Le scritture analfabete

Giuseppe Ferraro, «Resistere» – Trincea e prigionia nell’Archivio Barberio
Pellegrini, 2018

 

Sul monte san Michele, a Mormanno, in provincia di Cosenza, si erge il Faro Votivo, un sacrario dedicato ai caduti nella guerra del 1915-1918. Attorno, un bosco, un ampio parco dove idealmente riposano quei giovani militi che, partiti per il fronte, non fecero più ritorno. L’ultimo schivo raggio di un giorno soleggiato di novembre si adagia sul cippo che ricorda Gaetano Alberti, medaglia d’oro, morto a Castelnuovo il 26 luglio del 1915. Vicino a una corona di fiori, ormai arsa dal sole e dalla polvere, un’epigrafe: Calabresi caduti nella Guerra 915-918 – Provincia di Cosenza n. 8082 – Provincia di Reggio 6425 – Provincia di Catanzaro 5539 – Totale n. 20046. E poi, a seguire, un triste podio: Medaglie d’oro n. 12 – Argento 292 – Bronzo 238. In questo devastante conflitto furono chiamati al fronte oltre 4 milioni di italiani (la loro età: tra i 18 e i 40 anni); 650 mila soldati non fecero più ritorno alle loro case. Sui vari campi di battaglia, a difesa dei propri confini nazionali, perirono non meno di dieci milioni di persone, non numeri: nomi, cognomi, volti.

La retorica patriottarda non ha reso onore né alle patrie, né alla storia, né alla verità dei fatti. La storia ha messo ai margini del suo racconto proprio le voci dei veri protagonisti, spesso loro malgrado, cioè di quei tanti fanti che la guerra l’hanno combattuta sulle trincee, morendovi, oppure restandovi feriti, o finendo nei campi di prigionia sparsi in Europa, uccidendo. E anche se fortunati, perché rientrati nei vari paesi di provenienza, se sopravvissuti al macello, hanno trascinato, nel corso della loro vita, il peso di un’esperienza tragica e difficilmente comunicabile. Eppure tanti di loro, nonostante tutto, hanno lasciato tracce indicative di quella guerra, spesso riuscendo a trovare la forza e la voglia di scrivere, pur essendo quasi analfabeti. Una scrittura povera, improvvisata, frammentata, analfabeta, ma veramente utile per trasmettere informazioni ed emozioni e capace di svelare scenari spesso taciuti. Per fortuna, in particolare negli ultimi tempi, la storiografia dà sempre più spazio a queste scritture: lettere, diari, memorie, autobiografie. Le varie testimonianze di ufficiali, ma soprattutto di semplici contadini-soldati per nulla istruiti, strappati alla campagna, come nel caso dei calabresi, sono un patrimonio che va recuperato, analizzato, interpretato, diffuso.

Dall’ascolto delle loro voci la storia ci sarà raccontata nella pienezza della sua realtà, anche se, a volte, potrà esserci sgradita, oppure amara.

La sensibilità verso questo tipo di studi va sempre più crescendo. Tra gli storici impegnati in questa direzione è da annoverare certamente Giuseppe Ferraro. Basti dare uno sguardo, sia pure sommario, alla sua produzione in materia, tesa al recupero e alla valorizzazione di questa documentazione prima che possa definitivamente perdersi. In Lettere dal fronte: aspetti e problemi di vita militare durante la Grande Guerra (Rivista Calabrese di Storia del ‘900, 2 – 2012), ad esempio, rintraccia, pubblica e analizza le lettere del sottotenente Davide Giuseppe De Capua, appartenente a una nota famiglia borghese di Longobucco. Il carteggio prende le mosse nel 1915, quando nel paese si moltiplicano le manifestazioni a favore dell’entrata in guerra dell’Italia. Le lettere del De Capua testimoniano il suo entusiasmo interventista. In altro saggio, Trincee di carta: scritture e memorie di guerra (1914-1918), apparso nel volume, curato dallo stesso Ferraro, Dalle trincee alle retrovie – I molti fronti della Grande Guerra (ICSAIC, 2015), aveva esaminato anche le lettere di Alfonso Russo, sempre di Longobucco, di diverso tenore rispetto a quelle del De Capua. Il Russo, sarto emigrato negli Stati Uniti, rientrato in Italia e chiamato al fronte, mostra nelle lettere tutto il suo sconforto per questa partenza, che lo avrebbe portato lontano, ancora una volta, dalla propria casa e dal suo luogo natio. Nelle umili e semplici parole del soldato Russo è svelato tutto l’amore per la famiglia, la disperazione per non poter vedere crescere la figlioletta, mentre le vicende belliche non sono rivestite da alcun alone di sacralità; sono, in verità, motivo di dolore e di rassegnazione.

