Sono nomi emblematici, scelti per raccontare una realtà disumana da umanizzare, quelli in capo ai fogli di giornale circolanti nel campo di prigionia di Dunaszerdahely, allora in territorio ungherese, ai tempi della Grande Guerra. Il “Gazzettino di Wonbaraccopoli” e “L’Attesa”, forme di una resistenza silente a una condizione di vita vissuta aspettando la libertà, sono stati oggetto di un interessante studio storico operato da Giuseppe Ferraro in un saggio edito da Pubblisfera, che le raccoglie e commenta, in quanto testimonianza singolare di un conflitto che non si combatte soltanto in trincea, che è fatto anche di “carte e parole”. Infatti queste esperienze giornalistiche, forse embrionali e certamente soggette a pensante censura e controllo coatto da parte delle autorità del campo, nascono ad opera dei prigionieri e si inseriscono nel quadro delle attività messe in atto per ricreare nel campo alcuni tratti della vita civile, quella che per il resto veniva loro negata.
Attraverso la loro rilettura, Ferraro ci introduce nella loro dimensione di comunità umana, mettendo in luce nuova gli aspetti psicologici della reclusione, le forme di organizzazione interna, i sentimenti serpeggianti di vergogna per l’essere considerati in patria disertori o addirittura traditori, che evitano con la prigionia lo scontro aperto.
Uno spaccato originale, che aggiunge un tassello importante ad una storia fatta non solo di battaglie, con le relative sconfitte o vittorie, ma anche e soprattutto di vite vissute, in genere in condizioni estreme, con il loro bagaglio di dignità e con il loro desiderio di normalità: un anelito che conduce, anche in un periodo così difficile come quello che si staglia fra il 1914 e il 1918, a sperimentare fra esseri umani la libertà – se pur relativa – di esprimersi e comunicare.
Giulia De Sensi