Utopie pratiche. I primi passi delle democrazie comunitarie ecologiche emergenti: riflessioni comparate sulle comunità amazzoniche e quelle italiane e le loro innovative proposte giuridiche

Title: Practical utopias. The first steps of emerging ecological community democracies: comparative reflections on the Amazonian and Italian communities and their innovative legal proposals

  

Abstract: Il contributo, attraverso una riflessione comparativa, intende focalizzare l’attenzione sul fenomeno dell’emergere e del moltiplicarsi di piccole democrazie comunitarie ecologiche e sulle loro proposte innovative. Tali comunità si strutturano attorno a valori comuni, principalmente quello della cura ambientale e dell’aiuto reciproco tra i membri. Tra le somiglianze, rilevate tra comunità geograficamente e culturalmente distanti, spicca l’esigenza di dialogo con lo stato centrale. Emerge la necessità di riconoscimento giuridico di queste nuove forme di gestione e la creazione di categorie più adeguate alle sperimentazioni in corso.

 

Abstract: The contribution, through comparative reflection, seeks to focus attention on the phenomenon of the emergence and multiplication of small ecological community democracies and their innovative proposals. These communities are structured around common values, mainly that of environmental care and mutual help between members. Among the similarities found between geographically and culturally distant communities, the need for dialogue with the central state stands out. There is a need for legal recognition of these new forms of management and the creation of categories that are more suitable for the experiments in progress.

 

Parole chiave: ecovillaggi italiani, comunità indigene amazzoniche, demodiversità, diritti della natura, antropologia giuridica

 

Keyword: Italian ecovillages, Amazonian indigenous communities, demodiversity, natural rights, legal anthropology

 

  1. Introduzione: Antropocene e diritto

 

Effetto farfalla? Il battito dali duna farfalla può provocare un uragano dallaltra parte del mondo

 

L’interesse per l’ambiente è cresciuto enormemente negli ultimi trent’anni. La preoccupazione per la salute dell’essere umano e del pianeta è diffusa a livello globale, così come l’utilizzo del termine Antropocene. E’ noto ormai, che il termine identifichi l’era geologica della Terra e il cambiamento irreversibile dei suoi strati geografici causato dal modello economico umano. A partire dagli anni ’90, la comunità scientifica inizia ad interrogarsi con maggiore intensità sulla relazione tra umano e non umano al tempo dell’Antropocene. Ne scaturisce una corrente di pensiero critico, sulla dicotomia Natura/Cultura, che in sintesi indica la separazione, sia concettuale sia pratica, tra l’essere umano e l’ambiente naturale, a partire dall’epoca moderna. Le principali prospettive ispiratrici delle voci critiche si rifanno alle tradizionali teorie antropocentriche oppure alle nuove teorie biocentriche: sempre in sintesi, le prime ritengono che l’essere umano abbia un ruolo di centrale superiorità rispetto al non umano che è amministrato come una risorsa inanimata assimilata al concetto economico di capitale, mentre le seconde si rifanno ad una relazione di vitale interdipendenza e continuità fluida tra società umana e natura, tra corpo umano e ambiente biotico e abiotico. Relazione avvalorata, oltre che dalle scienze umane, dai recenti risultati della biologia che inizia a parlare di post-genomica e per la quale: «si stima che il 90% delle cellule che ci compongono siano batteriche. La salute del corpo non dipende più da un organo sano o malato ma dalla biodiversità e dalle caratteristiche dei batteri, che sono considerati come mediatori tra noi e l’ambiente» (Raffaetà, 2017:124).

Come tutte le altre discipline, anche le scienze giuridiche mettono in discussione gli orientamenti tradizionali. La normativa ambientale nazionale e internazionale occidentale produce progressivamente norme e accordi a tutela dell’ambiente e del clima abbastanza noti, ormai, anche all’opinione pubblica e tutti di ispirazione antropocentrica, più o meno moderata (dal Rapporto Bruntland, che inaugura il concetto di sviluppo sostenibile e diritti delle generazioni future, ad oggi). La vera svolta normativa in direzione biocentrica arriva negli anni 2000, quando numerose sentenze e norme nel mondo sanciscono che la riconoscibilità all’essere umano non è più l’unico requisito-guida dell’attenzione giuridica. Tali disposizioni prevedono il riconoscimento della personalità giuridica di elementi naturali: una parte dell’Amazzonia colombiana e il fiume Atrato come soggetti di diritto in Colombia (2016); il fiume Whanganui riconosciuto come persona giuridica in Nuova Zelanda (2012); il fiume Gange e Yamuna con sentenza dell’Alta Corte dell’Uttarakhand (2017) seguita dallo stesso riconoscimento per i ghiacciai dell’Himalaya. Una rivoluzione più strutturale riguarda l’Ecuador e la Bolivia, gli unici due stati al mondo, che riconoscono, a livello costituzionale, che la «natura» è soggetto di diritto come, l’essere umano (tutte le normative parlano di uomo; qui si interpreta/traduce come essere umano).

