Lost in Beijing

La Grande Muraglia

La mia fascinazione per la Cina è iniziata sin da quando ero bambina: sono nata e cresciuta in un paesino del Sud Italia, dove vent’anni fa era ben poca la gente che avesse una vaga idea di cosa fosse o dove fosse la Cina. Per me l’Oriente è stata invece una “chiamata”, una missione.

Sognavo i tetti a coda di rondine dei templi, il trucco e le maschere dell’opera, uomini e donne dagli occhi a mandorla che portavano il cibo alla bocca usando semplici bacchette di legno.

All’università mi sono buttata a capofitto sullo studio della lingua cinese, della storia, arte, cultura e politica della Cina. Ma la mia love story con la Cina è iniziata davvero a ventisei anni, quando ho lasciato il mio mondo protetto dell’Italia e ho deciso di vivere a Pechino.

Mi sono sempre considerata una straniera dentro, una che dalla nascita ha sentito il bisogno di scappare, che ha vissuto con la testa tra le nuvole per tutti gli anni del liceo sognando l’altrove.

Quell’altrove non l’ho trovato a Roma, dove ho studiato, e nemmeno nelle città italiane in cui ho vissuto e viaggiato, niente è mai stato abbastanza: ecco perché finiti gli studi ho deciso di lanciarmi nella mia grande avventura.

Pechino: Roma a confronto è una cittadina di provincia. Pechino: il mostro d’Asia, una delle città più sterminate al mondo, asfissiata dall’inquinamento, affollata da cinesi di tutte le età che corrono al ritmo di androidi, soffocata dalla pressione del fare, del produrre. Pechino: la meta di un numero sempre maggiore di stranieri in cerca di fortuna; scintillante di luci che rischiarano la notte a giorno, popolata a qualsiasi ora; imponente come i grattacieli della City, antica come quei pochi hutong (in cinese 胡同, sono strette strade o vicoli, solitamente associati alla città di Pechino ndr) rimasti ancora in piedi; sregolata come i suoi club, luoghi di perdizione e alcool contraffatto.

Atterri all’aeroporto e ti senti già diversa, mentre respiri quel misto di smog e cibo preconfezionato che la prima volta

Camminando per le strade della cittadina di Ping Yao

ti dà il voltastomaco. Capisci di esserci dentro fino al collo solo quando tornandovi ancora quell’odore lo accogli con gioia. “Rieccomi qui!”.

Metti un piede fuori dall’aeroporto e ti senti sbarcato sulla luna: cartelloni giganti e luminosi pieni di caratteri cinesi. I primi mesi hai solo voglia di nascondere la testa sotto il cuscino per non dover sentire la fatica mentale di leggere quei “geroglifici” o comprendere quello che ti dice la gente per strada. Dopo qualche mese però ti senti una persona nuova: sguazzi nelle strade, tra milioni di teste dai capelli neri e lisci e ti senti un’astronauta felice che aleggia a gravità zero.

Non vuoi più andartene.

Ed è questo che è successo a me, dopo un anno di andirivieni: sono diventata un’expat, lavoro a Pechino per un’azienda cinese che si occupa di progetti di collaborazione e vivo in un piccolo circondario degli anni cinquanta in un palazzo di cinque piani senza ascensore, popolato da vecchietti adorabili e dai loro cani. A pochi metri da questo ultimo angolo di vecchia Cina svettano i grattacieli del Central Business District, con le loro forme avveniristiche e la pelle di vetro che sfaccetta la realtà in mille possibili vedute.

Vado a lavoro in bici, confondendomi nel mare di cinesi vecchi e giovani che pedalano ciascuno verso la propria meta. La Cina non è più il paese delle biciclette ma è ancora uno di quelli dove le si usa più di frequente: negli orari di entrata e uscita dagli uffici ogni incrocio diventa un capannello di mezzi a due ruote, scintillanti nelle loro vernici o scassati e arrugginiti. Per andare in bici in Cina bisogna avere un’estrema prontezza di riflessi e una buona conoscenza delle dinamiche del traffico in generale, per lo meno se si vuole evitare uno scontro frontale con un’altra bici o peggio ancora con uno di quei tricicli elettrici che tanto vanno di moda per il trasporto passeggeri (una sorta di rickshow elettrici). La gente a Pechino guida contro mano con estrema nonchalance e gli incroci sono delle vere e proprie pazzie: solo a guardare il caos di auto, motorini, bici e pedoni che si tagliano la strada a vicenda mi si rizzano i capelli.