L’autore Giuseppe Ferraro

Ma non solo le lettere sono documenti interessanti e di prima mano per una lettura ravvicinata e senza filtri della vita in prima linea o della prigionia. Anche i diari «rappresentano una delle fonti più utili per ricostruire la vita dei soldati in trincea, la loro percezione della guerra, i rapporti con i comandi militari, con la popolazione civile nelle retrovie del fronte o la prigionia», come scrive Ferraro nel suo corposo lavoro «Resistere». Trincea e prigionia nell’Archivio Barberio. Con le briografie dei prigionieri di Dunaszerdahely in Ungheria. Non solo, ma aggiunge lo studioso: «La loro dimensione per certi aspetti più “intima” e libera, la possibilità di sfuggire al controllo della censura, permetteva infatti ai soldati di spingersi in valutazioni sulla guerra, confessioni dei propri stati d’animo, critiche nei riguarda dei propri superiori, non riscontrabili, ad esempio, nelle lettere».

La scrittura è anche un modo per difendersi dalla perdita della propria personalità, per resistere al degrado fisico e spirituale, per mantenere un rapporto costante con i familiari lontani. «Certo ci troviamo di fronte ad una fonte, quella diaristica, che racconta queste esperienze da una particolare angolatura sociale e culturale. Il più delle volte i diari erano scritti, infatti, da ufficiali, sottoufficiali o comunque soldati con un certo livello di alfabetizzazione», chiosa lo storico.

In questo studio, Ferraro trascrive due diari appartenenti al capitano Bernardo Barberio (1883- 1962). Il primo scritto nel periodo 1915-1916 e ha come focus la vita nelle trincee e nelle retrovie del fronte; il secondo concerne il periodo agosto-novembre 1918, durante i mesi di prigionia di Barberio nel campo di Dunaszerdahely, in territorio ungherese. Lo studio si avvale della prefazione di Antonio Gibelli, tra i più notevoli studiosi della prima guerra mondiale, che fa notare l’importanza della ricerca e come il saggio arricchisce la storiografia in materia. Infatti, il volume di Ferraro, attraverso fonti pubbliche e private (italiane e austro-ungariche), anche inedite, ricostruisce il complesso mondo delle trincee e dei campi di prigionia: la partenza per il fronte, la vita in trincea, i combattimenti, i rapporti con le popolazioni civili e le gerarchie militari; la prigionia nei campi austro-ungarici e i tentativi da parte dei prigionieri di resistere alla fame, al freddo, alla depressione.

Ricco l’apparato bibliografico che impreziosisce le numerose note; interessante la documentazione iconografica riportata nel volume. Meritorio l’Appendice dal titolo I prigionieri di Dunaszerdahely.
L’analitica ricerca ha fornito la possibilità di assegnare un nome ai quasi 700 prigionieri transitati nel campo di concentramento ungherese. Le biografie, infatti, sono state ricostruire attraverso ruoli matricolari, registri di prigionia, stati di servizio, archivi privati (tra cui quello Barberio). Un modo concreto per ricordare a noi tutti -è bene ripeterlo- che quei soldati non furono e non sono numeri ma persone: nomi, cognomi, volti.
Ultima annotazione: Ferraro è studioso che ama le fonti di prima mano, le cerca, le studia, le comunica; avanza interpretazioni e analisi avvalendosi delle più aggiornate questioni metodologiche e, ovviamente, facendo tesoro della conoscenza della bibliografia esistente. Per il suo «Resistere» ha spulciato ben 14 archivi, 6 privati e 7 pubblici. Come in questo caso, così in altri, mette a disposizione dei lettori e degli studiosi questa straordinaria dovizia di fonti per altre ricerche e valutazioni. Basterebbe già tutto ciò per avvicinarsi a questi lavori, certi di trarne fruttuosissimi giovamenti. Fonti, comunque, sempre accompagnati da puntuali e rigorose osservazioni, che stimolano riflessioni e confronti, e non solo tra gli studiosi di storia.

 

Giovanni Pistoia

 


Giuseppe Ferraro è Dottore di Ricerca presso l’Università degli Studi della Repubblica di San Marino
Phd, Contemporary History

 

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