In questo rinnovato contesto nascono e sembrano moltiplicarsi, esperienze comunitarie di ispirazione ecologica. Tuttavia, qualunque sia l’ispirazione teorica della normativa, continua a sussistere un gap di comunicazione tra il livello concreto territoriale di tali esperienze e la gestione centrale. Le piccole democrazie ecologiche indigene ecuadoriane – che hanno contribuito enormemente all’elaborazione della Costituzione biocentrica – hanno problemi relazionali con le strutture dello stato centrale che fatica a riconoscere la loro peculiare natura e continua ad incastonarle in categorie inadeguate: associazione, cooperativa, riserva e così via. L’esperienza della comunità indigena amazzonica dei kichwa Sarayaku è paradigmatica di questa difficoltà in Ecuador, (nonostante il livello sostanziale di autonomia gestionale conquistata, sia decisamente più elevato ove paragonato alle esperienze europee). Così come in Amazzonia, anche la prassi italiana evidenzia l’esistenza di fenomeni associativi di ispirazione ecologica che non sono più inquadrabili nelle categorie giuridiche tradizionali. Recentissimo in Italia, il primo tentativo, in corso, da parte di più o meno giovani comunità ecologiche intenzionali, di ottenere il riconoscimento giuridico della loro peculiarità attraverso una legge. Alla luce della ricerca di campo in Amazzonia (2018-2021), e di quella appena iniziata sugli ecovillaggi italiani, ci si chiede se le comunità ecologiche indigene amazzoniche ecuadoriane e le comunità ecologiche intenzionali italiane abbiano qualcosa in comune e se una riflessione che le accomuna possa offrire qualche spunto di ispirazione per il legislatore italiano. La distanza geografica, storica e socio-giuridica delle due esperienze, all’apparenza è incolmabile ma permette di cogliere un principale comune denominatore: una risposta efficace alle conseguenze dell’Antropocene. Denominatore individuato anche dalla comunità scientifica che nei suoi report sull’emergenza ecosistemica del pianeta Terra (World Scientists’ Warning to Humanity: A Second Notice, 67 BioScience, 12, 2017, 1026-1028) suggerisce la valorizzazione delle pratiche locali come unica risposta efficace di cura della biodiversità e della salvezza della vita sul pianeta. Le democrazie ecologiche emergenti rappresenterebbero dunque una cura: per il cambio climatico e l’emergenza ambientale; per la crisi di legami sociali, di valori spirituali e di solidarietà; per la nostra relazione individuale e collettiva spezzata, speriamo non irrimediabilmente, con la Terra. A questo comune intento, seguono somiglianze socio-organizzative che spingono ad indagare se queste realtà così distanti esprimano in modo simile l’embrione di una spinta innovativa destinata ad espandersi nella coscienza e nelle pratiche delle persone e dei legislatori.

 

  1. La proposta amazzonica: la Propuesta Kawsak Sacha

 

La natura del diritto ctonio, costituisce un duro colpo per le ambizioni del diritto (occidentale). Se un diritto ctonio esiste – ed esiste – non potremmo comprenderlo senza comprendere altre cose. Non c’è separazione tra  diritto e morale né tra diritto e tutto il resto.

