo “MTV anime night”. Se c’era un anime che aveva successo magari la gente era anche più invogliata a comprare la versione cartacea.

Secondo me la spinta definitiva l’ha data internet. Le scan, ma anche tutti i servizi in streaming, per quanto illegali, avevano la capacità di essere facilmente fruibili. Penso che abbiano dato una grande spinta al settore e hanno aiutato le persone a scoprire delle serie che qui in Italia non avevamo e di cui non sapevamo nemmeno l’esistenza. Adesso ci sono un sacco di siti che si occupano di manga e di anime, aggiornati con le fonti giapponesi, però il grande successo che hanno avuto i manga negli ultimi vent’anni è stato grazie a internet.

Vittoria: Prima infatti non arrivava quasi nulla poiché troppo di nicchia. Ci sono opere che non avrei mai pensato di vedere in Italia, eppure sono arrivate. Un classico esempio sono stati gli Yaoi, prima prodotti di nicchia, quasi impossibili da trovare.

 

Raffaele: Anche in librerie come la Feltrinelli, sebbene alcuni punti vendita siano aperti da anni, solo da poco hanno allestito una sezione esclusivamente per i manga. Prima era necessario andare per forza in fumetteria o ordinarli online.

Christine: In realtà hanno iniziato a venderli anche nelle edicole. Il fatto di avere dei manga accanto a fumetti come “Topolino” è incredibile.

Raffaele: Per quanto riguarda i manga e le opere d’animazione che sono diventati in Italia dei veri cult, capita spesso che queste opere in Giappone siano poco o per nulla conosciute. Qual è la tua opinione sulla differenza di fruizione di manga in Giappone e in Italia?

Christine: Probabilmente uno dei maggiori fattori è il fatto che le opere che arrivano qui in Italia non sono neanche un millesimo di quelle che vengono prodotte. In Giappone tutti i prodotti, così come le pubblicità, hanno come mascotte dei personaggi di manga, con i baloons e tutto il resto. Anche dentro la metro trovi gli annunci con i personaggi manga. Ad Harajuku, addirittura, ho fatto la foto ad un cartellone di una campagna di sensibilizzazione alla sicurezza sul web contenente illustrazioni di un manga shōjo (ride).

Raffaele: Di sicuro hanno capito come attirare l’attenzione delle persone!

Christine: Anche per il fatto che ne esistono di tutti i generi, la maggior parte delle persone li segue perché prima di tutto un manga viene pubblicato sulle riviste. Quindi la popolarità di un manga molto spesso ne può risentire. Inoltre, le riviste di solito hanno delle cartoline, come ad esempio “Shonen Jump” (una delle più famose riviste settimanali di manga), con le quali si votano le serie e viene deciso se un’opera avrà fortuna o meno.

In più, se da noi gli anime hanno fatto crescere la popolarità di un determinato manga, in Giappone tendono ad usare l’anime per spingere la popolarità di manga che hanno già abbastanza successo al massimo. Da noi invece arrivano direttamente opere che sappiamo avranno almeno un po’ di popolarità.

Raffaele: Ho notato inoltre che la casa editrice per cui tu lavori, la Bao Publishing, ha la tendenza a portare in Italia autori anche più di nicchia.

 

Christine: Credo che siano sempre bravi a scegliere delle serie che siano sempre in linea con la loro casa editrice. Sono opere che trattano quasi sempre della vita di tutti i giorni, e sono anche abbastanza introspettive.

Quando hanno preso gli accordi per “Princess Maison”, infatti, l’editore non era sicuro che fosse appetibile ad un pubblico italiano proprio perché ha i classici tempi “lenti” dello stile giapponese e credo sia proprio quello su cui sta puntando la Bao Publishing, in un mercato che era saturo tra i vari giganti dell’editoria.

 

Raffaele: Parliamo ora proprio della figura del traduttore: nel lavoro di traduzione il traduttore si trova a dover fare delle scelte stilistiche, a volte dovendo rinunciare ad alcune sfumature per una maggiore resa nella lingua di arrivo. Il traduttore in questo caso diventa un mediatore linguistico e un mediatore di cultura. Qual è la tua idea di traduttore?