Poi c’è la nebbia di smog, il wumai, come si chiama in cinese. Alcune mattine ti svegli con un peso sul petto e la testa pesante. “Strano, eppure ieri non ho bevuto”, ti domandi, ma poi guardi fuori dalla finestra ed ecco la risposta: i palazzi che sai esser proprio lì, a meno di cinquecento metri, sono stati risucchiati nella nebbia grigiastra o giallastra, a seconda della concentrazione più o meno estrema di particolato 2.5. A Milano quando il valore arriva sui 90 si ferma il traffico, qui nei giorni in cui va male siamo al di sopra di cinquecento. Livello rosso. Da trecento a milletrecento.

Alla fine resta solo quell’avvertenza inutile: limitare tutte le attività all’esterno. Come se il particolato non ti entrasse in casa, nel letto, nei sogni. Se non c’è lo smog, comunque, vuol dire che soffia il vento siberiano, quello che ti trafigge il viso e se ne infischia di quanti strati di vestiti hai addosso, lui ci passa attraverso comunque. A volte mi domando cosa sia meglio… no, cosa mi torturi di meno.

Il fine settimana Pechino è piena di eventi, mostre, seminari, party e festini alcolici: ce n’è per tutti i gusti e per tutte le tasche. Anche se non sembra, però, la vita di un expat qui è piuttosto solitaria. Il tempo di permanenza medio di uno straniero a Pechino è di sei mesi. Anche chi ci lavora di solito non si ferma più di qualche anno e tutto ciò non fa che alimentare quel fatale senso di impermanenza che scoraggia le relazioni.

La città proibita

Eppure, nonostante tutto, non manca mai la solita girandola di amori e fallimenti, disavventure e risate. Perché poi alla fine a Pechino si ama, fosse anche solo per una notte. Il giorno dopo ci si rituffa nella folla, si mangia una pagnottina fritta in piedi, davanti a uno dei mille banchetti che spuntano per strada a prima mattina e che vendono “colazioni cinesi”; a pranzo si ordina un take-away scegliendo tra un elenco infinito di ristorantini, pagando online con una App e aspettando che il tutto ti venga recapitato al tuo indirizzo; dopo il lavoro ci si ritrova con gli amici nel quartiere delle ambasciate per una serata tra locali trasgressivi, oppure ci si tuffa nei vicoli della città vecchia, in uno di quei posticini alternativi di musica dal vivo.

Prima di andare a letto alzi gli occhi al cielo, anche se magari non si vedono le stelle, e inspiri una boccata d’aria, seppure impregnata di quel puzzo di inquinamento che fa di Pechino…beh, Pechino.

Centinaia di persone, cinesi e stranieri, mi hanno chiesto cosa ci faccio qui, come ho fatto a innamorarmi di questa città sporca e caotica.

E’ per via della bellezza straziante del chiaro-scuro. Per i contrasti, che sono l’anima stessa della Cina.
E’ per via del mistero che avvolge i cinesi. Per via di quell’aquilone.

Il Tempio del Cielo

Ricordo che era un giorno di vento, sole e cielo di un blu abbacinante. Stavo attraversando la strada su uno degli enormi cavalcavia che si stagliano al di sopra delle principali arterie di traffico.

Sul cavalcavia c’era un vecchietto, stava cercando senza successo di far volare un aquilone. Il vento c’era, il posto era stato scelto bene, perché mai quell’aquilone non volava?

Lo avevo osservato per qualche secondo prima di capire che il problema era il filo. Il vecchietto voleva far volare l’aquilone senza dargli filo. Senza dargli lo spazio e la libertà di volare. Ma è davvero possibile volare alto senza la giusta dose di libertà, di filo?

Ricordo di aver sospirato. Le contraddizioni tipicamente cinesi, quelle che mi tengono qui, con gli occhi spalancati a cercare di capirne di più.

Caterina Russo

 

Informazioni su Caterina Russo

Vive tra Cina e Italia dedicandosi con passione al management di progetti internazionali, alla consulenza per aziende italiane e cinesi e alla mediazione linguistico-culturale, come interprete professionista. Socio fondatore di Élite China Academy, la prima accademia italiana esclusivamente dedicata al training professionale per chi parla cinese.
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