  1. Patrik Glenn

 

Per arrivare a Sarayaku da El Puyo si percorre una strada asfaltata fino a Canelos. La strada dopo Canelos è una strada bianca con vari dislivelli ed è attraversata da piccoli torrenti da guadare. La strada conduce, in un’ora e mezzo circa, alle rive del fiume Bobonaza e da lì, si prende una canoa che, a seconda delle condizioni del fiume, impiega dalle tre alle cinque ore per raggiungere la comunità. Sarayaku è popolata da circa 1400 persone appartenenti alla nazionalità kichwa che si identificano con il nome del loro insediamento, Sarayaku. La popolazione – di cui un’incredibile quantità di giovani e bambini – è distribuita nella selva, in sette centri dislocati in un territorio di circa 135.000 ettari. L’area della foresta pluviale amazzonica in cui si trova Sarayaku è considerata una delle dieci regioni al mondo con più alta biodiversità. L’intera esistenza della comunità è inquadrata e organizzata sulla base di due principi di vita fondamentali: Sumak Kawsay e Kawsak Sacha. L’origine del Sumak Kawsay è di matrice indigena andino-amazzonica e la traduzione castigliana è lontana dal farne intendere pienamente il significato. La comprensione del concetto implica l’assunzione di una prospettiva olistica e biocentrica che incorpora alcuni principi:  relazionalità, reciprocità, vita comunitaria, relazione con la natura, armonia. Da tali premesse, i movimenti indigeni ecuadoriani sono giunti ad affermare e far incorporare nel sistema istituzionale l’importanza della relazione tra le comunità indigene e il territorio. Il concetto ha ispirato, movimenti politici non solo ecuadoriani e non solo indigeni, fornendo la base di una critica generale mossa al sistema capitalista. E proprio col sistema capitalista Sarayaku si scontra verso la fine degli anni ’90, quando lo stato concede illegittimamente, alla compagnia petrolifera argentina CGC, una concessione per lo sfruttamento del territorio Sarayaku. La comunità, con la forza del principio ordinatore della sua vita, Kawsak Sacha, che significa Selva Vivente, riesce ad ottenere dalla Corte Interamericana dei Diritti Umani, nel 2012, una sentenza che condanna lo stato dell’Ecuador per le violazioni che si sono dispiegate in modo occulto e a tratti, violento. Forza ordinatrice sostenuta dalla normativa internazionale, nazionale e dall’azione mediatica di note ONG come Amnesty International e Amazon Watch. Kawsak Sacha ossia la Selva Vivente, è il nome proprio di persona con cui i Sarayaku chiamano il territorio in cui vivono. E’ insieme un concetto e una forma materiale e organica, onnicomprensiva di esseri umani, vegetali, animali, spiritualità. La pluralità delle forme vitali sono riconducibili alla soggettività unica, al macro-organismo che è Kawsak Sacha. I Sarayaku sentono di svolgere le loro vite dentro un grande essere vivente, la Madre Terra, con la quale sono in relazione interdipendente. Kawsak Sacha è l’ontologia vivente alla base di una proposta autonoma, anche economica, per uno sviluppo alternativo (https://sarayaku.org/propuestasprogramas-y-proyectos/propuesta-kawsak-sacha/?lang=es). Emerge dalla proposta che, per i Sarayaku, la spiritualità e la relazione con l’ambiente naturale hanno un forte impatto sull’aspetto normativo. La Propuesta si basa sull’ontologia nativa della comunità (Sumak Kawsay, Kawsak Sacha) che è protetta e riconosciuta dalla normativa nazionale e internazionale (Cost. Ecuador 2008, Convenio Oit n.169) e su analisi scientifiche che attestano che il territorio garantisce l’assorbimento di svariate tonnellate di carbonio per anno contribuendo a mitigare il cambio climatico e conservare una delle biodiversità più ricche del pianeta. L’unicità della proposta risiede, tuttavia, nella configurazione di un’entità composta da un’intersezione di elementi che va oltre il concetto occidentale di personalità giuridica: una pluralità o universalità di «beni naturali» in relazione interdipendente con una collettività umana. Le categorie giuridiche occidentali sembrano decisamente insufficienti a comprendere la complessità delle ontologie indigene, avanguardie eco-sostenibili che intendono vedere riconosciuto lo specifico legame bioculturale delle comunità col territorio e la sua efficacia nella lotta al cambio climatico.

 

  1. La proposta italiana: la legge sul riconoscimento e disciplina delle comunità intenzionali

 

La tradizione non può essere ereditata, se la vogliamo dobbiamo conquistarla a gran fatica

T.S.Elliot

 

L’esperienza italiana è geograficamente e culturalmente distante da quella latinoamericana. Nessun ordinamento europeo o di tradizione giuridica occidentale, dispone di strumenti giuridici simili a quelli forniti all’ambiente e alle comunità indigene ecuadoriane, soprattutto per quanto concerne l’aspetto del legame delle comunità con i rispettivi territori. Ciò non implica che le comunità indigene siano effettivamente tutelate, circostanza purtroppo nota a tutti; l’esistenza di una norma non ne garantisce l’applicazione che dipende, in tanta parte, da decisioni dell’interprete e dalle autorità di turno.  