 

Christine: Quando traduco cerco di attenermi quanto più possibile all’originale però cercando di fare in modo che sia quanto più scorrevole possibile durante la lettura. Capitano però dei casi, come con “Servamp“, in cui ci sono delle battute, dei giochi di parole, e bisogna reinventare tutto. La seconda pagina della cover di Servamp per esempio presentava dei modi di dire tipici presi da avvenimenti storici giapponesi. In quel caso ho dovuto stravolgere tutto perché non c’era modo di rendere la battuta in italiano.

Quindi, per me, la cosa più importante è l’immediatezza. Il lettore deve leggere facilmente e se c’è una battuta deve ridere. Capita anche che per altri fattori si finisce per stravolgere tutto. Per esempio nei casi in cui ci sono battute legate ai nomi, all’uso dei Kanji (ndr. I caratteri cinesi utilizzati nella scrittura giapponese), si è obbligati a mettere note, tuttavia cerco di evitarlo il più possibile perché ho paura che distragga troppo dalla lettura.

Ad ogni modo c’è sempre quella volta in cui i giochi di parole possono uscire bene, mentre altre volte si perde il doppio senso. Purtroppo questo è un limite della trasposizione.

Raffaele: Oggigiorno i lettori sono diventati sempre più consapevoli e attenti al discorso della traduzione. Io stesso, quando vedo un’opera nuova, sono curioso di sapere chi lo ha tradotto perché magari un determinato traduttore è diventato quasi un marchio di fiducia. Molto spesso però gli altri lettori non comprendono al cento per cento il tipo di lavoro che viene svolto e le responsabilità che ne derivano. Quindi che peso ha secondo te l’opinione del fandom sul lavoro di traduzione?

Christine: Credo che molti si basino comunque sull’opera tradotta in un’altra lingua e fanno un raffronto. Di solito cerco di non andare a guardare se qualcuno ha recensito un manga che ho tradotto io perché non voglio lasciarmi influenzare (ride).

Purtroppo e per fortuna il giapponese è una lingua affascinante proprio perché bisogna interpretarla. È molto vaga su alcune cose e quindi può capitare che una stessa cosa tradotta da due persone diverse sia altrettanto molto differente.

La cosa che forse i lettori fanno fatica a capire è che in realtà il manga tradotto non è il lavoro di una persona sola. Io traduco il testo ma poi lo mando all’editor, una figura importantissima (molto spesso lasciata in penombra) perché leggendo la serie tradotta si rende conto se c’è qualcosa che stona ed eventualmente me lo fa notare. Soprattutto cerca di rendere il testo più scorrevole in italiano.

Quando si traduce bisogna stare anche attenti alla scelta di parole in base alla grandezza dei balloons. Se infatti in giapponese possono bastare poche parole che entrano in un piccolo balloon, in italiano può risultare molto lungo. L’editor si occupa anche di questo. Con le case editrici per cui lavoro, la J-pop manga e la Bao Publishing, una volta completato il controllo della traduzione l’editor me la manda indietro, io controllo che le modifiche apportate vadano bene, e glielo rimando indietro di nuovo. Quindi c’è un iter infinito e non è il lavoro di una sola persona. Dietro ad una scelta di traduzione ci sono più mani e può capitare che vengano fatte delle scelte che il traduttore non approva al cento per cento.

 

Raffaele: Capita poi molto spesso che il pubblico si affezioni ad una determinata opera, grazie anche al lavoro di traduzione e adattamento, rendendo quindi difficile riproporla in una veste nuova e, perché no, più fedele. Se ti venisse proposto di tradurre da capo un classico, in cosa consisterebbe secondo te la maggiore difficoltà?

Christine: Se è un’opera che conosco bene anche io, la mia principale difficoltà sarebbe non farmi condizionare dalla traduzione precedente. Un’opera tradotta da persone diverse uscirà sempre diversa, in base alla propria cultura personale, ai propri gusti. Conoscendo già come va la storia e avendo già letto il manga, magari un classico, sarei tentata di leggere l’originale o mi verrebbe in mente com’era stato tradotto originariamente. Anche sforzandomi mi verrebbe naturale riproporre un adattamento simile e non sarebbe più un’opera di traduzione fatta da me, nonostante il traduttore alla fine debba cercare di essere invisibile.

 

Raffaele Caruso e Vittoria Aiello


Le immagini e le copertine delle opere menzionate in questo articolo sono state utilizzate per gentile concessione di J-Pop Manga e Bao Publishing.

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