Venendo alle nostre comunità intenzionali ecosostenibili, esse indicano un fenomeno associativo che accomuna realtà differenti che si stanno moltiplicando rapidamente: ecovillaggio, cohousing, condomini solidali, eco-città (assenti queste ultime in Italia). Questa formula – richiamata anche nella proposta di legge N. 2730 sul riconoscimento e disciplina delle comunità intenzionali, depositata il 22 ottobre 2020 presso la Camera dei Deputati  include tutte le aggregazioni impegnate nella «conversione ecologica di tutti gli aspetti della vita, riferibili alla dimensione economica, ambientale, sociale e culturale». La proposta evidenzia la rilevanza pratica e numerica delle realtà richiamate e preleva direttamente dalla prassi i caratteri costitutivi delle comunità tra cui, l’essere composte da «almeno sette adulti nell’obiettivo della sostenibilità ecologica, spirituale, socioculturale». Seguono altre norme sul progetto di vita comunitaria, sulla gestione dei beni e del patrimonio, sul riconoscimento della comunità come persona giuridica. La proposta di legge, non appare come una formulazione astratta ma attinge i suoi contenuti direttamente dalla realtà esistente che ha già una discreta storia. L’ecovillaggio è la formazione sociale di riferimento più strutturata in termini socio-organizzativi. Risale agli inizi del ‘900 (Solheimer in Islanda è stata fondata nel 1930) e arriva in Italia verso gli anni ‘80 (la più storica comunità italiana censita, la Bagnaia risale al 1979). L’ecovillaggio nasce da uno spirito di critica al sistema economico capitalista e come risposta alternativa alla società del benessere, in linea con lo spirito delle comuni degli anni ’70, ma va da queste distinto: prima di tutto perché la composizione anagrafica dei membri è trasversale; in secondo luogo, gli ecovillaggi italiani non assumono posizioni antagoniste verso la società, anzi, spesso vanno ad integrare, se non rimpiazzare, l’azione che ci si aspetterebbe dalla società civile e dalle istituzioni pubbliche alla luce dell’emergenza climatica, ambientale e sociale. La situazione è simile a quella realizzata dai Sarayaku e sembra anch’essa un’applicazione concreta della demodiversità descritta da B. De Sousa Santos e da J. M. Mendes. Gli autori sostengono che l’applicazione concreta dei processi eco-democratici e partecipativi nelle piccole comunità  attestino il successo, in termini ambientali, economici e sociali, di una gestione ispirata alla biodiversità socio-culturale dei territori. Gli ecovillaggi, sebbene diversi tra loro, sono interpretabili come democrazie dirette articolate attorno ad un’organizzazione autonoma nei metodi decisionali, nella soluzione interna dei conflitti minori e nella gestione economica e ambientale. E’ degna di nota anche la creazione di efficaci reti di collegamento nazionali e internazionali come la rete mondiale, GEN, Global Ecovillage Network (https://ecovillage.org) e la rete nazionale RIVE, Rete Italiana Villaggi Ecologici (https://ecovillaggi.it). GEN è una ONG alla quale aderiscono ecovillaggi di tutto il mondo, è stata fondata nel 1994 ed oggi ha acquisito lo status consultivo speciale presso l’ONU – che ha riconosciuto la validità sociale degli ecovillaggi. Significa che GEN ha acquisito il diritto di sedersi e «dire la propria», insieme agli stati, al tavolo dell’Assemblea delle Nazioni Unite. Pur senza diritto di voto può esercitare influenza e fare lobbyng. RIVE è stata invece creata nel 1996 ad Alessano, Lecce, e offre vari servizi agli ecovillaggi che aderiscono. Non tutti gli ecovillaggi potrebbero essere mappati e aderire a queste reti che comunque offrono uno sguardo sulle innumerevoli realtà che si sono moltiplicate nel mondo e in Italia, sul loro modo di vivere e di operare concretamente in armonia con la terra e con i valori di solidarietà, spesso recuperati dalle comunità rurali scomparse con la modernità. Un’innovazione che trae le sue radici da tradizioni interrotte, ma forse, non perse.

 

4.Riflessioni conclusive

Si possono osservare alcuni caratteri comuni alle due realtà così culturalmente e geograficamente distanti. La somiglianza più significativa e cronologicamente più recente – ai fini di questa riflessione – è che entrambe cercano un dialogo con lo stato centrale per chiedere il riconoscimento giuridico della loro peculiarità e prima ancora, della loro esistenza.  Altro carattere comune è la spiritualità e l’armonia nella relazione tra esseri umani e non umani, che entrambe coltivano, sebbene in modi differenti, come valore fondante dello stare insieme comunitario. Seguono caratteristiche organizzative e burocratiche non meno importanti: soluzione di conflitti interni in via stra-giudiziale e spesso socialmente condivisa; organizzazione socio-normativa autonoma; tendenza all’autonomia economica o comunque ad un sistema di economia circolare e di lavoro dignitoso. Elementi che possono espandersi e dispiegare effetti positivi anche nel territorio circostante. Altro carattere comune significativo è che le nuove democrazie comunitarie ecologiche si sentono strette e scomode nelle categorie che la tradizione giuridica occidentale mette a loro disposizione. Se la proposta Sarayaku è tanto innovativa quanto audace, in quanto chiede il pieno riconoscimento, istituzionalizzato del legame bioculturale tra il territorio ed i suoi abitanti, appare invece meno radicale e più facilmente accoglibile la richiesta delle comunità intenzionali ecologiche italiane, in linea con gli orientamenti europei e nazionali in tema di ambiente e valorizzazione dei territori. La volontà di riconoscimento, è legata principalmente alle difficoltà burocratiche connesse alle forme giuridiche proposte dall’ordinamento, che creano complessità inutili e sono distanti dalle problematiche quotidiane concrete. Altro rilievo concerne il riconoscimento di un legame sociale, solidale,  sentimentale e quasi parentale tra i membri delle comunità, differente dal vincolo che associa i membri di un’associazione o simili, che non condividono l’abitare insieme. Il riconoscimento potrebbe promuovere il recupero di aree abbandonate, la nascita di nuove comunità e delle relative pratiche virtuose che si diffonderebbero in termini di cura ambientale, ri-valorizzazione territoriale e culturale all’insegna della solidarietà, del mutuo aiuto, e delle molte buone pratiche che si cercano di implementare. Gli ecovillaggi sono accomunati dal principale macro-obiettivo della cura ambientale, del rispetto dei diritti umani, del recupero di saperi rurali, della condivisione di valori, beni e spiritualità,. Meriterebbero un approfondimento più dettagliato in quanto ciascuna comunità coltiva competenze specifiche  (ad esempio Lumen coltiva la relazione tra natura e salute; la Bagnaia è una comunità che pratica l’agricoltura ed è autosufficiente, e così via) e mette in pratica differenti visioni della proprietà, economia e natura (proprietà comune o no, economia a maglie strette o larghe, natura come risorsa da conservare o come madre). Per questioni di spazio non è possibile trattare qui questi aspetti ma si segnala il sito di RIVE in cui sono reperibili informazioni di massima su alcuni ecovillaggi italiani.

Del resto, non resta che attendere l’esito del dibattito parlamentare sulle comunità ecologiche intenzionali e, se ci sembra giusto, possiamo appoggiarne il tentativo di riconoscimento sottoscrivendo la proposta di legge depositata presso le camere (https://ecovillaggi.it/news/297-legge-sul-riconoscimento-giuridico-delle-comunita-intenzionali-firma-per-sostenere-una-scelta-di-vita-sostenibile-in-italia.html).

 

Federica Falancia

 

Bibliografia

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  7. Falancia, La Natura come soggetto di diritto: una riflessione a partire dal riconoscimento dei diritti della natura nella Costituzione ecuadoriana del 2008, in, Il soggetto di diritto. Storia ed evoluzione di un concetto nel diritto privato, Jovene, Napoli, 2020
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  9. Pagano, Antropocentrismo, biocentrismo, ecocentrismo: una panoramica di filosofia ambientale, in Energia Ambiente e Innovazione, 2/04
  10. Raffaetà, Salute e ambiente in tempi di Antropocene, in, Antropologia Vol. 4, N°1 N.S., Lededizioni 2017
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